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IL TRATTATO DI PARIGI, 75 ANNI FA

(25 Febbraio 2022)

Dal n. 110 di Alternativa di Classe

>Tito

Tito

La Seconda Guerra Mondiale ha causato la morte di 60-70 milioni di persone, dove la maggior parte era costituita dal proletariato, soprattutto contadino, che avevano pagato con la vita la difesa degli interessi della borghesia. La guerra, oggi come già allora, è solo uno scontro di interessi imperialistici che i vari stati combattono per la conquista o per la difesa dei mercati, a discapito degli altri briganti imperialisti, ed in cui il proletariato viene usato come carne da cannone.
La Germania, dopo aver perso la Prima Guerra Mondiale e penalizzata fortemente dalle potenze vincitrici, negli anni Trenta, grazie all'iniezione dei capitali statutinensi, ebbe una forte crescita produttiva, ed il bisogno di conquistare nuovi mercati era diventata una necessità vitale. Ma quei mercati erano già occupati dagli altri imperialismi, per cui diventò necessario uno scontro armato tra di loro.
Dobbiamo anche tenere presente che i capitalisti vanno sempre alla ricerca della migliore valorizzazione del capitale, e così in Germania si è avuta una compenetrazione di capitale "dittatoriale" tedesco, con capitale "democratico" europeo e statunitense che, grazie alla guerra ebbero rilevanti profitti, e gli Stati "democratici" continuarono a rifornire di materie prime e tecnologie la Germania nazista anche durante la guerra. Questa politica imperialista è valida maggiormente oggi, come si può vedere ogni giorno, e per il proletariato non resta che applicare il leninismo: trasformare la guerra imperialista in guerra civile per la conquista del potere.
Ma per le forze riformiste, in particolare Thorez e Togliatti, specialmente dopo l'invasione tedesca della Russia, la guerra era considerata solo uno scontro tra il totalitarismo fascista da una parte e l'antifascismo dall'altra. In conseguenza, era necessario unire tutte le forze democratiche e progressiste, compresi i monarchici e i fascisti pentiti, per combattere i regimi dittattoriali.
Il movimento partigiano in Italia, nella sua maggioranza, era strettamente collegato alla politica del PCI e del PSI. e la guerra era vista sia come lotta allo straniero, ma anche come possibilità di una rigenerazione della società. Gli stessi scioperi del marzo del 1943 a Torino e Milano dal PCI furono indirizzati sul piano strettamente economico, escludendo completamente qualsiasi motivazione politica che avrebbe creato problemi all'alleanza con le altre forze "democratiche".
Le forze internazionaliste e comuniste rivoluzionarie che cercarono di opporsi a quella politica, anche se trovarono una certa rispondenza tra i proletari, specialmente nelle fabbriche, non potevano essere vincenti per lo stretto controllo politico ed economico degli imperialisti, ed il destino del conflitto era già segnato.
La borghesia italiana, che aveva sostenuto e finanziato il fascismo, per la paura avuta nel biennio rosso (1919-1920), caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine e con l'occupazione delle fabbriche, si gettò nella mischia della guerra, sperando di ottenere più profitti e più controllo della forza-lavoro. Ma, quando essa comprese che il fascismo l'avrebbe portata ad una sonora sconfitta e messo a repentaglio i propri interessi, si schierò in cobelligeranza con i futuri vincitori.
Il capitalismo italiano aveva capito benissimo che solamemente gli imperialismi vincitori gli avrebbero garantito la difesa da eventuali moti rivoluzionari, sia con la forza, sia indirizzando il malcontento contro nazisti e fascisti, cercando di rifarsi una verginità "democratica" dopo vent'anni di abbracci col fascismo. Così il partigianato fu distolto dall'idea di una possibile rivoluzione ed indirizzato a spianare la strada per una nuovo stato borghese e per la vittoria di un imperialismo su un altro.
La vittoria degli Alleati non portò al capitale italiano tutti i frutti che sperava. L'Italia che uscì dal secondo conflitto mondiale era una Nazione debole sul piano internazionale, e i tentativi per essere accettata fra le grandi potenze risultarono nulli; essendo considerata una potenza minore dell'Asse, non fu riconosciuta come belligerante, e questo comportò da parte delle altre potenze un trattamento da Paese vinto, intenzionate a non dimenticare, nonostante il cambiamento di alleanza, il recente passato fascista.
I percorsi dei trattati di pace iniziarono praticamente già nel settembre del 1945 a livello di ministri degli esteri delle cinque maggiori potenze vincitrici (Inghilterra, Francia, USA, URSS e Cina), e proseguirono nella primavera del 1946 a Parigi, ove fu messo a punto il Trattato presentato nel corso della Conferenza della pace ai ventuno paesi vincitori, svoltasi dal 30 Luglio al 15 Ottobre 1946. La Conferenza permise all'Italia di partecipare solo per esporre il suo punto di vista, ma senza alcuna possibilità di discuterlo.
Tale trattato di pace fu firmato a Parigi esattamente 75 anni fa: il 10 Febbraio 1947. Da una parte i 21 Stati vincitori, e dall'altra gli Stati sconfitti, e cioè Italia, Finlandia, Ungheria, Romania e Bulgaria. La grande assente era la Germania, perchè era stata completamente occupata, e quindi non godeva di personalità giuridica.
Le clausole di pace imposte all'Italia erano piuttoste dure, anche se successivamente per l'intervento americano furono un po' ammorbidite. Le clausole militari prevedevano la limitazione a 185mila unità per l'esercito, 25mila per l'aviazione e la marina con un tonnellaggio estremamente ridotto, le eccedenze dovevano essere cedute ad alcune nazioni vincitrici. La consegna dei criminali di guerra. Le “riparazioni finanziarie” pagate dall'Italia ammontarono a circa 360 milioni di dollari, di cui 100 alla URSS, 125 alla Jugoslavia, 105 alla Grecia, 25 all'Etiopia e 5 all'Albania.
Col Trattato l'Italia perse le colonie della Libia e dell'Africa orientale italiana (Etiopia italiana, Eritrea italiana e Somaliland italiano). L'Italia continuò a governare l'ex Somaliland italiano come territorio fiduciario delle Nazioni Unite fino al 1960. Nel Trattato l'Italia riconobbe l'indipendenza dell'Albania e perse la concessione a Tianjin, che fu consegnata alla Cina, e le isole del Dodecaneso nel Mare Egeo furono cedute alla Grecia.
L'Italia perse poi l'Istria, le province di Fiume, Zara e gran parte di Gorizia e Pola, che furono cedute alla Jugoslavia. La provincia di Trieste e il resto dell'Istria formarono un nuovo stato sovrano (il Territorio libero di Trieste), che non raggiunse mai una propria autonomia e indipendenza, restando affidato all'amministrazione militare anglo-americana nella parte settentrionale (zona A da Muggia a Duino) e jugoslava (zona B da Capodistria a Cittanova). I villaggi di Tende e La Brigue furono ceduti alla Francia.
Il rospo più grosso da ingoiare per l'imperialismo italiano furono le definizioni dei confini con la Jugoslavia, che durarono anni, mettendo a confronto lo scontro di due nazionalismi, quello "rosso" e quello "democratico", sulla pelle dei lavoratori italiani e jugoslavi.
Già nel 1944 l'Italia aveva prospettato la necessità, in caso del crollo della Germania, di inviare unità di forze navali accanto a quelle angloamericane nei porti di Trieste, di Fiume e di Zara, affinchè la zona passasse sotto la loro amministrazione. Ma vi furono interessi diversi tra gli alleati. Gli inglesi, in un primo momento, aspiravano a mantenere buoni rapporti con Tito, da essi aiutato con massicci invii di armi e munizioni, e questo fu possibile fino a quando W. Churchill non si rese conto che Belgrado gravitava sempre più verso Mosca, e così insistette che, oltre che in Francia, ci fosse uno sbarco anche nei Balcani.
Gli americani, che non avevano interessi diretti nel Mediterraneo, non erano disposti ad essere coinvolti in un conflitto nei complicati Balcani. E fu proprio questa indecisione angloamericana che permise a Tito di arrivare primo a Trieste il Primo Maggio del 1945, e prima ancora di aver liberato Lubiana e Zagabria. Gli angloamericani si ricompattarono ed affermarono che il destino di Trieste si sarebbe deciso al tavolo della pace, ed intimarono a Tito di abbandonare la città, avendo cura di avvisare la URSS.
J. Stalin, che non voleva in quel momento affrontare uno scontro con gli angloamercani, accettò il patto di Belgrado tra Tito e il Generale americano Alexander, che stabiliva la ripartizione della Venezia Giulia in due zone. Questo, ovviamente, creò malumore in Italia, ma le relative proteste non portarono a nessuna modifica.
La questione di Trieste in realta portò alla luce anche differenze tattiche che dividevano "il comunismo" internazionale nel dopoguerra. Da una parte la linea di "unità nazionale", portata avanti dal PCI con la piena condivisione di Stalin, di conservazione dell'alleanza fra le potenze antifasciste, dall'altra, con in testa i Titini, una linea che richiamava una lettura della situazione internazionale secondo il discrimine divisorio tra campo “comunista” e imperialismo, e che puntava ad una maggiore contrapposizione che, aldilà delle intenzioni, di fatto anticipava i tempi della Guerra Fredda.
Nel caso di Trieste, il compromesso della divisione in due zone fu senz'altro una vittoria della linea staliniana. Anche lo stesso PCI si trovò in una condizione infelice, indeciso su quale posizione prendere rispetto al capoluogo giuliano e ai "compagni jugoslavi". L'accordo preso nel 1946 da Togliatti e Tito (Trieste all'Italia e Gorizia, con il resto dei territori contesi, alla Jugoslavia) ebbe forte opposizione da parte italiana e fu subito abbandonato.
La posizione degli Alleati nei confronti di Tito si ammorbidì dopo la scomunica di Stalin, lanciata contro di lui nel marzo 1948. Rompendo con Stalin in piena guerra fredda, Tito divenne per gli anglo-americani un prezioso leader in grado di riequilibrare gli assetti dell'area balcanico-danubiana, tutta sbilanciata in senso filo-sovietico. Così il destino della Zona B divenne un prezzo da pagare alla esigenze della realpolitic internazionale.
La questione Trieste si protasse per sette anni, e furono sette anni pieni di tensioni tra due nazionalismi, ed in Italia le polemiche furono cavalcate dalla destra conservatrice e dai neofascisti dell MSI. Vi furono forti tensioni; l'8 Marzo 1952 una bomba uccise alcuni manifestanti di un corteo italiano, nell'agosto-settembre il governo italiano inviò truppe al confine con la Jugoslavia, nel novembre del 1953, a seguito di violente manifestazioni a favore della riunificazione all'Italia, vi furono sei morti, uccisi dalla polizia dipendente dal Governo militare alleato.
Il Memorandum d'intesa, firmato il 5 Ottobre 1954, definì il passaggio della zona A all'Italia e della Zona B alla "repubblica socialista" jugoslava. Il regolamento definitivo fu firmato solo il 10 Ottobre 1975 ad Osimo, ed il confine entrò in vigore il 1 Aprile 1979.
Il confine italo-jugoslavo era stato sempre molto caldo, speciamente dopo l'invasione, avvenuta il 6-17 aprile 1941 da parte dell'Asse ed il successivo smembramento di fatto della Yugoslavia tra le forze di invasione (Germania, Italia, Bulgaria ed Ungheria). All'Italia era toccata in particolare la Slovenia sud occidentale (provincia di Lubiana), parte della Dalmazia, la parte nord-occidentale della Croazia con la provincia di Fiume, e le Bocche di Cattaro, che assieme a Zara andarono a costituire il Governatorato della Dalmazia.
Tale occupazione costò la vita di due milioni di slavi, e, per tutti i 29 mesi di occupazione, non ci fu un villaggio dei territori occupati che non avesse avuto case bruciate o rase al suolo, con migliaia di deportati e fucilati, da parte degli Italiani, "brava gente". Nel 1943, durante l'insurrezione popolare in Istria, ci furono 10mila vittime e in totale i morti dell'occupazione italiana in Jugoslavia furono oltre 200mila, mentre molti vecchi e bambini morirono di fame e malattie nei campi di concentramento italiani (dati di Alessandra Kervesan).
La popolazione oppressa, nel momento in cui si era liberata dai suoi aguzzini, scaricò il suo odio contro chi li aveva umiliati ed uccisi. Fu un fatto di "giustizia popolare", certamente sommaria, certamente colpendo anche persone non implicate direttamente, non tanto da parte dell'esercito di Tito, ma dalla popolazione, soprattutto quella contadina dell'Istria slava, che si rivaleva così della dura oppressione subita. Così è nata la narrazione del “genocidio delle foibe”, in realtà smentita da una vasta bibliografia, che non si vuole leggere o si cerca di nascondere.
In una breve sintesi, il caso degli "infoibamenti", cioè dell'esecuzione e del "sotterramento" dei morti nelle cavità delle grotte carsiche, conobbe due momenti. Il primo dopo l'8 Settembre 1943, che, secondo fonti delle autorità italiane, coinvolse 600 persone, il secondo dal 1945, dopo l'abbattimento del fascismo. I numeri dei morti riferiti variarono spesso per opportunità politica, da 1478 alla cifra più attendibile di circa 5000, fino a 15000, e ad aumentare, riportando cifre assolutamente false. Solo due precisazioni, per onestà storica: tutte quelle esecuzioni, realmente avvenute, non erano state ordinate da Tito, e non c'è stato nessun genocidio degli italiani.
Semmai, di Tito (il partigianato titino comprendeva diversi italiani) e degli altri "comunisti" si deve condannare il nazionalismo borghese (l'altra faccia del nazionalismo togliattiano), che non permise un movimento comunista internazionalista, capace di legare concretamente nella lotta emancipatrice le diverse frazioni proletarie nazionali del proletariato e degli sfruttati. Ed anche la repressione di quelle voci spurie, slave ed italiane, che cercarono di opporsi alla deriva nazionalista, spiegandone le nefaste conseguenze. I veri internazionalisti furono fatti fuori anche fisicamente, in piena concordanza con Mosca.
L'epilogo delle foibe fu il discorso di L. Violante, come Presidente della Camera nel 1996, che miracolosamente scoprì che partigiani e repubblichini erano tutti italiani, e lo scopo ideale era per entrambi lo stesso: la Patria. E' il momento della pacificazione e degli abbracci e dei baci, tutti sotto la bandiera di un patriota capitalismo.
Il Pds rimproverò Tito di avere agito contro gli italiani, non come fascisti, ma come tali, cioè solo come italiani. Queste dichiarazioni furono manna caduta dal cielo per le forze conservatrici e di destra che, muovendo i loro fili non contrastati da nessuno, sfociarono nella “giornata del ricordo” celebrata il 10 Febbraio ed istituita come legge nr. 92 il 30 Marzo 2004.
Tale giornata ricorda i massacri delle foibe e l'esodo giuliano dalmata. Una ennesima legge vergognosa, approvata con soli 15 voti contrari dei Comunisti Italiani e di Rifondazione Comunista, negatrice della completa verità storica, e servita ancora una volta alla borghesia per denunciare le atrocità che IL COMUNISMO avrebbe commesso nel suo percorso, perchè a costoro non fa paura il “comunismo” da macchietta, ma il vero comunismo che muove le masse e mette in discussione il suo potere.
Come abbiamo visto e detto, gli Stati imperialisti per difendere i loro interessi sono pronti a scatenare qualsiasi guerra, ed usano il veleno del nazionalismo per mettere i proletari di uno Stato contro i proletari di un altro Stato. Il comunismo lotta per il superamento delle nazioni, se la borghesia lottò per creare gli Stati-nazione, che superassero il frazionamento feudale, il proletariato oggi lotta per superare i frazionamenti nazionali e dar vita ad unica società internazionale.
Questo non vuol dire essere contro l'autodeterminazione dei popoli. L'autodeterminazione è una rivendicazione democratica, che i marxisti sostengono, così come le altre rivendicazioni democratiche, inquadrate storicamente. Queste rivendicazioni, infatti, devono sempre essere subordinate all'interesse della classe lavoratrice e delle lotte per il socialismo.
L'esperienza jugoslava del '90 ne è la prova: una intepretazione errata di autodeterminazione. La guerra slava è stata un disastro, contro la classe lavoratrice, e a favore di tutte le borghesie regionali, divenute Stati, e non può essere giustificata dai comunisti riferendosi al diritto borghese di qualsiasi nazione all'autodeterminazione sempre e comunque.

Alternativa di Classe

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