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Raffaele De Grada 1916 2010

Raffaele De Grada 1916 2010

(4 Ottobre 2010) Enzo Apicella
E' morto all’età di 94 anni Raffaele De Grada, comandante partigiano, medaglia d’oro della Resistenza, critico d'arte.

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SPARTACO, IL PRIMO RIVOLUZIONARIO

(9 Gennaio 2022)

«La vittoria sarà nostra perché Spartacus significa fuoco e spirito, anima e cuore, violenta azione della Rivoluzione proletaria. Spartacus significa tutte le miserie, tutto il desiderio di felicità del proletariato. Significa il socialismo, la rivoluzione mondiale».

R. Luxemburg

spartaco manifesto

Lo scorso 2 dicembre il competente antichista Luciano Canfora ha pubblicato sul Corriere della Sera un articolo dal titolo significativo: “Spartaco il primo partigiano”. Un titolo certamente ad effetto, per quanto ambiguo e, per certi versi, forzato.

Canfora esordisce citando una famosa lettera di Karl Marx ad Engels del 27 febbraio 1861, nella quale Spartaco viene definito «autentico rappresentante (real representative) dell’antico proletariato», e osserva molto correttamente come vada assolutamente «Scartata l’idea che si tratti di una sortita estemporanea (ipotesi del tutto arbitraria anche se piuttosto diffusa)» e che «quelle parole vanno prese sul serio». Siamo d’accordo con Canfora, per quanto la spiegazione che lo storico fornisce per sostanziare il suo giusto rilievo ci lasci piuttosto insoddisfatti, così come ci risulta decisamente ambigua la sua definizione di Spartaco come “primo partigiano”.

Canfora afferma, facendo dell’ironia su certa storiografia “critica” dell’interpretazione marxiana:

Marx adopera poi una parola molto impegnativa quando scrive «rappresentante dell’antico proletariato». Apriti, cielo. Quante gaffe tutte insieme ha commesso quest’uomo! E non si è reso conto di quante sofisticate prose accademiche tardo-novecentesche ce l’hanno messa tutta per dimostrare che gli schiavi non erano una classe sociale e che chi sa cos’erano?

Non saremo certamente noi ad inorridire di fronte ad una definizione di Marx che riteniamo perfettamente calzante, tuttavia, Canfora dovrebbe illustrarci perché lo schiavo antico apparteneva ad una “classe sociale” che rappresentava nel modo di produzione schiavista l’analogo di ciò che il proletariato moderno rappresenta nel capitalismo, mentre si limita a scrivere che Marx:

Ricorreva a una analogia diagnostica. I moderni che gli fanno la lezione non hanno compreso il senso delle sue parole.

Detto con il massimo rispetto, un’“analogia diagnostica” ci sembra decisamente pochino. Canfora prosegue descrivendo quelle che secondo il suo parere sarebbero le analogie che aveva in mente Marx:

La figurazione […] è di immediata evidenza: i padroni — prima l’apparato militare romano, poi la feroce scuola gladiatoria — hanno messo, proprio loro, nelle mani di Spartaco e dei suoi compagni le armi che a loro volta essi hanno adoperato, ribellandosi, contro i padroni e contro le legioni che via via la terrorizzata Repubblica imperiale inviava contro di loro.


È esattamente ciò che, nell’analisi di Marx, «il capitale» fa, in quanto crea, nella catena produttiva tesa al sempre maggior profitto, il suo «becchino» (come scrive al termine del primo capitolo del Manifesto), cui fornisce «le armi» che costui rivolgerà contro chi lo sfrutta. Acquisita, beninteso, la coscienza della propria condizione e dell’insensatezza del meccanismo in cui lo «sfruttamento» degli uni e il «profitto» degli altri sono indissolubilmente legati. La presa di coscienza dello sfruttato è dunque il passaggio necessario. E infatti le parole – riferite da Appiano – con cui Spartaco convince i compagni sono il segno della presa di coscienza: «Dobbiamo rischiare la vita (ciò che i gladiatori fanno di continuo con le armi fornite dai padroni) per la libertà, non più per dare spettacolo e divertimento» ai padroni.

Queste analogie, per quanto indubbiamente pertinenti, non ci sembrano decisive nello spiegare l’affermazione di Marx, e ci permettiamo di andare un poco più a fondo di Canfora nel definire la guerra servile come una lotta di classe rivoluzionaria.

Quando si parla del modo di produzione schiavistico il termine schiavo connota una posizione di classe definita da un rapporto di produzione. Questo rapporto di produzione è caratterizzato dal fatto che il produttore (lo schiavo) è instrumentum vocale, è un mezzo di produzione per il non-produttore (il padrone di schiavi), e dal fatto che, in quanto mezzo di produzione, è separato dagli altri mezzi necessari alla produzione allo stesso modo in cui lo sono due mezzi materiali qualunque e così come lo è il moderno proletario; che la riunione di questi differenti mezzi (i mezzi materiali e il lavoratore) non può essere realizzata dallo schiavo ma deve essere realizzata dal non-produttore (lo schiavo lavora sotto la direzione del padrone), esattamente come non può essere realizzata dal moderno proletario; e infine, poiché è concepito come un mezzo di produzione e non come un lavoratore, lo schiavo non può appropriarsi di nulla di ciò che risulta dal processo di produzione, tanto quanto il moderno proletario. Il prodotto appartiene infatti totalmente al non-produttore ed è solamente perché il lavoratore deve essere conservato (mantenuto in vita e in forze) come qualsiasi altro mezzo di produzione che una parte del prodotto è destinata al suo consumo (si tratta della parte che corrisponde al lavoro necessario, essendo il resto pluslavoro).

Alcuni storici negano che quello tra schiavo e padrone costituisca un rapporto di classe, adducendo la circostanza che questo rapporto nasce da una violenza extra-economica: la guerra, i debiti, ecc. e da quella stessa violenza viene conservato. Dal punto di vista marxista però, nella misura in cui si definiscono le caratteristiche economiche della società schiavista, con il termine schiavo si intende una ben definita collocazione all’interno dei rapporti di produzione, operando una precisazione rispetto alla condizione giuridica di schiavo, alla mancanza di libertà personale, che è comune ad altre figure sociali estranee alla produzione.

Nel caso dello schiavo infatti la confusione, intenzionale o meno, è dovuta al fatto che il termine viene utilizzato sia per designare il rapporto di produzione che il rapporto sociale fondamentale nella società antica classica, per il quale è necessario che, affinché il lavoratore sia considerato come un mezzo di produzione, egli sia totalmente dipendente, totalmente privo di libertà, appartenente, come un oggetto o un animale, al suo padrone. In effetti, il rapporto giuridico padrone-schiavo può applicarsi a tutt’altro terreno che quello della produzione, e costituisce la forma generale dei rapporti sociali antico-classici. Schiavo è sia il precettore che la concubina, il sorvegliante come il domestico e il gladiatore, ma lo schiavo che definisce il rapporto di produzione schiavista in quanto tale (e quindi la posizione economica che lo definisce come membro di una classe) è esclusivamente lo schiavo produttivo.

Spartaco non era uno schiavo produttivo, e una semplice ribellione di gladiatori – persino di tutti i gladiatori della Repubblica – non avrebbe potuto scuotere Roma dalle fondamenta, ma lui e i suoi 74 gladiatori ribelli scatenarono una vera e propria insurrezione di schiavi produttivi. Una volta fuggiti dalla scuola gladiatoria di Capua si mossero infatti di villa rustica in villa rustica per liberare tutti gli schiavi dei campi, i quali a migliaia risposero entusiasticamente al suo appello, massacrando i propri sorveglianti e i propri padroni. Anche numerosi schiavi domestici – eccettuati quelli le cui condizioni di vita erano tali da condurli a ritenersi parte della familia patrizia o a identificare i propri interessi con quelli del padrone (esisteva anche allora questa particolare tipologia di schiavi che adorano le proprie catene…) – si unirono a Spartaco, Crisso, Gannico ed Enomao; per contro, numerosi furono quelli che Appiano chiama eleutheroi ek tòn agròn, contadini italici, proletari rurali, liberi ma immiseriti dai latifundia, che accorsero ad ingrossare le fila di quello che divenne un vero e proprio esercito servile.

Nel suo articolo Canfora scrive che l’isomoiria praticata da Spartaco, ovvero la redistribuzione in parti rigorosamente uguali per tutti del bottino di ogni razzìa, costituirebbe:

Una forma dunque di comunismo elementare, come strumento di auto-organizzazione di un esercito di partigiani, di combattenti che debbono alimentarsi prelevando risorse vitali dal territorio che attraversano


Plausibilmente l’isomoiria giocò un ruolo importante nel saldare attorno a Spartaco gli schiavi ribelli, ma ci permettiamo di osservare che questo tipo di spartizione egualitaria, oltre a non rappresentare una qualche forma di comunismo – né elementare, né d’altro tipo – ancor meno ci sembra costituire un elemento che permette di classificare il movimento spartachiano come un movimento “partigiano”. L’isomoiria è stata spesso praticata anche da pirati e predoni, quanto al prelievo di risorse dal territorio compiuto da forze combattenti, l’attento storico sicuramente è a conoscenza del fatto che si è trattato di una prassi millenaria di tutti gli eserciti, regolari o irregolari, dall’antichità fino almeno alle guerre napoleoniche (e anche in seguito in determinate aree del mondo) e che lo stesso esercito romano viveva a spese del territorio che occupava. L’organizzazione di vettovagliamenti e rifornimenti, provenienti dalle retrovie di un esercito estraneo al territorio in cui si svolgono le operazioni belliche, è una prassi relativamente recente, figlia dello sviluppo industriale del capitalismo.

Nel suo testo Canfora, con ogni evidenza, si riferisce al concetto tecnico-militare del termine “partigiano”, inteso come “guerrigliero”, argomento trattato ampiamente da Clausewitz nel suo Vom Kriege, da Bianco di Saint Jorioz nel suo Della guerra nazionale d’insurrezione per bande e da Carl Schmitt nella Teoria del partigiano. Eppure, il titolo del suo articolo gioca astutamente sull’ambiguità dovuta all’accezione che ha assunto in Italia il termine partigiano, con riferimento alla “guerra partigiana” antifascista combattuta nel 1943-45. Nel condivisibile intento di confutare alcune “vulgate” storiche approssimative, che si sforzano di contestare la validità dei criteri interpretativi del materialismo storico di Marx negando il carattere rivoluzionario della rivolta servile del 73-71 a.C., o negando il suo essere manifestazione di una “lotta di classe”, Canfora conferma l’interpretazione di Marx, con l’ausilio delle fonti storiche, in primis Appiano di Alessandria. Quello che non ci convince è l’identificazione del rivoluzionario con il partigiano, che si tratti del significato tecnico-militare del termine o della sua accezione politica.

È strano che Canfora, sottolineando la pratica dell’isomoiria menzionata da Appiano, abbia omesso di descrivere altre modalità organizzative della comunità spartachiana descritte dallo stesso storico di Alessandria, ad esempio la proibizione, laddove gli schiavi stabilivano i propri accampamenti, del possesso e della circolazione di oro e argento, che una volta razziato, invece di essere suddiviso in parti uguali come avveniva per i generi di prima necessità, almeno stando a quanto ci viene riportato da Appiano, veniva centralizzato e ceduto interamente a mercanti per ottenere in cambio il ferro e il bronzo necessari a forgiare nuove armi, oltre a quelle ottenute dalla fusione delle catene servili spezzate, come ci ricorda Floro.

L’oro deve servire solo ad ottenere ferro. Il denaro è abolito e quello di cui si entra in possesso viene alienato completamente in cambio di spade e lance. Una prassi decisamente più eversiva di una semplice spartizione del bottino, una decisione di natura chiaramente politica; una vera e propria dichiarazione di guerra contro un intero mondo ostile che, non diversamente da quello attuale, faceva della ricchezza la misura di ogni cosa; un appello forte come il tuono che fu in grado di chiamare a raccolta attorno al nucleo di gladiatori ribelli il sentimento di riscossa di moltitudini di schiavi disumanizzati della penisola italica. Come scrive Aldo Schiavone, il messaggio lanciato implicitamente da Spartaco, era di per sé, in una certa misura, “un programma e un annuncio”[1].

È importante ricordare che, sempre stando alle scarse fonti antiche, gli schiavi che fuggivano per loro conto per unirsi alla rivolta e quelli che venivano liberati nel corso degli attacchi alle ville romane, che si trattasse di donne, di anziani o di bambini, venivano accolti nella comunità e sfamati attingendo al fondo comune, mentre a tutti gli uomini abili alle armi veniva impartito un severo e qualitativamente non disprezzabile addestramento militare, tale da renderli capaci di affrontare la più formidabile macchina bellica del mondo antico in campo aperto e di sconfiggerla ripetutamente. Sono queste le caratteristiche di una guerra partigiana? Che fine hanno fatto il piccolo numero e la rapidità di movimenti, criteri fondamentali per qualsiasi capo partigiano? Certamente i gladiatori ribelli, quantomeno nelle prime fasi della rivolta, quando dopo la fuga si rifugiano alle pendici del Vesuvio, hanno praticato con grande abilità l’arte della guerriglia, del mordi e fuggi, degli attacchi notturni a sorpresa e delle imboscate. Ma una guerra partigiana, nella misura in cui basta a sé stessa e intende rimanere tale, non rappresenta il metodo di lotta di un movimento rivoluzionario. I gladiatori potevano fuggire alla spicciolata dalla penisola, vivacchiando nel frattempo di piccole rapine o di brigantaggio, e se si fosse imposto questo obiettivo nel campo dei ribelli, la guerra di guerriglia sarebbe certamente stata sufficiente ad affrontare le pattuglie romane. Eppure, Spartaco e i suoi dovevano avere qualche altro obiettivo in mente quando accettarono tra le loro file gli schiavi fuggitivi e quando organizzarono sistematicamente spedizioni per liberarne e reclutarne altri. Quello partigiano è soltanto un metodo di conduzione della guerra e se è vero che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi allora non è il metodo a stabilire lo scopo ma è al contrario lo scopo, e le forze a disposizione, che determinano il metodo. Non è la guerra partigiana o qualsiasi altro tipo di conduzione della guerra a determinare la natura di un movimento sociale. La guerra di Spartaco fu una guerra rivoluzionaria in virtù dei suoi obiettivi e venne condotta come guerra partigiana soltanto fino a quando le forze disponibili non permisero di ingaggiare battaglia in campo aperto, perché è solo in campo aperto che il nemico può essere distrutto.

Altro elemento di non banale importanza, Spartaco e i suoi organizzarono una intera comunità con elementi delle etnie più disparate, unite solamente dalla comune condizione servile, e cosa rappresenta questo affasciarsi di individui diversi per provenienza, lingua, cultura e tradizioni se non una forma di coscienza di appartenere ad una stessa classe? Se è vero che la componente gallico-germanica ad un certo punto si autonomizzò fino a separarsi dall’esercito spartachiano, questo avvenne sotto la pressione di serie difficoltà, mentre il resto dell’esercito rimase compatto fino alla sua tragica fine.

Nel suo articolo Canfora scrive:

È ovvio, infatti, che gli schiavi in rivolta, nelle antiche società schiavistiche, non puntano ad instaurare «l’Ordine Nuovo», puntano, come diceva Spartaco, alla «libertà». Il che, nelle rivolte schiavili siciliane dell’ultimo trentennio del II secolo a.C., significò auto-organizzarsi creando un «regno degli schiavi» nelle aree dell’isola da loro controllate, mentre nel caso di Spartaco e dei suoi significava andarsene dall’Italia e raggiungere paesi fuori della tenaglia strangolatoria della Repubblica imperiale romana.

Canfora ha ragione nello schernire chi nega il carattere rivoluzionario dell’insurrezione di Spartaco pontificando sul fatto che non esisteva tra gli schiavi un “programma” definito, un “progetto” minuzioso di società alternativa, ma a nostro parere commette un errore dando credito all’idea che lo scopo degli schiavi ribelli fosse quello di cercare la libertà al di là delle Alpi, magari per organizzare la propria vita nelle rispettive terre d’origine in forme simili a quelle del “regno degli schiavi” di Euno, instaurato e soffocato nella Sicilia di circa sessant’anni prima.

Sempre Appiano ci ricorda che, ad un certo punto, senza più nessun esercito romano a sbarrargli la strada delle Alpi, l’esercito di Spartaco inverte la propria direzione e… marcia su Roma.

Ben strana fuga quella di chi, invece di dividersi in unità più piccole per rendersi meno individuabile, crea un’intera comunità, con le sue leggi e i suoi costumi, accogliendo, almeno fino ad un certo punto, chiunque voglia farne parte e forgia un esercito addestrato ed equipaggiato per difendere questa comunità, un esercito capace di sconfiggere per almeno nove volte le legioni romane; ben strana fuga quella di chi, quando la strada per andarsene indisturbati è completamente libera, decide di dirigersi direttamente sulla capitale del nemico per schiacciarne la testa.

È verosimile che tra gli schiavi non esistesse nessun programma, nessun progetto di “ordine nuovo”, se non forse in forme confuse, germinali e mistico-religiose, eppure il loro moto fu di classe e fu oggettivamente rivoluzionario.

Il modo di produzione schiavista, prodotto di un certo grado di sviluppo delle forze produttive, costituiva un binario morto per l’ulteriore evoluzione delle forme sociali. L’uso intensivo ed estensivo della manodopera servile, l’identificazione di qualsiasi lavoro produttivo con la schiavitù, non permettevano nessuno sviluppo ulteriore delle forze produttive sociali. Importanti invenzioni e ritrovati tecnici non vennero mai utilizzati nella società greca e romana (se non a scopi bellici) perché l’esistenza della manodopera servile rendeva assolutamente inutile per i liberi qualsiasi macchina che rendesse più produttivo il lavoro servile: finché gli schiavi costavano poco, era sufficiente accumularli per ottenere più prodotto. D’altra parte, lo schiavo, mero strumento di produzione senza nessuna voce in capitolo nell’organizzazione del suo stesso lavoro e che non beneficiava minimamente dei suoi risultati, non poteva avere nessun interesse allo sviluppo delle forze produttive – e in ciò sta la grande differenza con il moderno proletario – ma solo quello di liberarsi individualmente dal giogo, oppure, con maggiore coscienza, di distruggere lo schiavismo. In entrambi i casi allo scopo di diventare un libero lavoratore, un libero contadino. Rivoltandosi, lo schiavo si scagliava oggettivamente contro un modo di produzione senza sbocchi e incapace di evoluzione, un modo di produzione che si aggroviglierà nelle sue interne contraddizioni precipitando nell’agonia plurisecolare della “comune rovina delle classi in lotta”, fino a quando la “collisione esterna” delle invasioni germaniche non salverà forme di produzione sorte sul cadavere dell’impero – le quali, benché arretrate, erano germogli suscettibili di sviluppo – distruggendo quel che rimaneva dello schiavismo e delle sue sovrastrutture statali.

Stante il livello di sviluppo delle forze produttive, la vittoria di Spartaco e del suo esercito servile non poteva storicamente rappresentare il superamento del modo di produzione schiavista di Roma, ed effettivamente quello stesso modo di produzione non era di per sé in grado di innescare nessun processo di sviluppo delle forze produttive che arrivasse al punto di premere fino alla rottura dei rapporti di produzione, per stabilire una superiore, più razionale organizzazione di quelle stesse forze produttive. Per questo la distruzione di quel modo di produzione, pur non potendo rappresentare un passo in avanti nella scala evolutiva sociale, costituiva ad ogni modo un atto rivoluzionario, nella misura in cui eliminava un potentissimo ostacolo al possibile sviluppo di forze produttive che sarebbero rimaste altrimenti perennemente arretrate, oppure distrutte nel crollo della società. La vittoria di Spartaco, l’abolizione dello schiavismo, avrebbe probabilmente rappresentato storicamente un relativo passo indietro verso la restaurazione dei piccoli agricoltori liberi, magari passando prima attraverso forme di coltivazione egualitaria che inevitabilmente, data l’arretratezza, si sarebbero presto disgregate nella piccola proprietà – un ritorno alle origini della stessa società romana, come quello che i Gracchi avevano vagheggiato senza individuare quale potesse essere la forza sociale capace di realizzarlo – ma un passo indietro per uscire da un vicolo cieco ed imboccare un cammino più fecondo. Ha ragione Engels quando, scevro da qualsiasi sentimentalismo, afferma che senza la civiltà classica, fondata sull’attribuzione esclusiva del lavoro produttivo ad una classe di schiavi che permetteva ad una parte della popolazione di dedicarsi allo sviluppo dell’arte, della scienza e della filosofia, non esisterebbe il pensiero moderno e neanche il socialismo[2]. Ma all’epoca di Spartaco il mondo antico aveva già dato gran parte di quello che poteva dare in questi campi, e non c’è ragione di credere che i tesori della conoscenza e del pensiero, prodotti indirettamente grazie al lavoro degli schiavi, sarebbero andati persi se questi avessero distrutto la società antica, così come non andarono perduti in seguito alle invasioni germaniche. La sconfitta di Spartaco posporrà di secoli la ripresa del corso dell’evoluzione sociale, permettendo ad una società già condannata di percorrere per intero il cammino che dagli splendori dell’Impero la condurrà ad una lunga stagnazione, alla decadenza ed infine al collasso.

Canfora definisce Spartaco un partigiano perché per lui partigiano è sinonimo di rivoluzionario e forse perché l’appellativo di partigiano è socialmente e culturalmente più accettabile di quello di rivoluzionario. Per noi il partigiano non è necessariamente un rivoluzionario, per questo rivendichiamo per Spartaco – uno dei primi e più coraggiosi rivoluzionari della storia – il titolo che riteniamo gli sia dovuto, e per questo ogni autentico rivoluzionario sarà sempre orgoglioso di scrivere il nome di Spartaco sulla propria bandiera.

Spartaco non ebbe i privilegi della posizione sociale e della cultura da cui trassero vantaggio un Alessandro Magno, un Annibale, un Cesare, ed è questo che fa di lui, per Marx, “uno dei migliori protagonisti dell’intera storia antica. Un grande generale”, uno schiavo le cui battaglie, le sue vittorie e la sua sconfitta, sono ricordate ancora oggi al pari di quelle – assai meno degne – di Alessandro Magno, Annibale e Cesare. Un uomo – stando a Plutarco – probabilmente iniziato agli antichi misteri di Dioniso, divinità che, con buona pace del povero Nietzsche, era venerata soprattutto dagli schiavi per la carica sovvertitrice di ogni ordinamento e costume sociale stabilito implicita nel suo culto e nei suoi riti. Un uomo che restituì, con la lotta, dignità e rispetto di sé a uomini e donne che per il mondo antico erano meno che uomini e donne, poco più che bestie, semplici articoli da comprare e vendere, punire o sopprimere. Diede loro una morale: la morale secondo la quale chi produce, con la sua forza, con la sua intelligenza, tutto quanto esiste di buono e di bello a questo mondo deve goderne, mentre chi vuole vivere parassitariamente sfruttando il lavoro del suo prossimo, e difende con la violenza e la menzogna questa sua pretesa, deve essere ricondotto alla ragione, o schiacciato. La morale della forza e della vita contro la morale della decadenza e della morte, la vera morale degli schiavi contrapposta a quella dei padroni. In poche parole: la nostra morale e la loro.

Nel suo romanzo I gladiatori, dedicato alla rivolta di Spartaco, Arthur Koestler compendia con forza ed efficacia questa etica:

…”BEATI COLORO CHE IMPUGNANO LA SPADA PER PORRE FINE AL POTERE DELLE BESTIE, COLORO CHE ERIGONO TORRI DI PIETRA PER GIUNGERE ALLE NUBI, CHE SALGONO LA SCALA PER BATTERSI CON L’ANGELO; PERCHE’ LORO SONO I VERI FIGLI DELL’UOMO.”


NOTE

[1] A. Schiavone, Spartaco, le armi e l’uomo, Einaudi, Torino, 2011.

[2] F. Engels, Antidühring, Editori Riuniti, Roma, 1971.

Circolo Internazionalista "Coalizione Operaia"

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