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Il nazionalismo di Zelensky: un nazionalismo in affitto

(27 Marzo 2022)

Volodymyr Zelensky

Nel tripudio di odi a Zelensky e al nazionalismo ucraino, non poteva mancare quella di Tremonti, l’uomo dai pensieri brevi e profondi. Ed è arrivata infatti puntuale, sul Corriere della sera del 22 marzo, il giorno del suo comizio in parlamento. Secondo Tremonti il risorgente “senso della patria ucraina”, di cui Zelensky è portavoce a mass media occidentali unificati, esprime “un nuovissimo, anzi antichissimo tipo di eroismo, insieme nazionale ed europeo. Proprio come è stato due secoli fa al tempo dei risorgimenti europei”.

Falso. Anzi falsissimo.

Dalla a alla zeta.

Il nazionalismo di Zelensky è la reincarnazione (in certe immagini ostentata anche con il vecchio simbolo banderista sulla sua maglietta) di un nazionalismo in affitto che ha ben poco a che vedere con il nazionalismo ucraino storico mirante all’indipendenza nazionale, con la sua matrice contadina e il suo orizzonte slavo (non europeo né, tanto meno, NATO). A provarlo basta un rapido sguardo retrospettivo.

Nel suo scritto su Friedrich Engels e il problema dei “popoli senza storia”, Roman Rosdolsky spiega che al 1848, l’anno-chiave dei “risorgimenti europei”, gli ucraini, o “come si sarebbero poi chiamati essi stessi, i ruteni (rusyny, cioè piccoli russi) della Galizia e della Bucovina, territori della corona austriaca e dell’Ungheria nord-orientale”, si trovavano in una condizione particolarmente sfavorevole per potersi costituire in nazione indipendente. Sentiamo il perché:

«Che cosa erano i ruteni nel 1848? Niente più che “le ombre dei loro dimenticati antenati”, una massa di contadini analfabeti, e semiservi, che se parlavano una lingua diversa e frequentavano una differente chiesa rispetto ai loro signori rurali, si trovavano ancora immersi nella loro profonda “non-storicità”, e che solo nel loro clero cattolico-greco disponevano di antesignani dell’intelligencjia nazionale. Fin dalla metà degli anni Trenta, il clero, sotto l’influenza dei rinnovatori serbi e cechi, desiderava far rivivere la nazionalità rutena; e nel tumultuoso 1848 si fece avanti con richieste sorprendentemente mature da un punto di vista politico e culturale. Ma si trattava in realtà soltanto di un modesto inizio. Nello stesso momento, al contrario del clero, la massa del popolo, i contadini, era a stento toccata da un’idea nazionale. Certamente si sentivano ruteni, ma solo perché i proprietari fondiari e le loro creature erano polacchi, perché i proprietari, nel loro ostentato disprezzo per la “lingua contadina” e il “clero plebeo”, avevano sottolineato quotidianamente la differenza tra loro stessi e i “sudditi”. L’antagonismo nazionale era qui perciò (per dirla con Otto Bauer) soltanto una forma fenomenica dell’antagonismo sociale. L’odio nazionale era solo un odio di classe trasformato. Quindi sarebbe occorso il lavoro instancabile di molte generazioni perché la nazionalità rutena si convertisse da mera potenzialità in realtà culturale e politica.»

Secondo Rosdolsky la questione della costituzione della nazione ucraina

«è legata, in un modo o nell’altro, alla questione contadina e lo stesso movimento ruteno appare, essenzialmente, come un movimento contadino. E questo è ciò che esso fu realmente; un pezzo di 1789, un movimento attraverso il quale, a dispetto della ristrettezza nazionale e del carattere piccolo borghese reazionario del cospicuo strato di intellettuali, si annunciava come nuova forza storica “un elemento rivoluzionario ancora arretrato” – il contadinato in rivolta contro il feudalesimo».

La massa dei contadini ruteni (che viveva allora, in parte, all’interno dell’impero austro-ungarico) non partecipò attivamente alla rivoluzione borghese austriaca del 1848-’49. Ma questo avvenne, in larga misura, per la timidezza con cui la rivoluzione stessa affrontò la questione contadina, fermandosi rispettosa davanti agli inviolabili diritti di proprietà dei padroni delle terre. La Dieta di Vienna, infatti, approvò compensazioni onerose a favore dei latifondisti, lasciando all’arbitrio dei proprietari fondiari di disporre delle foreste e dei pascoli. E in questo modo tradì insieme i contadini e la stessa rivoluzione (borghese).

Anche nei successivi decenni il movimento nazionale ucraino continuò ad avere un carattere in prevalenza contadino. Come nota Carr, ne La rivoluzione bolscevica 1917-1923:

«In Ucraina i contadini costituivano non soltanto la vasta maggioranza della popolazione, ma anche la sola classe che avesse dietro di sé una lunga tradizione. Le loro rivendicazioni sociali ed economiche – base costante di ogni nazionalismo contadino – erano dirette contro i proprietari terrieri (polacchi, per la maggior parte, ad ovest del Dnepr, e russi altrove) e contro i mercanti e gli usurai (quasi esclusivamente ebrei). La religione ortodossa li univa alla Chiesa russa, accentuando il loro distacco sia dagli ebrei che dai cattolici polacchi. Il nazionalismo ucraino era perciò, in sostanza, più anti-semitico e antipolacco che anti-russo [c. n.]. Nel XVII secolo, quel capo cosacco che sarebbe poi divenuto uno degli eroi nazionali più popolari, Bogdan Chmel’nickij, aveva guidato i contadini ucraini (sebbene fosse egli stesso di origine polacca) contro i loro padroni polacchi, e aveva compiuto atti di omaggio a Mosca. I contadini ucraini, o piccoli-russi, erano consapevoli di ciò che li distingueva dai grandi-russi, ma si riconoscevano russi in senso lato, anche per l’evidente affinità della lingua. La supremazia politica di Mosca o di Pietrogrado poteva dar luogo a risentimenti in una nazione la cui capitale era più antica di Mosca e di Pietrogrado. Ma questa capitale, Kiev, era essa stessa una capitale russa. Un nazionalismo ucraino che si fosse fondato anzitutto e soprattutto su un sentimento di ostilità alla Russia non avrebbe incontrato molto favore tra i contadini.»

Nonostante ciò, cosciente dell’oppressione politica e culturale esercitata dallo zarismo sulla popolazione dell’Ucraina, Lenin si pronunciò senza esitazioni per il diritto all’autodecisione dell’Ucraina fino alla separazione – il che non significa: parteggiando per la separazione, bensì, al contrario, proponendo l’unione volontaria della repubblica ucraina con le altre repubbliche sovietiche. La tormentatissima nascita della Repubblica sovietica ucraina (e tutta la successiva vicenda storica fino ai nostri giorni) hanno provato quanto tale posizione fosse lungimirante, dal momento che toglieva forza di attrazione alle componenti nazionaliste avverse alla rivoluzione sociale e pronte a chiedere aiuto, contro la Repubblica dei Soviet, alle massime potenze imperialiste del tempo: Francia e Gran Bretagna. Mentre per alcuni mesi del 1918, dopo l’accordo di Brest Litovsk, anche la Germania provò ad insediare in Ucraina un proprio governo fantoccio.

Vale la pena ricordare che nella tumultuosa congiuntura rivoluzionaria degli anni 1917-1921, il nazionalismo ucraino di matrice borghese, molto debole per l’esiguità della sotto-struttura economica su cui poggiava, andò incontro ad una vera e propria bancarotta politica per non aver voluto sostenere né la causa della rivoluzione sociale, né quella più modesta di una qualche riforma di rilievo. La sua inconsistenza lo portava a dipendere da “interessi stranieri”, e lo condusse infine al suicidio quando, con Petljura, concluse un accordo con i polacchi, “i nemici tradizionali del contadino ucraino”. Una scarsissima fortuna ebbero anche i tentativi borghesi di “ucrainizzare” lingua, musica, scuole, giornali, libri, come ammise uno degli esponenti più in vista di questo nazionalismo, Vinnicenko, che Carr considera “il più onesto dei suoi capi”.

Anche il bolscevismo andò incontro a grosse difficoltà nello sbrogliare una matassa intricatissima: sia per l’essere l’Ucraina un territorio conteso da secoli dal Commonwealth polacco, dall’impero zarista e da quello austro-ungarico, sia per la particolare composizione sociale ed etnica derivante dal suo essere “terra di frontiera tra culture, religioni, Stati e civiltà”. Nel dicembre 1919 una conferenza speciale del Pcb indetta a Mosca per affrontare la questione ucraina, si concluse con una risoluzione che imponeva a tutti i funzionari statali la conoscenza della lingua ucraina e consigliava di ripartire tra i contadini le grandi proprietà terriere, limitando sia la formazione di kolkhoz che la requisizione del grano, “allo stretto necessario”. Queste indicazioni trovarono, però, una forte opposizione nei dirigenti bolscevichi di Ucraina che erano in prevalenza grandi-russi, come lo era del resto il sottile strato di proletariato industriale. La massa dei contadini, vera base di massa del nazionalismo ucraino storico, rimase alquanto delusa dal nuovo regime politico che considerava “un regime di abitanti delle città”. Resta comunque indiscutibile il dato che Putin ha fatto oggetto di attacco frontale nel suo discorso alla nazione del 21 febbraio: fu il bolscevismo di Lenin (non personalizziamo a caso, dal momento che ci fu nel Pcb un vero e proprio scontro tra posizioni assai distanti tra loro) che riconobbe all’Ucraina la pienezza dei suoi diritti nazionali “quale entità propria in seno all’esperienza delle repubbliche sovietiche, oltre che a promuoverne la più viva espressione in campo culturale, economico e politico”. E’ questo il dato storico incancellabile: lo stato-nazione ucraino ha una matrice sovietica, rivoluzionaria (si esprime in tal senso anche Limes, n. 4 / 2014). Al contrario le grandi potenze feudali, capitalistiche, imperialiste hanno visto e vedono nella terra e nella popolazione dell’Ucraina esclusivamente una preda da sezionare, smembrare e divorare.

Il successivo corso dello stalinismo in Ucraina è stato ben riassunto su un vecchio numero del Che fare (n. 64 / aprile 2005, un’annata ancora valida) nel seguente modo:

«Lo stalinismo (e la controrivoluzione di cui esso allo stesso tempo era prodotto e agente) frenò e capovolse progressivamente questa impostazione. Abbandonata ogni prospettiva internazionalista, le dure esigenze della cosiddetta “costruzione del socialismo” in Russia, cioè di un moderno capitalismo a partire da pressoché zero ed in condizioni di accerchiamento internazionale, imponevano una stretta centralizzatrice da parte di Mosca, che, nelle intenzioni, non lasciava spazio ad alcun tipo di autonomia ma che, in Ucraina, non poté impedire un minimo sviluppo “proprio” (pur nel quadro di dipendenza e controllo russi) in ambito quantomeno culturale.

«La macchina della “pianificazione sovietica” andava avanti senza far sconto ad alcuno (né classi, né popoli) causando in questo modo una frattura dal profondo tra centro russo e soggetti fatti oggetto di tale compressione. Tale frattura fu ancora più evidente in Ucraina dove i rapporti della maggioranza della popolazione, composta soprattutto da contadini, erano molto più “orientati” verso Occidente, essendo totalmente assente nelle campagne quella tradizione comunitaria propria di alcune istituzioni contadine russe d’epoca zarista. Il cambiamento in senso “collettivistico” e statalistico provocò quindi ancora di più il risentimento e l’opposizione nei confronti della Russia. [Qui il riferimento, troppo velato, è alla tragedia dell’Holodomor, la grande carestia del 1932-’33 che costò all’Ucraina 3 milioni e mezzo di vittime, e che, tra collettivizzazione, deportazioni, politiche repressive contro i contadini affamati e crollo della produzione, destrutturò radicalmente “il tradizionale tessuto delle campagne dell’Ucraina centrale e orientale”, e contribuì in modo decisivo a capovolgere il loro tradizionale orientamento verso il mondo slavo, e specificamente russo – n.].

«Non aiutò, in questo senso, neanche la politica moscovita che tra il ’39 ed il ’45 promosse una serie di acquisizioni territoriali a favore dell’Ucraina. Ciò comportò in effetti l’inglobamento di importanti territori, ma anche dieci milioni circa di nuovi abitanti dalle diverse nazionalità, fatto questo che incrementò le rivendicazioni di carattere nazionale dell’elemento ucraino. Il nazionalismo ucraino si riaffacciò dunque sulla scena, non più nell’ottica di una indipendenza nell’ambito di una federazione slava, così come era stato nell’800, ma ora in veste anti-sovietica e con un occhio di “riguardo” a possibili alleati cui accodarsi a questo scopo, mancando una sua propria forza autonoma reale.

«Il nazifascismo sfruttò la questione (reale) dell’indipendentismo ucraino per attaccare l’Urss. Stuoli di armate ucraine combatterono pro-Hitler nella seconda guerra mondiale. Molti furono gli ucraini che collaborarono con i tedeschi e numerosi i volontari arruolatisi nelle SS. In mancanza di una prospettiva proletaria internazionalista in grado di combattere, assieme, gli imperialismi in lotta e lo stalinismo, questa era la via obbligata per un nazionalismo portato avanti da deboli e svendute forze borghesi, sia pur con seguito di massa. [Stepan Bandera, il suo movimento nazionalista Oun, la sua milizia Upa, collaboratori della Wehrmacht nella spietata caccia ai polacchi, ai russi e agli ebrei, sono la più nota incarnazione di quel nazionalismo borghese in affitto che è ritornante nella storia ucraina, e ha raggiunto il suo apice con Zelensky – n.].

«Sull’opposto versante, un’altra parte di queste stesse masse popolari combatté sul fronte del “socialismo sovietico”, non mettendo da parte il proprio essere ucraine, ma subordinandolo alla preliminare sconfitta dell’hitlerismo, da cui (a ragione) si avvertiva che nulla di buono si sarebbe potuto cavar fuori.

«Dopo la sconfitta del nazismo Stalin diede il via ad un deciso giro di vite nei confronti dei collaborazionisti. Molti di essi emigrarono, dando vita a numerose comunità estere (in Usa e in Canada) assai influenti sia politicamente che finanziariamente, le quali hanno costituito un importante fattore per l’attuale rivitalizzazione nazionalistica a tinte arancioni e stellestrisce.

«La fine della seconda guerra mondiale non risolse l’annoso problema nazionale ucraino, bensì lo ripropose ingigantito nell’ambito, sempre più denso di contraddizioni, dell’Urss. L’azione dello stato in senso ultracentralista e “pianificatore” rispondeva alle esigenze della prima fase dello sviluppo capitalistico nell’area sovietica. Quella fase in cui si trattava appunto di raggruppare e concentrare gli scarsi mezzi a disposizione per impiantare le basi di un moderno industrialismo capitalistico nel paese. Un industrialismo che non solo poteva essere impulsato esclusivamente da una azione “dall’alto”, ma che poteva essere salvaguardato dall’invadenza dell’ipersviluppato imperialismo occidentale solo ed esclusivamente da un (borghesissimo) guscio protettivo statale. Fu lo stalinismo che, dopo aver pugnalato alle spalle ogni prospettiva proletaria internazionalista, si fece interprete di tali esigenze. [In questo contesto, paradossalmente fu proprio la direzione stalinista dell’Urss, che negli anni ‘30 aveva adottato il pugno di ferro contro le popolazioni rurali dell’Ucraina, a creare le basi di una “grande Ucraina”, con l’annessione ad essa della Bucovina settentrionale e della Transcarpazia; un processo di allargamento territoriale, che si completò nel 1954 con l’assegnazione all’Ucraina della Crimea da parte di Kruscev. – n.].

«Il “pulcino” ucraino, però, a un certo punto iniziò a premere contro il guscio vedendo in esso non tanto un fattore di protezione bensì un ostacolo alla sua crescita. Ed è stata proprio la spinta dei tanti “pulcini interni”, nonché la concomitante pressione dei rapaci occidentali, a mandare in frantumi l’ex Unione Sovietica: lo stalinismo, una volta assolto il suo compito, poteva essere mandato in pensione senza troppi riguardi.

«Con la polverizzazione dell’Unione Sovietica in mille frammenti nazional-borghesi “autonomi”, hanno fatalmente rialzato la testa in Ucraina le tendenze indipendentiste, tanto poco indipendenti di fatto da dover scegliere tra queste due alternative: o stare, “sulle proprie gambe”, con la Russia, o proiettarsi verso l’Occidente per svincolarsi da Mosca, e su gambe proprie ancor più flosce. In entrambi i casi, la direttiva di fondo è quella capitalistica, e l’unico soggetto a non poter scegliere nulla per sé è quello “popolare”, non sfruttatore, proletariato e contadiname, sottomesso alle dure leggi dell’ipersfruttamento borghese».

L’implosione/esplosione dell’Urss privò l’Ucraina di quella posizione relativamente privilegiata di cui aveva potuto godere all’interno del recinto protettivo del Comecon, di cui era una delle aree più industrializzate. Il suo improvviso sbalzamento nel mercato mondiale con la necessità di confrontarsi con livelli di centralizzazione del capitale e di produttività del lavoro ben superiori, ha letteralmente devastato la sua compagine economica e sociale. Come ha scritto M. Roberts,

«L’Ucraina è stata la regione più colpita dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla “shock therapy” della restaurazione capitalista [per noi si tratta, invece, di un nuovo assetto capitalistico – n.] nell’Europa orientale e nella stessa Russia. Tutti gli ex satelliti sovietici hanno impiegato molto tempo per recuperare il PIL pro capite e i livelli di reddito, ma nel caso dell’Ucraina non sono mai tornati al livello del 1990. La performance dell’Ucraina tra il 1990 e il 2017, non è stata solo la peggiore tra quelle dei suoi vicini europei, ma è stata la quinta peggiore in tutto il mondo. Tra il 1990 e il 2017 ci sono stati solo 18 paesi con una crescita cumulativa negativa, e perfino in quel gruppo selezionato, la performance dell’Ucraina la colloca come il terzo paese peggiore insieme alla Repubblica Democratica del Congo, al Burundi e allo Yemen.» [c. n.]

Questa spettacolare regressione, che ha prodotto tra l’altro un’enorme emigrazione da un lato verso la Russia, dall’altro verso l’Europa occidentale, dà la misura dell’(in)capacità della classe capitalistica ucraina a fare l’“interesse nazionale”, mentre il grado di concentrazione della ricchezza nazionale (100 magnati controllano l’80% del pil) testimonia della loro voracità. Una classe capitalistica divisa dal primo momento dell’indipendenza tra un’affiliazione subordinata al campo delle potenze occidentali segnata da un fanatico liberismo, e la ricerca, alla fin fine subordinata anch’essa, di un maggior spazio di sviluppo protetto dallo stato (uno stato sempre meno “sociale”) in direzione Russia – una Russia che fino a tempi recentissimi è rimasta la prima nazione per investimenti in Ucraina. La feroce guerra per bande all’interno di questa borghesia culminata nella vicenda di Euromaidan e nella defenestrazione del filo-russo Yanukovic, l’ha ulteriormente indebolita nei confronti della pressione esterna delle potenze occidentali, esponendola a diventare infine l’esecutrice dei suoi diktat, messi a punto prima dal FMI e poi dalla NATO. Il magnifico risultato di queste imprese della borghesia ucraina sono stati prima la bancarotta (nell’aprile 2014 anche Limes ammetteva: “la bancarotta ucraina è dietro l’angolo”), poi il coinvolgimento avventuristico nelle manovre provocatorie di Stati Uniti e NATO volte a costruire una nuova trappola afghana alla Russia di Putin.

L’unica possibile forza di reazione alla deriva pro-occidentale avrebbe potuto essere l’attivizzazione in proprio delle masse sfruttate dell’Ucraina, la loro scesa in piazza con un loro programma, ma

«i pro-russi, vale a dire la parte nazional-borghese ucraina legata a Mosca, temono come la peste che questo avvenga. In linea astratta, nulla impediva e impedisce che contro la mobilitazione pro-occidentale scendano in campo masse antagoniste, che pure si erano dichiarate pronte a ciò, ovvero masse di sfruttati scarsamente inclini alla svendita alle leggi occidentali del libero mercato… dipendente. Sennonché per borghesi del tipo Kuchma o Yanukovic, in opposizione a Yushenko, ma sulla stessa linea di classe, ciò costituisce molto più un rischio che un’opportunità. Il motivo è semplice. Chiamando alla lotta il proletariato, finirebbero per essere spazzati via essi stessi. La perdurante corruzione, i furti indiscriminati, la caduta verticale delle condizioni di vita reali dei lavoratori sono elementi che difficilmente verrebbero ignorati da un reale movimento di massa in lotta.» (Che fare, n. 64).

In linea generale è oggi preclusa ovunque una strada che veda settori di borghesie già insediate al potere ricorrere sistematicamente alle masse lavoratrici per affermare i loro interessi “di frazione”. Ciò che li lega alle frazioni capitalistiche avverse è mille volte superiore agli ipotetici vantaggi che potrebbero trarre da una “alleanza” con gli sfruttati. D’altra parte, il loro scopo non potrebbe comunque essere quello di uno sviluppo più “autocentrato” – escluso a questo stadio di centralizzazione del capitale globale -, ma soltanto un rallentamento del processo di integrazione nel mercato mondiale, e quindi di dipendenza da esso e in esso.

In assenza del fattore di contrasto costituito da un proletariato capace di mettere in atto un’autodifesa organizzata, la deriva pro-occidentale si è fatta, con l’elezione di Holoborodk-Zelensky alla presidenza nel 2019, inarrestabile. Il resto è davanti ai nostri occhi. Forse Zelensky, la cui popolarità era letteralmente precipitata in soli due anni di malgoverno, ha cercato di fermarsi sull’orlo dell’abisso recalcitrando per qualche giorno davanti agli ordini di Washington (ricordate le sue quotidiane dichiarazioni contro i “pericolosi allarmismi” dell’amministrazione Usa su un’imminente invasione russa?). Ma sta di fatto che da quando è iniziata l’invasione russa, è diventato un portavoce della NATO, spinto dalla catastrofe in cui ha contribuito a precipitare il suo paese, a posizioni perfino più oltranziste di quelle del Pentagono nell’evocare e invocare apertamente la terza guerra mondiale.

Parlarne come dell’espressione di “un nuovissimo, anzi antichissimo tipo di eroismo, insieme nazionale ed europeo” da “tempo dei risorgimenti europei”, è da consumati bari, quale Tremonti è. Poco o nulla fece il nazionalismo borghese ucraino dei tempi andati per arrivare all’edificazione di uno stato nazionale ucraino, che fu “dono” esclusivo della rivoluzione russa e internazionale alle secolari agitazioni contadine. Molto, moltissimo, l’impensabile, ha fatto il nazionalismo borghese ucraino degli ultimi trent’anni per sfasciare lo stato nazionale e spingere l’intera popolazione lavoratrice dell’Ucraina, di qualunque origine “etnica”, nelle spire mortali del mercato globale del lavoro domestico ed extra-domestico, e della guerra imperialista. Che gli ucraini maledicano la decisione di Putin e l’armata (tutt’altro che rossa) che ha invaso il loro paese e lo sta martellando, è nell’ordine naturale delle cose, e pienamente giustificato. Ma siamo certi che nelle loro maledizioni non dimenticheranno il giullare divenuto “eroe” delle canaglie al potere a Roma, Berlino e Wall Street che, come giocatori di poker, stanno scommettendo – in questo disastro – sui lauti pasti a venire.

Nessuna soluzione della “questione ucraina” è possibile in ambito capitalistico, tanto più attraverso le guerre imperialiste – quella in atto è il terzo flagello bellico che si abbatte su questa sfortunata nazione. L’unica soluzione possibile – ci ripetiamo – è la prospettiva storica e politica magnificamente espressa nell’agosto 1920 nel Manifesto della federazione comunista balcanico-danubiana alle classi lavoratrici dei paesi balcanico-danubiani che prospettava l’unificazione di questi popoli “nel quadro di una repubblica sovietica federativa balcanico-danubiana, la sola in grado di assicurare ai popoli eguali diritti ed eguali possibilità di sviluppo”.

Per quanto questa grandiosa prospettiva di liberazione degli sfruttati, concepibile solo sotto la spinta di un ciclo rivoluzionario internazionale, sia stata fatta a pezzi dalla controffensiva della reazione capitalistica mondiale, insieme democratica e nazi-fascista, e poi – per quel po’ che si era riusciti ad attuarla – sabotata dallo stalinismo, essa resta l’unica prospettiva di liberazione e di pace possibile anche per la “questione ucraina”, che rinnova a nord-est molti dei caratteri tipici dell’intrico di popoli dell’area balcanica-danubiana. Quale libertà, quale pace, infatti, potrebbero mai esserci nel contesto capitalistico per un’Ucraina sulla quale – nel vivo della guerra – accampano diritti, oltre la Russia, gli Stati Uniti, i pescecani uniti e disuniti dell’Unione europea, la Gran Bretagna, la Turchia, Israele, la Polonia, la Cina e quant’altri? Quale libertà, quale pace possono mai venire alle sfruttate e agli sfruttati di questa tormentatissima nazione, cacciati a milioni e milioni dalle proprie terre di nascita, dalla potenza soffocante del capitalismo globale?

Ancora una volta, a distanza di un secolo, è solo la rivoluzione sociale proletaria a poter sbrogliare la intricatissima matassa – a condizione di riuscire a travolgere tutti, ma proprio tutti, i propri nemici di classe.

Il pungolo rosso

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