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Marino. Dialogo con Marco Onofrio: “Umanesimo e scimmie dell’Angola”

(11 Febbraio 2022)

In questi giorni abbiamo incontrato lo scrittore Marco Onofrio, nostro caro concittadino, alle prese con tanta presenza culturale, sia per le attività a cui si è associato, sia per la professione che svolge, sia per l’impegno politico che lo contraddistingue, diciamo pure, al di fuori di certo “piattume d’ambiente”.

i sepolcri


Onofrio, insomma vuoi rivolgerti a tutti interpellando l’intimo culturale delle persone di destra, in che modo?


Ci riflettevo proprio qualche giorno fa, chiedendomi: lo sanno le persone “di destra” che, a dispetto dei sacri valori (Dio Patria Famiglia) a cui si appellano per garantire l’ordine del mondo, appartengono in realtà alla legge della jungla? Essere o non essere Natura, questo è il problema. Si tratta di assecondare la ferocia evoluzionistica della Natura, da un lato; oppure, dall’altro, la divergenza ontologica su cui l’animale-uomo, mettendo a frutto la propria superiore intelligenza, ha incardinato le costruzioni culturali e civili della Storia. La natura, basta osservarla, è crudele: non ha pietà del debole e lascia che venga eliminato, poiché per sopravvivere ha bisogno di selezionare gli esemplari più forti, le specie dominanti. “Pesce grande mangia pesce piccolo”, e per la rerum natura è giusto così. Ma l’uomo?
Solo l’uomo ha potuto e saputo sviluppare, per i propri simili e gli altri esseri viventi del creato, sentimenti di pietas da opporre all’istinto di natura. Ed è proprio ciò che lo rende umano e lo distingue come tale, segnando l’origine della civiltà che, all’alba della Storia, ci permise di uscire dalla jungla: «Dal dì che nozze e tribunali ed are / dier alle umane belve esser pietose /di se stesse e d’altrui» scrive mirabilmente Foscolo nei Sepolcri (1807). E così Dante, cinque secoli prima: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Perciò l’uomo «s’etterna» nella misura in cui «ad ora ad ora», cioè nelle diverse circostanze offerte dalla vita, riesca a farsi degno della propria divinità interiore. E Giovanni Pico della Mirandola (De hominis dignitate, 1486), sottolineando il libero arbitrio che ci è concesso per risplendere o degenerare: «Tu, che non sei racchiuso entro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. (…) Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nelle creature divine».
È stato Gesù a indicare per primo la santità come dimensione accessibile a tutti, essendo ciascuno abitato – per il fatto stesso di esistere – da una scintilla di origine divina. Se dunque siamo tutti figli di Dio, siamo altrettanti fratelli destinati ad amarsi e aiutarsi, giacché consorti di una condizione che ci rende uguali, senza eccezione alcuna, dinanzi ai misteri della vita e della morte. Gesù ha insegnato a difendere gli umili e a sentire come scandalosa la schiavitù, che invece ai suoi tempi era assolutamente ragionevole e normale. Ha avuto quindi il coraggio di dare scandalo tra i farisei, sino al martirio della croce dove è morto da innocente, pur di rovesciare la storia naturalistica del mondo, cioè la vicenda umana esemplata sulla legge di natura: “gli ultimi saranno i primi”. Occorre un grande salto evolutivo della coscienza per andare contro la natura del nostro istinto egoistico, ed è lì che sorge la “legge dell’amore” grazie a cui possiamo liberarci dai limiti del mondo. Ma il messaggio liberatore di Gesù viene inquinato e tradito dall’incontro della Chiesa col potere temporale. I papi, pur essendo vicari di Cristo in terra, cedono alla tentazione di edificare la Chiesa come “istituzione” sensibile alle ambizioni di egemonia culturale e di supremazia economica e politica. Ecco che trionfano, di nuovo, i farisei.

Quindi è una ricostruzione per sottolineature che s’acconciano a molti, una antica pecca culturale prima che politica: con quale proseguo?

La visione sinceramente umanistica accesa dai cristiani viene ereditata dai movimenti pauperistici del Medioevo; poi elaborata e codificata dal punto di vista culturale e filosofico, anche in senso laico, tra il ‘400 e il ‘500; poi ancora ripresa e sviluppata, solo in senso laico, dagli illuministi nel ‘700, quindi dai socialisti e infine dai comunisti, tra ‘800 e ‘900. La logica conseguenza della parola di Gesù è, infatti, la costruzione di una società di uomini liberi e uguali, di risorse equamente condivise, di dignità rispettata da e per ciascuno. Invece i cattolici riaffermano e sottoscrivono, nel nome stesso di Gesù, una società naturalisticamente fondata sull’ingiustizia, sulla sperequazione, sulla sopraffazione, sulla lotta di classe tra forti e deboli, ricchi e poveri, dominanti e oppressi. E questo pur nella convinzione ipocrita di essere depositari dei più alti valori morali, civili e sociali! La pietas rivoluzionaria di Gesù sbiadisce in un pietismo paternalistico che acclama e magari aiuta i deboli, senza però mettere in dubbio gli assetti storici della società. Il clero è quasi sempre dalla parte delle classi abbienti, e infatti non auspica una vera rivoluzione ma delle “riforme” che attenuino dal basso i malcontenti senza modificare lo status quo imposto dall’alto. Non a caso ha potuto realizzarsi il “concordato” tra cattolici e fascisti, che portò ai Patti lateranensi del 1929, sotto l’egida dell’eterna controriforma italiana sostenuta da sanfedisti, moderati e benpensanti, soprattutto nelle file della nobiltà nera e della borghesia conservatrice: c’era da legittimare il fascismo sul piano morale, in cambio della “guardia armata” che esso avrebbe continuato a garantire contro il pericolo rosso. Lo stesso ruolo che più o meno ha svolto la Democrazia Cristiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’90.
La temperie irrazionalistica di fine ‘800 attinge all’Evoluzionismo per dare equivoci fondamenti scientifici alle deliranti teorie razzistiche create per supportare l’imperialismo dei Paesi europei industrializzati. E ritorna, legittimata, la legge della jungla che rimette Gesù in croce milioni di volte, spalancando l’inferno sulla terra. L’orrore delle leggi razziali e dei lager nazifascisti ha origine negli sproloqui di “mistica” e di pedagogia, scritti a bella posta da intelletti prezzolati a servizio delle dittature, o dai dittatori stessi (come il Mein Kampf di Hitler, e La dottrina del fascismo di Mussolini), con cui si plasma la mente e si spegne il cuore dei nuovi sudditi, fin da bambini. A tal proposito, leggiamo un passo illuminante dal romanzo Il voltagabbana (1963), di Davide Lajolo, ambientato ai tempi del fascismo: «Quale sia l’educazione infantile attuale, sotto il fascismo, voi lo sapete. L’essenza dell’educazione è l’esaltazione della forza, messa a profitto della prepotenza. Il principio che il forte avrà sempre ragione del debole è che il debole ha torto perché è debole, questo principio, schiettamente borghese, è alla base dell’educazione dei nostri figli. Il debole fa ridere, il forte è ammirato. Il padrone è un ladro che sfrutta gli operai e che ha a sua disposizione i carabinieri, la polizia, le leggi e deve essere rispettato; l’operaio che sciopera deve essere punito. Un abissino che difende eroicamente il proprio paese fa ridere, mentre il più forte che lo va ad opprimere è ammirato. La stampa infantile dell’ultimo anno ha raggiunto il colmo della profanazione dell’animo dei fanciulli. Il piccolo negretto abissino veniva presentato nella stampa infantile in modo umiliante per far ridere i nostri bambini. Noi affermiamo che chi contamina a tal punto il riso dei bambini, dovrebbe essere punito dalle leggi».

Cioè, ricostruito un percorso possibile di lettura positiva tra egalitarismo, umanesimo, socialismo e comunismo, l’ignavia e la bramosia del potere hanno tarpato gli intenti e gli insegnamenti cristiani, lasciando strada a dinamiche di sopraffazione?


Questo è, per l’appunto, il fascismo: la legge del più forte che giustifica l’esercizio quotidiano del sopruso con cui si costruisce una dittatura, basata per ciò stesso sull’oppressione, l’ingiustizia, la prepotenza. È il braccio armato degli industriali che non sono assolutamente disposti a perdere i privilegi conquistati con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e hanno bisogno di intimidire con la paura e schiacciare con la violenza le rivendicazioni degli sfruttati a cui la “coscienza di classe” ha aperto gli occhi sulla verità. Ecco perché il fascista è, come il prete, tendenzialmente avverso alla cultura e al libero pensiero! La cultura libera il pensiero apportandovi nutrimenti di complessità che ingenerano sospetto e senso del pericolo in chi, viceversa, vuole gestire la mente delle persone semplificandone i processi per meglio manipolarle. Si confronti lo stereotipo del giovane comunista con il corrispettivo fascista. Il primo in genere assomiglia a Gramsci: serio, pensoso, studioso, cerca di capire le cose fino al nocciolo della verità, aborre la violenza perché usa la forza della cultura e della discussione, rispetta le donne come compagne alla pari, concepisce la libertà, la giustizia e la pace quali valori supremi della vita umana. Il fascista è, viceversa, un cultore del “me ne frego”, un coatto, un temerario, uno spaccone, un seguace del “gesto”, un conformista sotto panni di ribelle, un lupo con gli agnelli e un agnello coi lupi, uno che considera le donne solo come oggetti, e insomma uno che detesta la cultura (i libri sono inutili, tranne qualcuno) perché le parole non servono, la democrazia non funziona, l’educazione è segno di debolezza, molto meglio menare le mani e rompere le teste di chi non è d’accordo e, già solo per questo, merita di essere picchiato.

E di questo, per analogia, hai anche un ricordo parallelo che ti è stato riferito?


Maurizio Iagher mi ha raccontato per diretta esperienza che in Angola ci sono delle scimmie molto “suscettibili”: basta guardarle negli occhi per rischiare d’essere aggrediti. Il cervello del primate recepisce quello sguardo diretto come un atto di sfida, per cui è meglio togliere il disturbo tenendo lo sguardo abbassato. Ebbene, come non pensare ai giovani picchiatori fascisti che “imbruttiscono” se qualcuno osa guardarli troppo apertamente? Sono uomini o scimmioni? Uomini regrediti alla condizione delle scimmie, com’è evidente, o degenerati negli “animali bruti”, per citare Pico della Mirandola, se coltivano solo l’esercizio fisico volto al combattimento, spesso come ossessione e con ausilio di doping e/o droghe, per cui provocano e colgono ogni occasione possibile di rissa, di violenza, di prevaricazione, soprattutto sulle vittime isolate e indifese. Solo in questo delirio di autoesaltazione eroica, e nell’adrenalina della bravata, hanno modo di sentirsi vivi, potenti, importanti. Perché appunto non lo sono. Verrebbe da prenderne uno da parte e chiedergli: che cosa non hai avuto dalla vita per ridurti così? che cosa ti manca? che cosa vorresti dire quando attacchi briga e picchi qualcuno? quali parole ti mancano per dirlo senza usare violenza? di che cosa ti devi sfogare? di quale disagio, di quale dolore? Ma… capirebbe? E soprattutto: darebbe il tempo di pronunciare tante parole senza passare alle vie di fatto?

maurizio aversa

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