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La spada dell'Islam

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(2 Settembre 2010) Enzo Apicella
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    ISIDORO AIELLO: IL MARE DI SENOFONTE

    Un nuovo libro di poesie

    (17 Gennaio 2022)

    Poesie "mitiche" per cambiare il mondo

    edizionifarfalle 2

    Da edizionilefarfalle.it

    Bartolo Cattafi ha indubbiamente esercitato un fascino sulle successive generazioni di poeti che hanno operato nella sua città natale, Barcellona Pozzo di Gotto, per il lavorio esistenziale ch’essi hanno individuato dietro le sue poesie, per il simbolismo, a volte estremo, che, comunque, è sembrato evocativo di qualcos’altro che il lettore più consapevole deve scoprire e riscoprire in se stesso. Spesso questi poeti sono andati con la loro fantasia e creatività poetica molto oltre gli orizzonti prefigurati da Cattafi, il quale ha più volte confessato di scrivere sotto l’effetto d’un impulso “biologico”, senza un “progetto” predeterminato. E del soddisfacimento di un bisogno «biologico» ha parlato pure uno dei maggiori critici di Cattafi, Giovanni Raboni, a proposito del riesplodere nel poeta barcellonese, dopo anni di silenzio, delle poesie de L’aria secca del fuoco (1972), come se un vulcano, all’improvviso, fosse ridiventato attivo, eruttando lava in maniera torrentizia, inarrestabile, tanto che il poeta, per liberarsi di questo magma incandescente, si alzava dal letto ripetutamente nella notte per tradurre in versi il flusso inesorabile, rispondente, per l’appunto, a forze arcane, «biologiche».
    Isidoro Aiello, classe 1963, originario di Bagheria, ma insediato a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), dove ha conseguito la licenza liceale classica, per poi laurearsi in Economia e commercio all’Università di Messina e impegnarsi a fondo nell’azienda agricola di famiglia, ha al suo attivo diverse raccolte di poesie: L’essenziale, Il Girasole Edizioni, Valverde (Catania), 2004; Colombe vittoriose, ivi, 2007; Clessidre, Il Gabbiano, Messina, 2009; Tela di ragno, Il Girasole Edizioni, Valverde (Catania), 2011; Chitarre ritrovate, Edizioni Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto, 2013; Il mare di Senofonte, Le farfalle, Valverde (Catania), 2015; Poesie scelte (2004-2015), ivi, 2016; Crittogrammi, ivi, 2019. Al Premio nazionale «Bartolo Cattafi» 2007/2008 ha ricevuto una menzione d’onore per un giovane autore con la succitata silloge Colombe vittoriose.
    Isidoro Aiello è stato considerato dalla critica un «cattafiano» per eccellenza, per la brevità dei suoi versi, per la carica simbolica in essi contenuta. ma è tra quei poeti di nuova generazione che hanno saputo andare oltre Cattafi e le sue suggestioni poetiche, seguendo un percorso originale. In Cattafi spesso la poesia si perde nel catalogo degli oggetti, non riuscendo a palesare il loro significato simbolico, ammesso che il poeta voglia darne ad essi uno, che voglia inserirli in un “progetto”, in una “strategia comunicativa”. La poesia vive in lui di vita propria, autonoma, la parola fluisce innamorandosi di se stessa, dando viva ad un “semacosmo”. Isidoro Aiello, per converso, riesce a sfuggire, come Flaubert, secondo l’interpretazione di Erich Auerbach, alla «mistica degli oggetti», persegue per il loro tramite un fine conoscitivo: «Alfieri e Ulisse / entrambi legati / con forti corde /l’uno alla sedia / per studiare / l’altro all’albero / maestro della nave / per ascoltare / il canto delle sirene: /la tentazione della conoscenza (Legami, in Il mare di Senofonte, cit., p. 72).
    C’è, al fondo della poesia di Isidoro Aiello, l’ansia conoscitiva che sta alla base del «mito» greco, che Nietzsche ha saputo indagare senza timori reverenziali, individuando in Socrate colui che ha messo fine alla tragedia superando l’equilibrio tra spirito apollineo e spirito dionisiaco. Uno sforzo, quello nicciano, volto a «scandagliare l’anima», secondo Isidoro Aiello, per trovare risposte: «Forse sei ancora abbracciato / a quel cavallo di Torino / sei una corda tesa fra due torri / scandagliare l’anima è il tuo mestiere. / E così sarebbe tutto umano / troppo umano? / A volte invidio i tuoi baffi / la tua aria trasognata» (Nietzsche, ivi, p. 12). Ed io ricordo Isidoro, mio compagno di classe al ginnasio, apparentemente assente, «trasognato», come Nietzsche, lontano con i suoi pensieri dalle lezioni scolastiche, ma in realtà presente, ma proiettato in avanti, pensoso, impegnato a riflettere, magari ancora in forme elementari, sul significato di quel «mito» greco che i professori cominciavano a rappresentarci. Entrambi, poi, pur seguendo strade diverse nella vita, abbiamo continuato a riflettere sul mito, sulla sua dimensione di «racconto», che apparentemente parla di dei, semidei ed eroi, ma in realtà, come ha osservato Mario Untersteiner, recensendo nel 1947, al loro primo apparire, i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, parla degli eterni problemi degli uomini.
    Isidoro Aiello vive nella Magna Grecia, così chiamata perché, ad un certo punto, i coloni greci che l’abitavano divennero più numerosi di coloro che vivevano nella madrepatria. E la sua poesia è impregnata del «mito» classico greco. La sua opera più importante, a mio avviso, è Il mare di Senofonte, che richiama simbolicamente l’impresa dei mercenari greci, i quali, chiamati da Ciro il Giovane a sostenerlo con le armi nello scontro che l’opponeva al fratello Artaserse II per la successione al trono di Persia al padre Dario II, morto nella battaglia di Cunassa il contendente che li aveva assoldati, sono costretti ad una lunga marcia, piena di insidie e di scontri con l’esercito persiano di Artaserse II, finché arrivano a Trebisonda, e, alla vista del Mar Nero e, di fronte, della madrepatria, gridano «thálatta, thálatta». Il mare, dunque, come fonte di salvezza, ma anche del mistero della vita, che impone uno sforzo conoscitivo agli uomini, e, in particolare, ai poeti. Ritorna l’immagine di Ulisse e del suo «nóstos» infinito, ma anche quella de Il vecchio e il mare di Hemingway, della sfida che il vecchio marinaio lancia a se stesso nel confronto con il mare, con la sua forza arcana, che sembra essere depositaria di tutti i misteri dell’universo. Un’immagine, questa, che forse è stata presente alla mente di Isidoro Aiello nella composizione della poesia Amo: «Pazientemente il pescatore / attorciglia la lenza all’amo. / In genere l’esca migliore / è l’acciuga salata. / Non si sa se sia più stanco / di vivere il pescatore o il pesce. / In ogni caso un destino li lega: / il mare» (Amo, ivi, p. 66).
    Entra qui in gioco il destino, che, grecamente, sovrasta gli uomini. Cesare Pavese, occupandosi di Melville, ha sottolineato il furore conoscitivo del capitano Achab nella ricerca di Moby Dick, la Balena Bianca, simbolo del Male, ch’egli intende combattere con la sua carica morale quacchera. La stessa ansia conoscitiva anima Isidoro Aiello e le sue poesie. Non c’è in lui un semplice bisogno «biologico» di scrivere, come in Cattafi, nella rappresentazione che ne dà Giovanni Raboni, ma un “progetto” conoscitivo, un desiderio di sottoporre la realtà ad un’analisi razionale che consenta di penetrare il significato ultimo dell’esistenza umana.
    E’ stato sempre Cesare Pavese, studiando l’opera di Edgar Lee Masters, a richiamare le parole dello scrittore americano, il quale ha identificato, come caratteristica del pensiero greco classico, il pensare «in universali», cioè l’avere una concezione generale del mondo. Questa dimensione universale del pensiero, però, manca, secondo Pavese, a Lee Masters, vittima della «grande angoscia americana», che consiste nel non avere una visione complessiva della vita. Al di sotto del «velame dei versi» di Isidoro Aiello c’è, invece, questo pensare «in universali», questa concezione generale del mondo, che è il presupposto per cambiarlo. C’è l’amore profondo per i poveri, gli emarginati, i reietti, che, purtroppo, nella società “opulenta” popolano i marciapiedi: «Oggi sul marciapiede / ho incontrato un angelo / gentile luminoso trasparente / perdeva piume. / Alla fine mi ha parlato / della sua nuvola di stracci (Specchio, ivi, p. 16).
    I poveri sono, dunque, «angeli», messaggeri di Dio, che chiamano gli uomini alle loro responsabilità nei confronti del prossimo e alla solidarietà, perché ogni essere umano, per il fatto stesso di essere nato, merita di essere accolto nella “grande famiglia” a cui tutti apparteniamo per volontà divina. Esiste una chiara «assiologia», un sistema di valori positivi, nella poesia di Isidoro Aiello, fondato sull’amore per i poveri e sulla pace, contro tutte le guerre e la corsa sfrenata ed insensata agli armamenti: «Sei un tenace fabbricatore / di armi: facilmente passi / dall’arco alla fionda / dal mitra alla Smith & Wesson / dal caccia all’atomica / dall’ariete alla catapulta / dal carro armato alla lupara / dalla portaerei alla bomba H. / In cima a tutto sventolano / bandiere suadenti / da collezionare / da mandare a memoria» (Armi, ivi, p. 50).
    E’ forte nel poeta la consapevolezza che «alla fine vince Amore» (La mano, ivi, p. 32) e che bisogna lavorare ogni giorno per questa vittoria, non stare a guardare alla finestra. Il poeta è, nell’immaginario di Isidoro Aiello, come in Danilo Dolci, scrittore friulano trapianto in Sicilia, un «limone lunare», che infiora e produce frutti in ogni stagione, un «vero lottatore» che resiste a tutte le insidie e combatte ogni giorno le sua battaglia per far prevalere il Bene sul Male: «Sono tre le fioriture del limone, / di un albero fin troppo generoso / sempreverde / da irrigare potare concimare. / Sì che è un vero lottatore / mal secco / tignola e cocciniglia / ragno rosso acaro delle meraviglie / sono sempre in agguato. / Solo il mal secco è mortale» (Zagara, ivi, p. 54). E questa lotta merita il sorriso divino: «Per forza di cose / all’amore mi aggrappo / la curva sinusoidale / è sempre segnata sulle carte. / A costo di un infido dolore canto / e forse dio sentendo / il mio canto sorride / se piangesse sarei triste» (Canto, ivi, p. 38).
    C’è nella poesia di Isidoro Aiello, oltre al mito «regressivo» di Freud e di Jung, il mito «progressivo», «prolettico», di Ernst Bloch, che consiste nel percepire dentro di sé un travaglio, un desiderio di cambiare in meglio le cose del mondo, una spinta solidaristica a lasciare aperta la finestra per sentire se qualcuno chiama aiuto dalla strada.

    Antonio Catalfamo

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