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La questione di Kosovo e Metohija e le giravolte serbe

da "nuova unità" n. 7/2021

(20 Dicembre 2021)

In KosMet, la più grande base USA in Europa dopo la tedesca Ramstein

vucic

Aleksandar Vucic

A ventidue anni dall'aggressione alla Jugoslavia, con i 78 giorni di criminali bombardamenti USA e NATO (Italia compresa) degli aerei decollati da basi in Italia e missili lanciati da vascelli della VI Flotta in Adriatico e Ionio, si può concordare col sociologo Zoran Miloševic, secondo cui «L’aggressione NATO capovolse verso occidente le politiche serbe e montenegrine, nel senso che iniziò il disfacimento dell’esercito e il trasferimento delle risorse economiche chiave, la penetrazione dei valori occidentali nel nostro sistema educativo, la subordinazione dei media». Le altalene est-ovest dell'attuale leadership serba sulla questione di Kosovo e Metohija (KosMet), insieme alla bramosia di Belgrado di essere accolta nella UE, ne sono valida testimonianza. Così che la politologa russa Elena Ponomareva dichiara che quell'aggressione non fu che «la fase finale della strategia per il controllo totale USA sui Balcani, i cui piani per la distruzione della Jugoslavia, quale Stato più ricco e strategicamente più importante della regione, erano stati messi a punto molto prima del 1999».
L'aggressione era stata preceduta dagli “incontri di Rambouillet” del “Gruppo di contatto” (USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Russia) su KosMet, conclusi con un “accordo”, in base a cui il territorio sarebbe rimasto sotto amministrazione NATO, come regione autonoma jugoslava, con lo spiegamento di 30.000 soldati NATO, forti di illimitato diritto di transito in territorio jugoslavo e piena immunità di fronte alla legge jugoslava. L'ovvio rifiuto della leadership jugoslava, allora guidata da Slobodan Miloševic, di firmare (nemmeno la Russia firmò) tale obbrobrio, venne preso a pretesto per i quasi tre mesi (dal 24 marzo al 10 giugno 1999) di bombardamenti sulla Repubblica federativa jugoslava.
Con l'accordo sul cessate il fuoco, si riconosceva la sovranità jugoslava su KosMet e si prevedeva la smilitarizzazione dei terroristi dell'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës). Ma era tutta una farsa. Già nel 2000, la CIA organizzava a Belgrado la prima delle sue "rivoluzioni colorate"; il 1 aprile 2001, Milosevic; veniva arrestato a Belgrado con un’accusa pretestuosa, e il 28 giugno veniva rapito dal carcere, trasferito in una base militare USA in Bosnia e, da lì, al tribunale de L'Aja: l'allora primo ministro Zoran Džindžic aveva consegnato Milosevic, in cambio della promessa occidentale di “aiuti” finanziari.
Poi, nel 2008 KosMet si autoproclamava indipendente, subito riconosciuto dai principali paesi NATO; l'UÇK si trasformava in “forza di sicurezza" e occupava i posti chiave al vertice del nuovo “paese”.
Dopo tredici anni, nel 2021, le provocazioni anti-serbe crescono di numero. In più di un'occasione, Belgrado ha messo in assetto di guerra esercito e forze speciali, per uscite kosovare, effettuate sotto la supervisione NATO-KFOR, in aree del nord di Kosovo e Metohija abitate da maggioranze serbe. Ciononostante, una parte dell'opposizione serba accusa il Presidente Aleksandar Vucic di svendere gli interessi serbi e fare tante concessioni a Priština, quante ne richiede Bruxelles per accogliere la Serbia nella UE. In effetti, Belgrado, anche se disponesse del sostegno di Mosca, difficilmente ricorrerebbe davvero alla forza contro le provocazioni kosovare: troppo forte la vocazione NATO e UE di Vucic.
Il politologo russo Mikhail Aleksandrov nota che la leadership serba, compreso Miloševic, non è mai stata ferma nell'ipotesi di un'alleanza militare con Mosca: in caso contrario, avrebbero potuto forse evitare i bombardamenti NATO, e Mosca avrebbe oggi in Serbia una base militare. È molto dubbio che Vucic si decida a un'alleanza militare con Mosca; è probabile che i suoi timori siano legati alla presenza, in KosMet, della più grande base USA in Europa dopo la tedesca Ramstein.

“Camp Bondsteel”
La base yankee di “Camp Bondsteel” – la cui realizzazione iniziò subito dopo la fine dei bombardamenti del 1999 e che era allora considerata la più grande base USA dalla guerra in Viet Nam – consente agli USA di controllare il corridoio Nord-Sud, cioè il commercio tra Europa, Turchia, Medio Oriente e Asia minore. Ora, con l'evidente via libera di Washington, poco distante dalla parte serba di Mitrovitsa, ecco che Priština realizza la più grande base dell'esercito kosovaro, destinata a ospitare “specialisti” anglo-americani e apparecchiature per contromisure elettroniche.
Nel luglio scorso, la giornalista serba Tat'jana Stojanovic scriveva che la leadership di «KosMet separatista non è granché interessata al dialogo con Belgrado, dato che ha già ottenuto dalla dirigenza serba tutto quanto poteva esigere».
I discorsi del Presidente serbo Aleksandar Vucic sul “Mondo serbo”, osservava la Stojanovic, non sono altro che un paravento per consegnare KosMet, e sembrano fatti apposta per esser rigettati. Anche il prof. Dejan Mirovic, dell'Università di Mitrovitsa, giudica tale idea «propagandistico-caricaturale», affinché i serbi si dimentichino della firma di Vucic agli accordi di Bruxelles del 2013, di Washington del 2020, e dei suoi colloqui col Primo ministro di KosMet, Albin Kurti, la scorsa estate, per continuare, sotto egida UE, i negoziati per la firma dell'accordo in base al quale Belgrado riconosce di fatto l'indipendenza di KosMet e gli assegna un seggio all'ONU.
Negli ultimi mesi, sotto egida UE, sono stati organizzati a Bruxelles diversi incontri Belgrado-Priština, oltre a videoconferenze con i leader di Francia, Germania, Serbia e l'autoproclamato KosMet; l'obiettivo è chiaro: Belgrado e Priština potranno accedere alla UE solo se giungeranno a un accordo sanzionato da Bruxelles.
Firmando gli accordi di Bruxelles, dice il nazionalista serbo Mladan Dordevic, originario di KosMet, Vucic ha liquidato ogni elemento dello Stato serbo in Kosovo e Metohija: sciolti difesa civile, amministrazione statale, magistratura, polizia, costretti a prestare giuramento davanti alla "costituzione" e ai simboli di KosMet.

L'accordo di Washington
Nel settembre 2020, con la mediazione di Donald Trump, Belgrado e Priština avevano firmato a Washington l'accordo di "Normalizzazione economica", che prevedeva la costruzione di un'autostrada ad alta velocità e l'apertura di collegamenti ferroviari diretti tra le città, l'adesione di KosMet alla “mini-Schengen” balcanica, creata nel 2019 da Serbia, Albania e Macedonia del Nord. Tale progetto, appoggiato da Vucic, è legato a quello della Grande Albania: dal 2015, infatti, ha la massima priorità l'autostrada Belgrado-Priština-Durazzo, strategica per il trasferimento dall'entroterra adriatico della più forte ala meridionale della NATO.
A Washington, inoltre, Belgrado e Priština si erano impegnate a utilizzare congiuntamente il lago di Gazivode, una delle aree in cui più spesso si sono ripetute le provocazioni kosovare. In cambio della “mediazione” trumpiana, Belgrado e Priština dichiaravano Hezbollah “organizzazione terroristica” e la Serbia dava disponibilità a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma, soprattutto, Serbia e KosMet avevano garantito a Trump “che non sarebbero caduti nella dipendenza energetica dalla Russia e tecnologica dalla Cina”. Lo scorso novembre, però, Vladimir Putin ha concesso ad Aleksandar Vucic un prezzo scontatissimo per le forniture di gas russo, che transita per il tratto serbo del “Balcan stream”. Oltre al gas, Belgrado acquista dalla Russia anche partite di lanciarazzi anticarro “Kornet”. Ma, ora, Trump non è più presidente.
Intanto, in KosMet monta di nuovo la spirale di violenza contro i serbi. Lo scorso settembre si è ripetuta l'ennesima crisi di “frontiera”, mediata poi da NATO e KFOR; in ottobre si sono avuti scontri con diversi feriti a Mitrovitsa settentrionale (la parte della città a maggioranza serba, sede di tutte le istituzioni serbe in KosMet, non riconosciute da Priština). Poi, violenze anti-serbe si sono rinnovate anche a novembre e non accennano a diminuire.
In tale contesto, e in violazione della risoluzione 1244 ONU, che parla di integrità territoriale della Serbia, ecco che il primo ministro albanese Edi Rama ribadisce l'obiettivo di unire KosMet all'Albania, tacendo ovviamente su come la popolazione serba di KosMet continui a subire repressioni, come vengano distrutti luoghi di culto e patrimoni artistici serbi, come si ricorra a qualsiasi mezzo, dalle minacce alle bastonature, agli attentati, per far fuggire da KosMet la popolazione serba.
In ogni caso, dietro le ripetute altalene di semi-accordi, contrasti, strette di mano, scambi di finte cortesie e sgarri, tra Belgrado e Priština, così come dietro i continui cambi di poltrone governative in KosMet, c'è l'aperta mano USA, cui non dispiacerebbe riuscire ad aggregare al proprio carro la Serbia stessa.

La questione di Kosovo e Metohija
In generale, la questione di KosMet si trascina da secoli, tra dominazione ottomana dei Balcani, spinte di allargamento serbe e bulgare con l'appoggio della Russia zarista, insurrezioni della popolazione albanese in KosMet, appoggiate dai Giovani Turchi. La Serbia rivendica da sempre la regione quale culla della tradizione culturale e religiosa ortodossa, sottoposta a 5 secoli di dominazione ottomana, terminata solo con la Prima guerra mondiale. Durante l'occupazione fascista italiana, il Kosovo era unito all'Albania. Dopo la liberazione, era divenuto provincia autonoma serba nella Confederazione jugoslava. Oggi, è uno degli avamposti NATO nella regione.
Insomma, la situazione oggi appare quasi rovesciata, rispetto al periodo in cui nell'Albania del Partito del Lavoro, Enver Hoxha contrastava il corso antisovietico di una Jugoslavia titina, sponsorizzata dall'imperialismo anglo-americano. Oggi, nel continuo giostrare di buona parte dell'élite serba tra est e ovest, Tirana può ben sentirsi autorizzata a rilanciare le mire di una grande Albania, piazzaforte dell'imperialismo USA e UE nei Balcani.

Le memorie di Enver Hoxha
Secondo Enver Hoxha, sin dall'indomani della liberazione e nonostante gli accordi jugo-albanesi, la leadership titina aveva tentato di imporre le proprie “regole”, considerate da Tirana un autentico «attacco all'indipendenza del Partito e dello Stato albanesi». Un esempio, era costituito dalla Convenzione economica, che prevedeva una prematura parificazione monetaria e un'unione doganale, che provocò un'autentica “invasione” del mercato albanese da parte di imprese e privati jugoslavi.
Belgrado, scrive Enver Hoxha, tentò di imporre un piano quinquennale comune, fissandone gli orientamenti, come se l'Albania dovesse integrarsi nell'economia jugoslava, limitandosi a produrre solo materie prime e minerali. A più riprese, Belgrado aveva tentato di mettere le mani anche sui comandi dell'esercito albanese; intorno al 1947, racconta Hoxha, Belgrado aveva chiesto di allontanare dall'esercito i consiglieri sovietici, insistendo per un comando unico con a capo Tito. L'episodio più grave, poi, che Hoxha lamenterà più volte nei suoi vari incontri con Stalin, tra il 1947 e il 1951, era stato quello della pretesa di Belgrado di inviare alcune divisioni in Albania, col pretesto di un ipotetico pericolo di attacco greco. Stando al diario di Andrej Višinskij, Ministro degli esteri sovietico dal 1949 al 1953, Hoxha lamentava che, soprattutto dopo la dichiarazione del Cominform sulla cricca di Tito, i rapporti jugo-albanesi si stessero deteriorando, con incidenti di frontiera, sabotaggi, e agenti titini che fomentavano l'emigrazione albanese verso la Jugoslavia.
Oltre alle provocazioni greche, italiane e anglo-americane, Hoxha si lamentava con Stalin che aerei jugoslavi fossero atterrati a Tirana in violazione delle norme interstatali: «Di tanto in tanto, dissi, i compagni jugoslavi si lasciano andare, senza avvisarci, ad azioni riprovevoli di questo genere. Amicizia a parte, non possiamo permettere loro di violare la nostra integrità territoriale». Nell'incontro con Stalin del marzo 1949, Hoxha lamenta la «politica nazional-sciovinistica e colonialistica della direzione trotzkista jugoslava», ricordando che «già nel periodo della guerra eravamo stati oggetto di questi malintenzionati intrighi». Nella stessa occasione, «informai il compagno Stalin della politica di efferato terrore seguita dalla cricca di Tito verso gli albanesi in Kosovo, Macedonia e Montenegro. (…) il Kosovo e le altre regioni jugoslave, abitate da albanesi, sono state trasformate dai titisti in centri di raccolta di traditori albanesi e spie».
Di nuovo nel 1949, Hoxha parla a Stalin della «politica antimarxista, nazionalista e sciovinista che seguiva la cricca titista contro l’Albania e gli altri paesi a democrazia popolare (...) Se il Partito Comunista di Jugoslavia si fosse mantenuto su sane posizioni marxiste-leniniste, avrebbe dovuto dare, già durante la Lotta Antifascista di Liberazione Nazionale, una particolare importanza alla questione della popolazione albanese in Jugoslavia, poiché si tratta di una minoranza etnica numerosa che vive lungo le sue frontiere con l’Albania. (…) L’essenziale era che gli albanesi del Kosovo e delle altre regioni della Jugoslavia fossero sicuri e convinti che, combattendo il fascismo a fianco dei popoli della Jugoslavia, dopo la vittoria sarebbero stati liberi e avrebbero avuto tutte le possibilità di decidere del loro futuro, di decidere dunque se unirsi all’Albania o restare nell’ambito della Jugoslavia come entità avente uno status particolare. (…) Ma, aggiunsi, come dimostrò la realtà, alla direzione jugoslava non andavano a genio queste giuste e indispensabili richieste e quindi non solo essa faceva delle dichiarazioni di principio molto vaghe, ma per bocca di Tito accusò di “deviazione nazionalista” sia noi che quei compagni jugoslavi che consideravano fondate le nostre richieste».
Stalin, scrive Hoxha nelle memorie, si disse d’accordo con la nostra posizione: «Tito, proseguì il compagno Stalin, oltre che seguire una politica antimarxista verso il Kosovo, ha cercato di annettersi anche l’Albania. Ciò apparve chiaro quando Tito tentò di dislocare le sue divisioni in Albania. Noi ci opponemmo a quest’azione».
Nel luglio 1946, ricorda Hoxha in altre memorie, alla firma del Trattato di amicizia, cooperazione e reciproca assistenza tra Repubblica Popolare d’Albania e Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, «Tito mi chiese cosa pensassi della questione del Kosovo. Il Kosovo e le altre regioni abitate da popolazioni albanesi in Jugoslavia, gli risposi, sono terre albanesi, che le grandi potenze hanno ingiustamente strappato all’Albania; esse appartengono all’Albania e debbono esserle restituite. Ora che i nostri due paesi sono socialisti, esistono le condizioni per una giusta soluzione del problema. Tito disse: Sono d’accordo, questo è anche il nostro desiderio; ma per il momento non possiamo fare nulla, perché i Serbi non lo comprenderebbero». «Se non lo comprendono oggi, replicai, dovranno comprenderlo domani».
Ma, oggi, non ci sono più né Stalin, né Hoxha; non ci sono più né l'Unione Sovietica, né l'Albania socialista. E la Jugoslavia (quel che ne restava dopo le secessioni slovena, croata, bosniaca) è finita nel 1999 sotto le bombe NATO.

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