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GIULIA CARMEN FASOLO: “POESIE D’AMORE INCOMPIUTE”

I versi di una novella Saffo siciliana

(15 Febbraio 2022)

Sentimenti puri e antichi “nel giorno falso delle profezie e dell’amore che non esiste”

giulia carmen fasolo poesie incompiute

Giulia Carmen Fasolo è coraggiosa editrice in una terra, la Sicilia, difficile per gli uomini e, ancor più, per le donne, e, segnatamente, in una cittadina, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), che, come la Recanati del Leopardi, è doppia periferia, in quanto collocata nell’estremo sud e, in più, partecipe di una dimensione provinciale, ulteriormente emarginante, nella quale sono forti le sopravvivenze feudali e la presenza della mafia, che costituisce una vera e propria palla al piede, che ostacola il progresso in ogni campo, da quello economico-sociale a quello, per l’appunto, culturale.
In più, la Fasolo è una poetessa, che canta l’amore come non lo era più da secoli, anzi da millenni, in una società, quella digitale iperconnessa dei giorni nostri, in cui la poesia, in particolare quella d’amore, occupa un posto assolutamente marginale, è diventata anch’essa «fast food», espressione di una sessualità fine a se stessa, da godere con edonismo, frettolosamente, per poi scappare chissà dove, alla ricerca non si sa di che cosa, in un mondo che corre senza scopo, condizionato in tutti i campi, compreso quello affettivo, dal «produttivismo» economico insensato, visto che i tre quarti della popolazione si collocano al di sotto della soglia della povertà, e ciò determina inevitabilmente un divario sempre più incolmabile tra sovrapproduzione e sottoconsumo che, prima o poi, bloccherà l’intero sistema. Si concretizza la tendenza bipolare prevista da Karl Marx come sbocco distruttivo della società capitalistica: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e più numerosi.
Già alcuni decenni fa, il poeta neogreco Febo Delfi scriveva che viviamo nel giorno falso delle profezie e dell’amore che non esiste.
E, invece, la poesia è la più grande manifestazione di umanità, perché, attraverso lo strumento della metafora, è in grado di trasformare ogni storia individuale, anche la più insignificante, in universale. La poesia sta all’origine di tutto. Infatti, come ci ricorda Ferrarotti, i primi legislatori, i primi storici, erano poeti e scrivevano le loro opere in versi. E, quando questo mondo imploderà, secondo le previsioni veramente profetiche di Foscolo, che chiudono i Sepolcri, sarà proprio la poesia ad esercitare la funzione eternatrice dei valori umani.
Perciò, Giulia Carmen Fasolo, con i suoi versi amorosi, racchiusi nella raccolta Poesie d’amore incompiute, pubblicata dalla sua casa editrice (Smasher, Barcellona Pozzo di Gotto, 2018) e continuamente ristampata, fino ai giorni nostri, a conferma di un successo rinnovato, ci riporta salutarmente indietro nel tempo, al mondo greco classico, che, a differenza di quello attuale, era fondato su una concezione generale del mondo, sapeva ragionare «in universali», come ha ben scritto Edgar Lee Master, citato da Cesare Pavese. Infatti, se vogliamo trovare un antecedente per questi suoi versi, dobbiamo ritornare ai poeti lirici greci e, segnatamente, a Saffo, che fu pure esule in Sicilia. Un’altra Saffo è esistita nell’immediato secondo dopoguerra in Italia, una «ragazza di Udine», Maria Grazia Lenisa, poetessa oggi poco valorizzata, dopo la morte, allora scoperta da Ettore Allodoli e spinta al successo da Aldo Capasso, che, per l’appunto, ebbe il merito di paragonare la giovane e precoce poetessa friulana alla poetessa di Lesbo. E fu Capasso a spiegare i motivi di questa «corrispondenza», a distanza di secoli. Il grande critico di Altare (Savona), anch’egli poeta, fondatore del movimento letterario del Realismo lirico, individuò nella Lenisa la capacità di racchiudere in pochi tratti uno stato emotivo complesso ed articolato, così come aveva fatto Saffo, che non escludeva, nel contempo la «melodiosa vaghezza». Parimenti Capasso sottolineò il coinvolgimento, nella poesia della Lenisa, anche qui sull’esempio della poetessa di Mitilene, di tutti i sensi, in grado di dar vita ad un’armonia complessa e ad un equilibrio singolare di notazioni sensorie. La Lenisa, poi, seguì un proprio percorso letterario, approdando ad una poesia erotica, moltiplicativa della realtà, che evocava quella del suo conterraneo friulano Pasolini, che, però, non aveva nulla di carnale, voleva solo essere manifestazione della capacità del poeta di creare un «semacosmo», in cui tutto è possibile e “reale”, purché lo si voglia.
Gennaro Perrotta ha scritto nel suo Disegno storico della letteratura greca (nuova edizione aggiornata e riveduta a cura di Antonio Cantele, Principato, Milano-Messina, 1969, p. 62): «L’amore è, per Saffo, tutta la vita; e l’amore essa canta con infinita varietà di toni: non soltanto come ricordo elegiaco e come nostalgia, ma come passione ardente, come gelosia, come dolore». Tutto ciò si condensa al meglio nel famoso inno ad Afrodite. Scrive, ancora, Perrotta: «La grande poesia dell’ode è soprattutto in quel rapido mutamento di Saffo, che acquieta l’angoscia d’amore col ricordo della felicità passata, d’una felicità che può ritornare. Basta che le appaia il viso divino d’Afrodite, perché le si muti in cuore l’affanno in dolce serenità. La prima strofa è dolorosa; l’ultima, piena di fiducia e di speranza. Poiché Saffo ha sognato, mentre è infelice, la felicità» (ivi, p. 63).
Giulia Carmen Fasolo ora ripropone questo “miracolo”. Le sue poesie possono essere definite «incompiute» (come recita il titolo della sua raccolta), perché l’amore non ha un inizio e una fine. Scrive il poeta polacco Jaroslav Mikolajewski: «Amore non ha inizio ma egli stesso / è inizio». L’amore, dunque, come inizio di tutte le cose, che procede all’infinito e, conseguentemente, è sempre incompiuto. Nella Fasolo, sull’esempio di Saffo, troviamo tutti i toni dell’amore. L’amore come «osare», libero da «lacci e nodi» (p. 18) e senza definizioni precostituite: «Chiedi ai poeti famosi / di chiarirti i significati / dell’amore, non a me. // Io, se vuoi, / posso liberarti dal silenzio, / prenderti per mano in tempo, / e proporti l’ardore di osare» (p. 34). L’amore, per converso, come titubanza: «Quanto è difficile / dirti. / Socchiudo la bocca, / ma mi imbarazzo. / Mi sento inquieta / quando ti incontro. Ma non dire è come / prendere sonno, / spalancare gli occhi nel buio. / Conoscessi il tuo linguaggio, / organizzerei un viaggio: / da me a te, / tenendo il coraggio / per mano» (p. 21). L’amore come invito esplicito: «… Vedi, amore mio, / l’unico paesaggio / ancora non attraversato / è l’incontro / nel tuo letto» (p. 23). L’amore come silenzio: «Se tu non fossi muto mare, / io mi fermerei e ti bacerei. / Invece tu chiudi gli occhi, / neanche più guerrigli. / Ti arrendi a tutti gli altri / centomila silenzi» (p. 42). L’amore come eros: «Il palmo della mano / sulla pelle calda. / S’agita il sangue, freme la parola, / supplica la bocca. / Riposiamo, ora, / come amanti soddisfatti. / Un liutaio diventa la tua voglia, / o menestrello allegro. / T’amo come ieri / e, se non ti basta, / domani / t’amerò di più» (p. 51). L’amore contrastato, come litigio: «Mi fa male la parola / che si difende arrugginita. / Dimmi: / non siamo più gli innamorati / di una volta? / Vedo l’incertezza / nella piega della tua bocca, / e questo litigio è la nube / che sovrasta il nostro battello. / Se non fossi anch’io / tempesta, acquazzone e vento, / ti direi di fermarti. / Anzi, aprirei la porta. / Affinché tu sia / finalmente / e di nuovo / a casa» (p. 41). Eros e Thanatos: «Perché tremi? / Non piove, né soffia freddo. / Siamo in fila, / in attesa, / anche se / ci scordiamo di cosa. / Queste nostre vite sono / ripetitivi ed estenuanti schemi. / Invece la morte arriverà / con un volo lesto / di rondini. / O forse tuonerà. / Di sicuro / ci troverà impreparati. / Intanto, sfilano i nostri baci / dalla collana di perle. / La tua bocca è l’assonanza / dentro al mio letto» (p. 43). L’amore come dolore: «Come fosse una spina / conficcata nel palmo del piede. / Ad ogni passo / questo amore è un dolore / lungo la vita» (p. 31). L’amore come rottura: «Forse dovrei fare testamento. / Ma cosa lasciarti? / I sogni, / quelli mai avverati? / Il sorriso amareggiato / o la fame dei baci? / Io ordinavo le fila di soldatini, / tu neanche te ne curavi / in questa lotta incompiuta. / Il colpo era in canna, / avevo preso anche la mira. / Ma non è accaduto e ora / siamo lontani. / E’ andata come è andata. / Tu, però, ora non tardare / a essere felice» (p. 52). L’amore, infine, come ricordo indelebile: «I nostri ricordi / dentro mille e più valige. / Pettino poesie, / mentre chiudo gli occhi / e ascolto il ricordo della tua voce».
Oltre ai contenuti, rimanda a Saffo e ai lirici greci, nonché ai «poetae novi» a Roma (Catullo), la forma, la limpidezza dei versi, abbinata alla loro perfezione.

Antonio Catalfamo

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