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(12 Agosto 2013) Enzo Apicella

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IL BANCO DI PROVA DELLA GUERRA

(8 Marzo 2022)

il banco di prova

Nell’arco di pochi giorni, la situazione di tensione intorno all’Ucraina è precipitata. La Storia in Europa ha ricominciato a correre. Non ancora al galoppo né tantomeno al passo di carica, ma ha indubbiamente accelerato. Interpretazioni politiche, visioni del mondo, impianti ideologici sedimentatisi per decenni nel quadro delle aree di storico sviluppo capitalistico, nelle società borghesi delle culle occidentali del capitalismo e dell’imperialismo, sono state messe alla prova. Ne sono scaturiti, in genere, traumi e convulsi tentativi di adeguamento. Ne sono state dimostrazione, a livello internazionale, le intense mosse ed evoluzioni sul piano politico e diplomatico così come la messa in moto di immense macchine propagandistiche che, in tutte le realtà imperialistiche in varia misura coinvolte, hanno iniziato ad agire per costruire una rappresentazione della genesi e della conduzione del conflitto funzionale ai rispettivi interessi. Per contribuire – ovviamente con varia incisività a seconda del grado di coinvolgimento – ad eliminare dall’orizzonte dell’interpretazione e dell’informazione ogni aspetto che potesse richiamare la matrice di classe, la natura imperialistica del conflitto, l’appartenenza di classe dei governanti, dei centri di potere economico impegnati a dirigere la mobilitazione bellica e quella delle principali vittime dello scontro. Il conflitto si sta rivelando uno straordinario banco di prova, capace di rivestire una vigorosa funzione rivelatrice per quanto riguarda le dirigenze politiche degli imperialismi, la validità delle loro linee e impostazioni, ma anche, seppur con una capacità di intervento sulla realtà sociale e politica incommensurabilmente minore, per quanto riguarda le formazioni e le soggettività che si richiamano al marxismo, all’internazionalismo proletario e alla lotta di classe contro il capitalismo. Il 21 febbraio il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donbass, Donetsk e Luhansk, aggiungendo che era stato deciso l’invio di truppe con l’asserito compito di mantenimento della pace nella regione. Il 24 febbraio, alle prime ore del giorno, è iniziato l’attacco russo su vasta scala, sostanzialmente lungo tre direttrici: da Nord (attraverso la Bielorussia) nella zona della città ucraina di Chernihiv, da Est (attraverso il confine russo) nella zona della città di Kharkiv (seconda città dell’Ucraina per popolazione) e da Sud (dalla Crimea) verso l’area della città di Kherson. Da quanto si può apprendere dalla stampa internazionale, le operazioni di invasione sono state avviate con lanci di missili da postazioni di terra e da unità navali nel Mar Nero contro le installazioni radar, le infrastrutture di comunicazione, i centri di comando e i punti di raccolta dell’esercito ucraino. Il fatto che Mosca abbia effettivamente dato il via a vaste operazioni militari in territorio ucraino è qualcosa che sembra aver spiazzato molte cancellerie. L’intensa attività diplomatica delle settimane precedenti aveva evidentemente dato l’impressione che fosse possibile evitare lo scoppio del conflitto e raggiungere un accordo con la Russia a proposito delle sue rivendicazioni circa la neutralità dell’Ucraina (nessun ulteriore allargamento della Nato) e garanzie sullo status e le condizioni di autonomia del Donbass. Una prima considerazione che si può avanzare, da questo punto di vista, riguarda la nuova dimostrazione delle capacità dell’intelligence statunitense. Washington nei giorni che hanno preceduto l’apertura delle ostilità non ha infatti mai vacillato nella convinzione che Mosca non stesse ritirando le truppe dal confine ma, anzi, stesse preparando un’imminente offensiva. Molti opinionisti ed esperti più o meno sedicenti hanno dovuto rimangiarsi, con minore o maggiore eleganza, previsioni, quando non addirittura battute, ironie e facezie, circa i vaneggiamenti americani sull’eventualità di un’impensabile guerra convenzionale nel pieno del continente europeo. Il maldestro ritiro dall’Afghanistan ha probabilmente accentuato una sorta di complesso di superiorità che alberga in non pochi ambiti politici e culturali dei Paesi europei, spingendo a trascurare il fatto che evidentemente l’imperialismo americano, anche in ragione di una storia che contempla, fino ad anni recenti, il ricorso alle armi su scala significativa, potesse “leggere” meglio di altre capitali dell’Occidente le intenzioni e le propensioni dell’imperialismo russo (realtà che, pur con decorsi storici evidentemente molto differenti, condivide non poco dell’esperienza statunitense, non ultimo un non sporadico e non marginale impegno militare dopo la fine del secondo conflitto mondiale). Enfatizzare, descrivere in maniera sistematicamente iperbolica quelli che possono essere effettivi limiti ed un reale indebolimento relativo dell’imperialismo statunitense, significa confezionare o recepire un’immagine ideologica, che può eventualmente risultare funzionale a campagne utili a diversi interessi imperialistici ma che non può che sviare, rendere più fragile e condizionata da forze avverse, l’impostazione di analisi di parte proletaria.

GUERRA IN UCRAINA E DINAMICHE INTERNAZIONALI
Per cercare come minimo di comprendere le linee di fondo della crisi ucraina occorre partire da un presupposto. Il confronto avviene su più versanti, a più livelli e interseca più linee di appartenenza. Ridurre il tutto ad una contrapposizione binaria tra Occidente e Russia (magari aggiungendo a questa la Cina) è estremamente fuorviante. L’attivismo diplomatico che ha preceduto il conflitto ha ribadito la piena, e per certi verso persino accentuata, almeno come visibilità, natura dell’imperialismo statunitense quale “potenza europea”. L’Alleanza Atlantica, data più volte in anni recenti come esaurita nel suo significato, torna a mostrarsi come una realtà, uno spazio, un legame, significativo e persino dirimente. La Russia da sola non ha il complessivo spessore imperialistico per costituire una minaccia strategica alla supremazia che ancora gli Stati Uniti riescono ad esercitare sull’insieme dell’assetto imperialistico globale. Mosca dispone di uno strumento militare dall’indubbia efficacia, almeno contro medie potenze, soprattutto ha ripetutamente mostrato, nel corso degli anni, la capacità di impiegarlo con reattività. Sta giocando in abbondanza questa carta anche per compensare, nella ridefinizione delle sfere di influenza, una chiara fragilità dal punto di vista della struttura e della competitività della propria economia. È tutt’altro che una novità nella storia russa e sovietica. Occorre cautela prima di concludere che esiste già un asse con Pechino in grado di fare della forza militare russa una componente di un blocco imperialistico capace di sfidare Washington nei gangli cruciali dell’assetto imperialistico. Il comportamento adottato finora dalla Cina nella crisi ucraina – comprensione verso le richieste russe, condanna delle sanzioni ma anche una ribadita preoccupazione nei confronti di un precedente di intervento militare da parte di una potenza nello spazio di uno Stato sovrano, adducendo per di più la motivazione del soccorso a componenti etnicamente, linguisticamente o culturalmente minoritarie nel quadro della nazione attaccata – conferma la necessità di questa prudenza nella valutazione degli orientamenti di Pechino verso la Russia e la sua campagna militare. Rimane, quindi, a nostro avviso, l’interesse strategico statunitense ad impedire una centralizzazione politica dell’imperialismo europeo, oggi ancora diviso in Stati nazionali non pervenuti ad un organismo capace di esprimere un’unica e superiore politica estera. Non deve stupire che nella fase di trattative e nelle primissime fasi del conflitto la Germania, anche in virtù di chiare mosse statunitensi, si sia mostrata in affanno. Berlino ha subìto in questa fase l’incalzante azione di Washington, dato palese per esempio sulla questione del gasdotto Nord Stream 2, che il Governo tedesco ha cercato di sottrarre alla partita delle sanzioni contro Mosca, salvo poi dover cedere all’esplicita pressione americana (evidente anche a margine dell’incontro tra il cancelliere Olaf Scholz e il presidente americano Joe Biden nella capitale statunitense, il 7 febbraio). Anche nel confronto intorno ai primi due pacchetti di sanzioni nel quadro dell’Unione europea, Berlino è finita al centro di aspre polemiche. Ma la reazione tedesca c’è stata. È ancora presto per discernere con precisione quanto dell’inasprimento della linea delle sanzioni contro la Russia sia una mossa con cui Berlino ha convertito in rafforzamento un momento di difficoltà, giocando la carta, non priva di rischi, di passare da elemento recalcitrante alla scelta di assumere un’oggettiva leadership europea su questo piano. Esigenze strategiche di mantenere legami di notevole spessore con la Russia hanno indubbiamente condizionato il comportamento tedesco, ma non meno strategica è risultata la necessità per la Germania di non essere ridimensionata drasticamente a fronte di un’area dell’Europa centro-orientale e baltica in cui Berlino non può accettare di rinunciare ad un ruolo forte. Anche l’iniziativa di potenziare gli investimenti nel settore della difesa è, soprattutto se si considera la specifica storia e la specifica relazione del mondo politico tedesco con la questione militare, rilevante. La sua portata effettiva, anche in termini di conseguenze sulla capacità dell’imperialismo tedesco di esercitare in Europa un ruolo egemone, politicamente più pieno e articolato, andrà verificata. Indubbiamente la capacità dimostrata dalla Germania di uscire dall’angolo, assumendo un profilo più forte, ha offerto alle potenze europee un punto di riferimento e un perno a cui collegare le proprie risposte all’accentuarsi della conflittualità sul campo e nei rapporti internazionali. Su questo presupposto anche le istituzioni comuni europee hanno potuto assumere una linea più assertiva, anche sul versante del finanziamento delle forniture belliche all’Ucraina. La partita attualmente è ancora in corso e si può registrare una tendenza costante della Francia a ritagliarsi un ruolo da attore di primo piano sia nelle trattative con Mosca sia, sul versante interno europeo, nel presentarsi, mentre Paesi come la Germania e l’Italia erano stigmatizzati per le loro azioni di freno, come intransigente capofila della politica delle sanzioni contro la Russia. L’altra maggiore potenza militare europea, un tempo facente parte dell’Unione, ha mostrato nella crisi ucraina un alto profilo. La Gran Bretagna si è saldamente connessa alla linea atlantista, dispiegando una energica attività diplomatica, assumendosi tempestivamente responsabilità anche sul terreno delle forniture militari all’Ucraina e caratterizzandosi come interlocutore privilegiato di Paesi dell’Europa centro-orientale e dell’area baltica. È presto per trarre un bilancio della decisa impostazione adottata da Londra. Non è presto però per concludere che in ogni caso le profezie del rapido dissolversi degli spazi di manovra dell’imperialismo britannico, una volta consumata la Brexit, appartenevano alla sfera delle campagne ideologiche, non dell’analisi dello sviluppo del confronto tra potenze. Alla vigilia del conflitto, quando gli Stati Uniti, pur riaffermando lo scenario di una guerra imminente, hanno escluso (anche con uscite controverse dello stesso Biden) una risposta militare della Nato e hanno calcato la mano su tematiche particolarmente nevralgiche per la Germania, è sembrato che gli sviluppi della crisi potessero sfociare in una sorta di “piccola Yalta”. In un formato ovviamente molto più contenuto, per effetti, per ampiezza, per profondità di significato storico (visto che la vera spartizione di Yalta è scaturita dal secondo conflitto mondiale imperialistico), all’imperialismo russo sarebbe stato nei fatti consentito (a prezzo di sanzioni e di altre misure punitive non belliche) di consolidare una sfera di influenza, ben più ridotta del Patto di Varsavia ma raccolta comunque intorno ad una dimensione storica in un certo qual modo più sostenibile per Mosca, a scapito di un ridimensionamento dello status della Germania nell’Est europeo. Il tutto eventualmente riuscendo a sanzionare Mosca con un provvedimento sul Nord Stream 2 che andrebbe a colpire anche la Germania. Non sarebbe la prima volta – come insegna la magistrale analisi di Arrigo Cervetto sul reale contenuto della spartizione di Yalta – che l’imperialismo americano riesce a prendere due piccioni con una fava altrui. Fermo restando, va ribadito, che anche da questo punto di vista, la capacità americana si esprimerebbe su uno spazio, su un teatro, molto più ridotto e molto meno centrale di quello su cui l’imperialismo americano manovrò alla fine della seconda guerra mondiale. Se questa ipotesi è ancora reale lo dirà l’intreccio tra gli sviluppi bellici e gli sviluppi delle mosse e degli orientamenti di tutti i predoni imperialisti che si rapportano alla guerra ucraina.

GUERRA IN UCRAINA E QUESTIONE EUROPEA
L’andamento della guerra e degli orientamenti delle varie potenze, con le loro interazioni e ricadute, sulla scena internazionale ha determinato, nel contesto italiano, una specifica evoluzione di vari “partiti” coagulatisi in rapporto alla crisi. Partiti non nel senso, in questo caso, di precise formazioni organizzate, di sigle formali ed entità politiche dai confini nettamente delimitati. Partiti come aree politiche, come forme agglutinate di un’azione di indirizzo, di condizionamento dell’opinione pubblica. Dopo i primi giorni di guerra, il “partito” filo-russo, che pure in Italia contava esponenti di spicco, molti dei quali nemmeno più riconducibili direttamente alla storia dello stalinismo nostrano, è stato confinato ai margini del panorama politico e mediatico. Ma continua ad esistere e, se l’Italia “ufficiale”, delle dichiarazioni delle autorità, delle maggiori testate giornalistiche, degli opinionisti di grido, risulta oggi compattamente schierata con il fronte ucraino (senza esitare di fronte ai registri più smaccati della retorica di guerra), l’Italia filo-russa continua a manifestarsi attraverso canali, formule comunicative che ricordano per certi versi le aree politiche e gli spazi sociali in cui si sono consolidati gli umori diffusi a favore dei populismi e delle correnti no-vax (anche veicolando, ancora una volta, le “verità” illuminanti e sensazionalistiche che l’informazione maggiore occulterebbe). La reazione politica in primis della Germania e la conseguente possibilità delle istituzioni dell’Unione europea di assumere una posizione più ferma che in altri frangenti critici del quadro internazionale, hanno ridato improvvisamente fiato al “partito” europeo della borghesia italiana (una borghesia che ha una lunga tradizione di accettazione supina e passiva di una formulazione teleologica, fatalistica, ad alto tasso ideologico, della questione dell’integrazione europea). Gli ambiti giornalistici e politici riconducibili a questo “partito” hanno salutato finalmente la nascita dell’Europa come soggetto politico unitario, fino a spingersi a identificare nella scelta tedesca di incrementare la spesa per la difesa e della Commissione europea di finanziare armi per l’Ucraina (scelte spesso poste disinvoltamente sullo stesso piano, identificate superficialmente come comuni manifestazioni di un comune agire europeo) il passo fatidico verso l’esercito europeo. Non possiamo, in questo clima, che ribadire come nessuno di questi “partiti” rappresenti per gli interessi storici del proletariato e per le soggettività politiche che intendono lavorare al partito rivoluzionario del proletariato, alcunché di progressivo, nulla che possa essere sostenuto o visto con maggiore favore degli altri in chiave strumentale o tattica. Nello specifico dell’azione e dell’esistenza concreta del “partito” europeo, occorre ribadire come la contrapposizione tra euroentusiasti ed euroscettici non possa in nessun modo appartenerci. L’internazionalismo proletario non contempla alcun atteggiamento di tifo per queste correnti borghesi, prive di ogni significato storico direttamente o indirettamente favorevole alla causa proletaria. Che gli imperialismi europei riusciranno o meno a raggiungere l’unificazione politica, dando vita ad uno Stato superiore, nelle sue essenziali prerogative, alle sovranità dei singoli Stati nazionali, è questione che riguarda la lotta interimperialistica dentro e fuori il continente europeo. Ciò che abbiamo sempre affermato è che la lettura di un’unificazione politica europea che procede per crescita e affermazione della consapevolezza dei compiti e delle esigenze di un confronto tra entità politiche continentali sulla scena globale, come problema di ingegneria istituzionale in cui sintetizzare e trovare la formulazione di una scelta già presa negli ambiti borghesi determinanti in Europa, come sfida per far quadrare il cerchio di una strategia europea già chiara alle borghesie “maggiori” e di un consenso elettorale ancora attardato su umori e riflessi retrogradi, è un’interpretazione che non appartiene alla precedente storia della questione europea e nemmeno alla storia della teoria e dell’analisi marxiste. Ciò che abbiamo sempre indicato come questione di metodo è la storicamente dimostrata incapacità delle borghesie organizzatesi a livello di Stato nazionale di accettare la perdita di questa loro specifica dimensione, confluendo in una più vasta e forte entità statuale, perdendo il controllo dei loro Stati e subendo la supremazia di altre componenti borghesi nel nuovo e superiore Stato, in nome della coscienza che, così facendo, otterrebbero in futuro i vantaggi di una maggiore capacità concorrenziale globale; il tutto, poi, senza esercizio della forza e consensualmente. La questione dello Stato europeo è questione di forza, di forza centralizzatrice e non di comprensione del vantaggio comune a devolvere i propri poteri nazionali ad una superiore entità. La questione dell’unificazione politica europea è questione di imposizione di una specifica formulazione dell’unificazione europea, che sia sorretta da una forza adeguata a farla accettare, ad imporla anche alle componenti che in essa non si riconoscono, che non sono disposte ad accettare un arretramento in termini di sovranità e di controllo dello Stato in nome di un vantaggio ancora da acquisire nel futuro della competizione interimperialistica. Se la borghesia europea – abbiamo più volte affermato – dovesse dimostrare di poter invece unificarsi politicamente, dare vita ad una nuova e superiore entità statuale su scala continentale eludendo il problema della forza e dell’esercizio della forza da parte di un agente centralizzatore (uno Stato imperialista o un blocco di Stati imperialisti), allora dovremmo prendere atto che alcuni limiti organici, propri della classe borghese sono stati superati. La borghesia in Europa (e come a quel punto escluderlo in altre realtà a livello mondiale?) avrebbe compiuto un balzo evolutivo, con tutto ciò che ne comporterebbe per la strategia rivoluzionaria. Ciò finora non si è verificato, il marxismo non è stato posto sotto tensione da questo inedito storico. Né possono farlo gli sviluppi finora registrati, a fronte della crisi ucraina, nel contesto politico europeo. Un esercito europeo presuppone uno Stato europeo, una politica estera europea. Un esercito europeo non è la formazione di unità e contingenti che, sotto l’egida di istituzioni comuni dipendenti sempre in ultima analisi dalle dinamiche decisionali tra Stati, si aggiungono agli eserciti di cui gli Stati europei dispongono autonomamente e con piena sovranità. Un esercito europeo è la forza nucleare francese messa a disposizione di un nuovo quartier generale che non è più né francese né tedesco né italiano né spagnolo, ma che esercita il comando supremo sulle forze armate ancora dislocate sui territori dei Paesi d’Europa. Se si arriverà a questo, occorrerà una forza adeguata e adeguate accelerazioni e intensificazioni nell’esercizio di questa forza, dentro e fuori il continente europeo. Oggi questa forza non si manifesta, se la crisi ucraina sarà un momento che giocherà a favore della formazione e dell’emersione di questa forza, andrà verificato. Dare credito oggi alle letture che proclamano l’ennesima crisi creativa dell’unità politica europea in quanto apportatrice del fatidico apporto di consapevolezza della convenienza dell’Europa unita, significa subordinarsi alle ideologie del “partito” europeo, che potrà forse fare un domani da supporto, da truppa ausiliaria della forza realmente unificatrice, ma mai sostituirsi ad essa.

LA GUERRA UCRAINA E LA PROPAGANDA IMPERIALISTA, BANCO DI PROVA DELL’INTERNAZIONALISMO
La Storia ha ricominciato a correre e, essendo storia che si svolge nel quadro dell’imperialismo, non può che essere, anche e in gran misura, storia di guerre. Ma questa consapevolezza è appartenuta sempre di meno agli strati dirigenti, ai ceti intellettuali, alle centrali ideologiche di imperialismi, come quello italiano, che hanno attraversato ormai decenni su decenni di sostanziale stabilità sociale e di assenza di ogni esperienza diffusa degli effetti sociali del conflitto bellico come parte integrante dell’esistenza capitalistica. Il panorama politico, culturale e ideologico italiano è apparso spiazzato, sbigottito di fronte al ripresentarsi – non nell’eterno “altrove” africano, asiatico e mediorientale – del fenomeno guerra. Lo abbiamo scritto: dopo lo smarrimento del ritorno dell’epidemia, sarebbe stata la volta della guerra, parti entrambe dell’apparente ritorno di una Storia che in realtà mai ha abbandonato il mondo. Come per la pandemia, assistiamo a sbrigative e superficiali profezie su come la guerra in Ucraina rappresenterà una svolta epocale. Andrà invece attentamente verificato il peso e il significato degli esiti che questa guerra – va detto, con tutta la consapevolezza del prezzo che le popolazioni coinvolte, in primis il proletariato, stanno pagando, ancora distante dal dispiegamento delle risorse distruttive che già in passato gli imperialismi hanno dimostrato di possedere – comporterà sul complesso dei rapporti interimperialistici a livello globale. C’è anche il disorientamento di molta classe politica borghese di fronte alla guerra, la guerra percepita come vera, vicina, tangibile nei suoi effetti, nella tendenza al moltiplicarsi e all’imporsi di sentenze enfatiche e grossolane. In mezzo a politicanti che anelano al ritorno alla “normalità” di una vita politica borghese scandita da campagne elettorali permanenti che contemplano solo la guerra ai barconi di immigrati, riduzioni fiscali per padroncini, difese del presepe, in mezzo a intellettuali che discettano sul problema di una generazione giunta impreparata alla smentita storica della fine della Storia, si possono cogliere anche, nella quotidianità proletaria, le ricadute di una condizione, di un clima sociale protrattosi straordinariamente a lungo e delle costruzioni ideologiche che esso ha prodotto. Alla nostra classe è proposto, con tutte le risorse di una gigantesca macchina propagandistica, sistematicamente, sostanzialmente come unico approccio al ritorno della Storia che corre, al ritorno, in Europa, della guerra fatta dai carri armati e dalle fanterie con l’elmetto, l’opzione del tifo per l’uno o l’altro degli schieramenti imperialistici. In Europa e in Italia stiamo assistendo da giorni alle fanfare della più spudorata propaganda di guerra, al suono delle quali ogni notizia non necessita più nemmeno di essere vagliata, se riguarda gli abominii veri o presunti del militarismo russo, d’altro canto, la “resistenza popolare” ucraina assume i toni dell’eroica epopea e del “sacrosanto sdegno”. I media italiani sono in prima fila nel coro europeo che alterna le lacrimevoli note del canto di dolore per l’Ucraina ai solenni accenti della cavalcata delle valchirie, e pensare che non è nemmeno coinvolta direttamente nella guerra. Un significativo assaggio di cosa sarà l’imbottimento dei crani quando il tricolore precederà sul campo di battaglia le trombette alla bersagliera. Abbiamo visto cani idrofobi – che poche settimane fa ringhiavano e costruivano bastioni per tenere alla larga ogni migrante che premesse sulle frontiere della “fortezza Europa”, gettatovi affamato e intirizzito dalle bieche esigenze dell’imperialismo russo e non solo – trasfigurati dalla visitazione dell’angelo dell’“accoglienza”, pronti a sfamare e vestire i rifugiati dall’Ucraina in fiamme. Questione di tempi? Poco plausibile. Questione di pigmentazione, forse, questione di consensi, questione di allineamento agli interessi generali del proprio imperialismo. Nel frattempo, fino a ieri, a differenza degli ucraini, poche decine di profughi di pelle B in fuga dall’Ucraina venivano respinti dalle polizie di frontiera di Stati che non avevano ancora ricevuto l’ultimo aggiornamento sull’“Europa che accoglie”. Vedremo se e quando questo “idillio” tornerà ad essere indifferenza od ostilità indifferenziata di fronte alle masse di profughi previste. Sia chiaro, se ci soffermiamo sulle edificanti sceneggiature propagandistiche d’Europa e d’Italia non è perché riteniamo che l’arte moscovita della “verità migliorata” abbia qualcosa da imparare dai pifferai nostrani, ma è solo perché le menzogne provenienti dalla Russia possiamo solo immaginarle, dal momento che la democratica Europa ha messo al bando le agenzie d’informazione russe, tanto quanto il Cremlino quelle dell’occidentale “impero delle bugie”. Prenda nota chi lo scopre solo ora: le cancellerie borghesi di tutto il mondo ripudiano la violenza, le armi, la guerra, ma quando si tratta di difendersi dallo straniero la carneficina è legittima. Ci chiediamo quale Stato borghese abbia mai dichiarato di condurre una guerra d’aggressione per il perseguimento di fini imperialistici, suoi o per procura. Ne viene fuori che le guerre imperialiste sono tutte difensive per gli Stati borghesi che le combattono, sono tutte la risposta a un’aggressione… di chi, se tutti si difendono? Ma è ovvio! Del rispettivo “nemico”. Vogliamo essere chiari, se l’imperialismo russo ha la responsabilità dell’ora e dell’occasione di questa guerra, esso condivide con tutte le potenze imperialiste coinvolte, direttamente o indirettamente, con la borghesia ucraina e con l’imperialismo come sistema unitario la responsabilità generale e storica di questo e di tutti i conflitti imperialistici che verranno. Oggi a pagarne il prezzo è un settore ancora circoscritto della nostra classe, il proletariato ucraino bombardato e quello russo inviato a massacrarlo e a farsi massacrare per stabilire a quale sfera d’influenza debba appartenere o meno l’Ucraina. Non ci nascondiamo che è difficile stabilire a quale stadio della società capitalistica bisogna tornare per vedere una così minima, marginale, presenza internazionalista, almeno in grado di riferirsi ai principi dell’internazionalismo proletario, di fronte ad una guerra che torna a monopolizzare il dibattito politico e l’informazione di massa. E anche il poco che continua a ricollegarsi all’orizzonte politico dell’internazionalismo, sottoposto anch’esso al banco di prova della guerra ucraina, mostra di aver introiettato gravi condizionamenti di una lunga fase di assenza di vitalità politica di classe, dannose ricadute di una stagione di stagnante stabilità della supremazia borghese. Che fare? – viene chiesto da più parti – Non cedere, rispondiamo a tutti coloro – pochi – che si riconoscono in un internazionalismo proletario senza deroghe, sconticini o “glosse a margine”. Gli internazionalisti in Italia si opporranno a qualsiasi partecipazione, diretta o indiretta del nemico nel proprio Paese – che è sempre quello principale – al conflitto imperialista in corso sul territorio ucraino, che si tratti di inviare armi o soldati all’uno o all’altro dei belligeranti. Oggi, per gli internazionalisti in Italia, l’esigenza di non cedere su un principio irrinunciabile rappresenta la prospettiva di fornire domani ai proletari che sono direttamente coinvolti in questo e nei mattatoi imperialisti che si preannunciano, un piccolo ma solido punto di riferimento. Più di questo – che sarebbe già molto – non è possibile fare al momento e con le forze date, eppure, gettare la nostra manciata di sabbia nell’ingranaggio oggi non sarà senza conseguenze domani, se sapremo farlo con fermezza, costanza e decisione. Se nell’agosto 1914 milioni di lavoratori socialisti, organizzati sindacalmente e politicamente in partiti sulla carta internazionalisti, si riscoprirono fratelli dei loro sfruttatori nazionali e marciarono allegramente verso l’ecatombe, ci si immagini a quali titaniche difficoltà va incontro chi sente il dovere di tenere sollevata la limpida bandiera dell’internazionalismo, in Europa, nella Russia e nell’Ucraina in guerra, al di sopra del pluridecennale fango della demoralizzazione del proletariato, della sua disorganizzazione, del vero e proprio sfondamento operato dalle ideologie borghesi nazionaliste, staliniste o democratiche nei ranghi di una classe che non è più nemmeno in grado di riconoscersi come tale. Un motivo in più per stringere saldamente il pugno sull’asta e per difendere il vessillo dai maleodoranti schizzi di mota che arrivano da ogni direzione. Un motivo in più per ribadire il nostro no alle guerre ma anche alle paci dell’imperialismo. Un motivo in più per ricordare al proletariato di tutti i Paesi che la pace non può essere regalata dal capitalismo, ma solo strappata da una rivoluzione sociale che si prefigga di abbatterlo.

Prospettiva Marxista

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