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I fatti di Roma, il banco di prova della contraddizione

(13 Ottobre 2021)

fatti di roma 9 ottobre

I fatti di Roma del 9 ottobre, con l’assalto condotto da spezzoni del corteo no green pass contro la sede nazionale della Cgil, possono alimentare in molti proletari, che sperimentano sulla propria pelle le contraddizioni della società capitalistica e oggi anche gli effetti della pandemia nel capitalismo, un senso di confusione, di spaesamento, di perdita di solidi punti di riferimento, sostituiti da ondate emotive, suggestioni e infatuazioni ideologiche. Il rischio, molto presente, è di essere utilizzati, di finire legati al carro di questa o quella componente di un mondo politico borghese segnato da convulsi mutamenti, da trasformismi repentini, da un susseguirsi frenetico di slogan, mode, formule e capipopolo. Fascisti che inneggiano alla libertà e alla rivoluzione (contro chi? Contro il capitale? Contro gli industriali e gli altri reali poteri economici invece puntualmente “dimenticati” dal popolo no vax-no pass? Contro la dittatura sanitaria ma non contro la dittatura di classe? Vecchi travestimenti “rivoluzionari” riemergono alla luce del sole…), forze che si definiscono di sinistra che si stringono a coorte intorno alle figure simbolo del grande capitale internazionalizzato, che si affidano alla legge e ordine garantiti dai quadri espressi dall’alta finanza, dirigenze sindacali ormai dimentiche della benché minima funzione di organizzazione e guida della lotta, delle rivendicazioni, del conflitto a difesa dei lavoratori, che si crogiolano nella riconosciuta dimensione istituzionale, fiere vestali di una democrazia come sacralizzazione della sottomissione di classe; ci sono elementi in abbondanza per stordire, per ottundere i sensi di chi non dispone di saldi ancoraggi teorici e politici.
È bene, quindi, cercare di proporre qualche considerazione di fondo, sulla scorta di un’analisi classista.
Attribuire sistematicamente alla piazza, ad ogni mobilitazione di piazza, significati progressivi, naturalmente “di sinistra” (e che solo l’ignavia o lo sterile dottrinarismo delle formazioni politiche che si richiamano al proletariato consegna invece alla reazione), è storicamente una grossa stupidaggine. Lo sviluppo e la maturazione del capitalismo e delle sue lotte ha accompagnato il concretizzarsi della possibilità di movimenti di massa pienamente reazionari, la formazione stabile di leve per attivare piazze reazionarie. Il capitalismo maturo ha più volte dimostrato come la forma a cui tende lo scontro politico tra capitale e lavoro, estendendosi e acutizzandosi, sia quella della guerra civile tra masse e organizzazioni di massa contrapposte.
Esistono mobilitazioni di massa con una matrice sociale, espresse da condizioni storiche, che favoriscono massicciamente l’egemonia di componenti politiche borghesi e reazionarie. Non si tratta di improvvisare censimenti-lampo dei dimostranti, per ricostruire il profilo occupazionale di un corteo o di una manifestazione dai tratti politici interclassisti. Ma di saper cogliere a quali interessi di classe sono riconducibili le spinte di fondo della mobilitazione, quale componenti sociali forniscono l’ossatura politica di un movimento, riuscendo, quindi, a imprimere ad esso complessivamente il proprio segno. Questo sforzo di comprensione si impone con particolare costanza in una realtà capitalistica come l’Italia, caratterizzata da una diffusa presenza piccolo borghese, capace di rappresentare una specifica e capillare forma di influenza borghese sul proletariato. In altre realtà potrebbe essere la costituzione di un’ampia aristocrazia operaia (o specularmente di un numeroso sottoproletariato), in condizioni di privilegio e di distacco rispetto alla restante massa proletaria, a fornire un’importante base sociale a mobilitazioni di massa reazionarie.
Trascurare questo impegno all’analisi, illudersi e illudere che sia possibile farne a meno impunemente in ragione dei toni e dei proclami anti-governativi o addirittura anti-statali scaturiti dalla piazza è un altro grossolano errore, gravido di possibili e nefaste conseguenze. La natura borghese dello Stato contemporaneo non è per nulla messa in discussione dal fatto che le frazioni borghesi sono perennemente in lotta per il suo controllo. Se questa lotta si fa particolarmente acuta, se qualche componente borghese avverte la realtà o il pericolo di una accentuata marginalizzazione, se si pone con forza la questione del coinvolgimento nello scontro inter-borghese di masse di manovra proletarie, le forme di questa lotta possono assumere i contorni di una contestazione radicale al potere politico (sistematicamente sottratto però ad ogni ricostruzione dei suoi vitali nessi con la struttura economico-sociale del capitalismo). Quanto la protesta anti-governativa e anti-statale sia confinata nei margini del confronto borghese, della dialettica interna alla classe dominante, e se abbia reali possibilità di sviluppo verso una contestazione realmente rivoluzionaria – necessariamente spostatasi quindi verso un matrice sociale proletaria – lo può dire solo un’analisi corretta delle dinamiche di classe all’interno dell’evoluzione delle contraddizioni e delle criticità della società capitalistica. Fermarsi alle parole, accontentarsi di ciò che un movimento o una piazza dicono di sé, è uno dei più tristemente frequenti presupposti per offrire un contributo all’utilizzo di componenti proletarie nel confronto tra frazioni borghesi.
Come è necessario saper distinguere nei fatti – e mostrare ai lavoratori pazientemente, costantemente con i fatti – la distinzione tra una lotta interna alla borghesia intorno allo Stato (anche quando si colora con i toni e gli accenti più eversivi) e una lotta (che può essere solo proletaria) contro lo Stato della borghesia, così è fondamentale saper cogliere la differenza tra una critica, un’azione politica contro un movimento, un’organizzazione sindacale in quanto ha tradito la propria funzione di lotta e di difesa della classe operaia (ponendo quindi la questione del superamento di quell’organizzazione in nome di una nuova e più coerente forma di lotta e di autodifesa proletaria) e invece l’attacco ad un sindacato in quanto sindacato, in quanto percepito (e come tale avversato) come contrapposizione al pieno e indiscutibile esercizio del predominio di classe capitalistico. Ancora una volta non ci si può limitare alle autorappresentazioni più o meno sbandierate. Spacciare l’irruzione nella sede romana della Cgil come un’espressione di superamento proletario della rappresentanza confederale, come la manifestazione di una rude ma reale coscienza di classe, giunta alla consapevolezza di quanto la Cgil come organizzazione sia ormai inadeguata e persino controproducente rispetto al perseguimento coerente degli interessi proletari, significa aver superato ormai la soglia del delirio politico o della più impudente falsificazione. La testa di ariete che ha sfondato il portone della sede della Cgil ha voluto e riteneva di colpire il sindacato in quanto tale, gli odiati “comunisti” (e non avrebbe certo desistito dal proprio proposito di fronte ad una dettagliata dimostrazione di quanto il sindacato di Maurizio Landini sia distante dagli ideali e dagli obiettivi della lotta di classe di autentici comunisti). La ben più numerosa folla che ha assistito plaudente, senza accennare il benché minimo distinguo, si è mostrata del tutto supina di fronte a questa direzione politica nei fatti, disponibilissima a riconoscerla come tale. Questi sono i fatti, questi sono gli esiti reali di una matrice sociale. Il resto sono desideri scambiati per realtà o illusioni con cui cercare di intossicare la propria e altrui capacità di raziocinio. Sostenere poi che l’aver inquadrato nitidamente come obiettivo un sindacato e, ancora una volta, nessuna delle sedi e delle rappresentanze del potere economico capitalistico, degli interessi di classe che sorreggono il potere politico, sia il frutto di una profonda coscienza della natura nemica di questi interessi, di una acquisita consapevolezza dell’avversa estraneità di Confindustria e simili, radicata, assimilata al punto tale tra i manifestanti no pass da poter porre come bersaglio privilegiato il finto-amico, il ben più pericoloso (in quanto meno percepito come nemico) sindacato traditore, non sarebbe altro che una clamorosa, ridicola presa in giro. La pancia piccolo borghese, l’anima fascista, l’indiscussa vocazione interclassista (che si risolve sempre in una forma di controllo borghese) della manifestazione hanno coerentemente, logicamente, individuato tra i bersagli un sindacato, anche un sindacato squalificatosi più e più volte agli occhi dei lavoratori, anche un sindacato subalterno al gioco politico borghese come la Cgil, non perché sia squalificato e subalterno, ma perché ancora troppo sindacato.
Ancora migliaia di lavoratori compiono il primo passo nel processo di formazione di una coscienza di classe – l’unione, l’organizzazione sul piano della difesa dei propri interessi economici immediati – all’interno della Cgil. È un dato che riconosciamo come gravido di problemi, limiti e contraddizioni. È una contraddizione che, in forme differenti ma con forti analogie nella sostanza, si è più volte riproposta nella storia del capitalismo e della lotta di classe proletaria. È una contraddizione che va affrontata cercando di mostrare ai lavoratori della Cgil, sulla scorta dei fatti e di un tenace lavoro di confronto e di educazione, quanto la dirigenza confederale, le gerarchie e le strutture di questa centrale sindacale, siano ormai intimamente compromesse con gli interessi del nemico di classe, con le esigenze di conservazione del sistema di sfruttamento che schiaccia, calpesta, umilia la forza-lavoro. Strappare il percorso di crescita politica di questi lavoratori dai binari morti e dai sentieri paludosi di burocrazie irredimibili, significa lavorare a costruire alternative concrete, nei fatti e non negli slogan o, peggio, nelle infatuazione ribellistiche per proteste saldamente incastonate negli interessi della classe avversa. La domanda è semplice: inneggiare ad un’aggressione capitanata da fascisti contro la Cgil (favorendo per altro così la circolazione della vecchia moneta falsa del rivoluzionarismo fascista) aiuta od ostacola l’impegno a conquistare quanti più lavoratori della Cgil possibile ad una concezione, ad un’azione, ad un’organizzazione più coerente dal punto di vista di classe? Favorisce la possibilità di inserire un cuneo tra la base operaia e dirigenza opportunista o favorisce un loro ricompattamento? La risposta è chiara e lo diventa ancora di più se si considera come sia del tutto possibile condannare la violenza reazionaria senza fare la minima apertura, la minima concessione alla dirigenza, alle linee guida dell’azione della Cgil. Anzi, è proprio partendo dal dato di fatto della vulnerabilità che la Cgil ha mostrato di fronte all’aggressione a guida fascista che si può sollecitare una riflessione tra i lavoratori iscritti sui frutti deleteri, sugli esiti dannosi di una lunga deriva istituzionale, concertativa, della sempre più vergognosa abiura della formazione nel conflitto di classe, della preparazione ad esso.
Lo squallido spettacolo del segretario generale della Cgil commosso per la solidarietà offerta dalle massime cariche di un Governo che ha palesemente lesinato sulle misure di protezione della sede nazionale del sindacato non smentiscono le ragioni di fondo di un processo di indebolimento, di svilimento che non cessa di toccare sempre nuovi e più infimi livelli. Anzi le conferma ancora di più e ancora più gravi. Un’accozzaglia raccogliticcia e male organizzata ha potuto, una volta che si è dileguato l’esile schieramento difensivo apportato dalle forze dell’ordine del Governo “amico”, impunemente penetrare e bivaccare nella sede nazionale di quella che numericamente rimane la maggiore sigla sindacale italiana. Dov’era un servizio d’ordine degno di questo nome? Dove e quando sono svaniti i cordoni di operai che un tempo avrebbero reso impensabile la grottesca passeggiata “rivoluzionaria”, a beneficio di selfie, nei corridoi e negli uffici della sede nazionale del loro sindacato? Questo vergognoso e imbelle vivacchiare all’ombra delle istituzioni dei padroni è stato reso possibile da decenni di sempre più sfacciato abbandono del contatto con la classe, di sempre più spudorato rinnegamento dei criteri e dei principi della lotta di classe, di un rifiuto ormai giunto all’aperta irrisione dell’esigenza di un’indipendenza di classe. Piagnucolare sulle macerie lasciate dal vandalismo antisindacale della piazza fascistoide e interclassista, sperando di impietosire gli agenti del capitale ai vertici delle istituzioni, significa solo accentuare ulteriormente una già conclamata vulnerabilità, significa preparare il terreno per prossime umiliazioni. Un’organizzazione che voglia essere dei lavoratori e veramente per i lavoratori non può che essere difesa dai lavoratori, non può che cercare nella classe lavoratrice le radici e le sorgenti della propria forza. Da questa consapevolezza si deve ripartire, da questo punto fermo si deve ricostruire. Questo si può dire a quei lavoratori che, in buona fede, ancora si riconoscono nella Cgil. Su questa strada si può cercare di indirizzarli e su questa strada, la strada del lavoro collettivo per ricostituire un polo di organizzazione della forza di classe, della capacità di difesa di classe, si porranno inevitabilmente, oggettivamente, in rotta di collisione con la dirigenza Cgil, con tutto ciò che di guasto e di subalterno decenni di svendita delle capacità e delle risorse organizzative della classe hanno prodotto e diffuso in questo sindacato.
Il quadro sociale e politico del capitalismo italiano mostra accelerazioni, frizioni crescenti e sviluppi sempre più profondamente contraddittori. Le narrazioni politiche, le formulazioni ideologiche si aggrovigliano in un ritmo convulso e il registro dell’effimero si combina e si accompagna con il sordo ribollire di una violenza sociale in espansione nelle profondità delle dinamiche capitalistiche. Le soggettività politiche rivoluzionarie sono chiamate ad intensificare la propria crescita, la propria maturazione, la propria formazione alla grande scuola, vivificata dal confronto costante con il divenire storico, della teoria marxista. Miti dozzinali, false scorciatoie movimentiste, messianismi, pose e fraseologie funzionali al compiacimento individualistico e narcisistico sono da contrastare con estrema energia. Il permanere in misura eccessiva di simili debolezze comporterebbe un amaro prezzo. L’errore, nell’impegno serio e rigoroso di comprensione della realtà sociale in mutamento come base dell’agire politico, potrà forse essere sopportato e superato, magari divenendo fattore di ulteriore crescita. Ma al di fuori di questa dimensione, di questa concezione, non può esserci crescita, non potrà costruirsi la forza all’altezza dei compiti e delle complessità dei grandi urti di classe che, attraverso le sue interazioni e mistificazioni, il corso del capitalismo già prepara.

Prospettiva Marxista

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