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Vittorio Arrigoni

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LA GUERRA IN UCRAINA E LA QUESTIONE NAZIONALE NELL’EPOCA DELLA MATURAZIONE IMPERIALISTICA

Prima parte

(30 Marzo 2022)

macello - militarismo

Pubblichiamo in due parti il testo dell’intervento conclusivo della conferenza/dibattito contro la guerra imperialista in Ucraina, tenutasi nella sala “Big Bill Haywood” di Roma il 27 marzo 2022. L'iniziativa è stata organizzata dal Circolo internazionalista “coalizione operaia” e da Prospettiva Marxista.

S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. […] E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli“, – frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace, e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. K. Marx, Critica del programma di Gotha, 1875

L’operaio che pone l’unione politica con la borghesia della «propria» nazione al di sopra dell’unità completa con i proletari di tutte le nazioni agisce quindi contro i propri interessi, contro gli interessi del socialismo e della democrazia. Lenin, Tesi sulla questione nazionale, 1913

Fino a poche ore prima dello scoppio del conflitto in Ucraina, nessuna delle varie organizzazioni o gruppi che si richiamano all’internazionalismo proletario aveva nulla da eccepire sulla definizione della guerra in arrivo come guerra imperialista, su entrambi i fronti. Sono bastati pochi giorni di intensa, pervasiva, totale e violenta propaganda di guerra da parte dei media delle potenze imperialistiche occidentali per far emergere perplessità, ripensamenti più o meno dichiarati, emendamenti o sofisticazioni a proposito della caratterizzazione del conflitto in corso e dei compiti dei rivoluzionari internazionalisti.

L’invasione del territorio ucraino da parte dei carri armati russi e l’insistente richiamo da parte del governo della borghesia ucraina ad una “resistenza nazionale” – richiamo amplificato con un martellamento mediatico a cui non si assisteva da decenni – hanno sparigliato le carte.

L’incapacità strutturale della maggior parte degli internazionalisti “in tempo di pace” di resistere concettualmente ed emotivamente ad una campagna propagandistica così capillare, metodica ed efficace, e le conseguenze della diffusione di questa propaganda su vasti strati della classe operaia, è venuta allo scoperto, rivelando a sua volta una comprensione superficiale, una mancata assimilazione del metodo materialista di analisi del modo di produzione capitalistico e delle sue espressioni sovrastrutturali, una adesione puramente verbale ad un internazionalismo proletario mai pienamente afferrato nelle sue implicazioni e nella sua profondità, una mancanza di fiducia nel ruolo storico della classe operaia che, quando non la si vede direttamente protagonista, si trasforma nell’ansia di schierarsi con qualunque cosa abbia l’apparenza del moto, non importa quale direzione abbia questo moto. Ovviamente, questa incomprensione non è del tutto casuale. Essa affonda le sue radici in una fase del ciclo dell’accumulazione che ha generato un lungo riflusso del movimento operaio a livello mondiale. Riflusso che ha lasciato in secca, ma ancora visibili nei suoi effetti ideologici sulla nostra classe, i relitti di un’intellettualità piccolo-borghese e di strati sociali intermedi messi in moto da passate ondate di lotta del proletariato. L’espressione cosciente della classe rivoluzionaria non è stata in grado, a suo tempo, di strutturarsi quanto necessario per affrontare la fase di riflusso su posizioni inevitabilmente minoritarie ma quantomeno vitali. È un ritardo che la nostra classe oggi sconta pesantemente. Ci si può consolare affermando che teoricamente i conti con l’opportunismo e con il movimentismo massimalista sono stati fatti, ma le condizioni di assoluta irrilevanza in cui versa attualmente l’autocoscienza proletaria – che, beninteso, non poteva nel migliore dei casi rappresentare molto più di una piccola ridotta con solidi legami nella classe – indicano inequivocabilmente che si sono manifestati anche dei limiti teorici, il cui riconoscimento però andrebbe spesso a minare equilibri consolidati, personali esigenze esistenziali, comodi riti e liturgie a cui non si è in grado di rinunciare.

La guerra imperialistica in Ucraina ha rimesso in circolazione presso una sinistra formalmente internazionalista tutta una serie di parole d’ordine e di frasi civetta che sembrano agire come un richiamo irresistibile per molti che non hanno l’accortezza di legarsi strettamente all’albero maestro della teoria marxista prima di gettarsi in acque infestate dalle sirene borghesi. “Aggressione”, “invasione”, “resistenza”, “autodeterminazione dei popoli” sono quelle più in voga al momento. Nell’adoperare questo frasario contro un “astratto principismo” internazionalista è frequente il richiamo alla “concretezza spregiudicata” di Marx, di Engels e soprattutto di Lenin.

A ben vedere però, non si tratta di una novità assoluta nella storia del movimento operaio.

Nel 1914, un socialista che passava per arci-rivoluzionario scrisse:

…un Partito che vuol vivere nella storia e fare – per quanto gli è concesso – la storia, non può soggiacere – pena il suicidio – a una norma cui si conferisca valore di dogma indiscutibile o di legge eterna sottratta alle ferree necessità dello spazio e del tempo. […] … non possiamo “imbozzolarci” in una formula, se non vogliamo condannarci all’immobilità. La realtà si muove e con ritmo accelerato. Abbiamo avuto il singolarissimo privilegio di vivere nell’ora più tragica della storia del mondo. Vogliamo essere – come uomini e come socialisti – gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne – in qualche modo o in qualche senso – i protagonisti? Socialisti d’Italia, badate: talvolta è accaduto che la “lettera” uccidesse lo “spirito”. Non salviamo la “lettera” del Partito se ciò significa uccidere lo “spirito” del socialismo![1]

Quante volte abbiamo sentito questa vecchia canzone nelle ultime settimane, in Italia e all’estero. Il socialista “arci-rivoluzionario” e “anti-principista”, che la cantava, si chiamava Benito Mussolini.

Fu Bordiga a rispondergli che la melodia suonava note stonate:

La preoccupazione di mettersi nel campo della realtà equivale ad accettare l’insidia polemica – e pratica – dei nostri avversari, che pretendono di porre i principi del socialismo su altra base che quella della realtà che ci circonda, per demolirne così la potenzialità sovvertitrice. […]Iltimore di permettere che il presente sia sopraffatto dal passato, mentre noi ci illudiamo di lavorare per l’avvenire, è squisitamente riformistico. Il presente, quando noi staremo per travolgerlo, griderà sempre al pericolo contro le risurrezioni del passato. Il rivoluzionarismo marxista dovrebbe portarci ben fuori di questo tranello.[2]

I nostri principi e la nostra analisi, se sono marxisti, hanno sempre le radici affondate saldamente nella realtà che ci circonda. E la concretezza spregiudicata dei nostri maestri si fondava sulla stessa analisi materialistica della realtà sociale su cui si fonda anche il principio irrinunciabile dell’internazionalismo proletario – un principio scientifico, dunque, non derivante da un’etica metafisica.

Eppure, oggi, molti di coloro che vivono con senso di panico l’eventualità che il “vecchio formulario” internazionalista abbia il sopravvento sull’ora presente; molti di coloro che vivono nel terrore di rimanere “fuori” da una “storia” nella quale non sono mai entrati – malgrado tutti i loro contorcimenti “tattici” à la page – non hanno problemi di coerenza nell’applicare meccanicamente, schematicamente, alla guerra in Ucraina la strategia di Lenin sull’autodecisione delle nazioni dei primi decenni del XX secolo. È molto strano, perché si tratta precisamente di un saggio del cosiddetto astratto “principismo” che rampognano agli altri: un atteggiamento che “astrae” dalla realtà della maturazione imperialista del mercato mondiale e che si appiattisce su un “principio”, quello dell’autodeterminazione nazionale, che, per il socialismo rivoluzionario, è sempre stato subordinato al principio dell’autodeterminazione di classe del proletariato[3].

Se non si esaminano le dinamiche reali e le attuali forze in campo a livello della contesa imperialistica mondiale non si è in grado di comprendere lo scontro in atto in Ucraina, e allora la superficiale somiglianza con fatti e circostanze di una diversa fase dello sviluppo capitalistico conduce chi non vuole o non è in grado di impugnare il metodo marxista – e non ne ha mai condiviso fino in fondo i princìpi cardine – a riproporre semplicemente formulazioni delle quali non si è compresa la genesi teorica e il legame profondo con quella realtà che le ha rese possibili ed efficaci.

***

Uno dei “classici” tentativi che si fanno per derubricare una presa di posizione coerentemente internazionalista sulla guerra in Ucraina è accostarla alla visione “luxemburghiana”, contrapponendole le critiche di Lenin all’opuscolo di Junius e operando con arroganza una grossolana equiparazione che solo una lettura molto superficiale può rendere plausibile.

Non sono mancati in questi giorni tentativi in questo senso, corredati da florilegi di citazioni messe insieme con la sublime arte del cherry picking. Ma Lenin scrive:

Può darsi che la negazione delle guerre nazionali in generale sia solo una inavvertenza o un inconscio entusiasmo nel mettere in risalto il concetto del tutto esatto che la guerra attuale è imperialista e non nazionale. Ma siccome è possibile anche il contrario, siccome si nota in diversi socialdemocratici, a causa della falsa presentazione della guerra attuale come guerra nazionale, l’errata negazione di tutte le guerre nazionali, non possiamo non soffermarci su questo errore. Junius ha perfettamente ragione quando mette l’accento sull’importanza decisiva del “carattere imperialista” della guerra attuale, quando afferma che dietro la Serbia c’è la Russia, che “dietro il nazionalismo serbo si erge l’imperialismo russo”, che – per esempio – la partecipazione dell’Olanda alla guerra ha egualmente un carattere imperialista, perché l’Olanda in primo luogo difende le sue colonie e in secondo luogo è alleata di una delle coalizioni imperialiste. Tutto questo è irrefutabile per quel che riguarda la guerra attuale.E quando Junius richiama in modo particolare l’attenzione su quello che a lui sembra l’aspetto più importante del problema – la lotta contro il “fantasma di una guerra nazionale”, “che domina in questo momento la politica socialdemocratica” (p. 81) – non si può non riconoscere che il suo modo di ragionare è giusto e interamente appropriato.[4]

Dunque, per Lenin, Junius/Luxemburg aveva “perfettamente ragione”, e il suo modo di ragionare era “giusto e interamente appropriato” quando metteva l’accento sull’importanza decisiva del “carattere imperialista” della guerra del 1914-1918, quando affermava che dietro il nazionalismo serbo si ergeva l’imperialismo russo e che la partecipazione dell’Olanda alla guerra aveva egualmente un carattere imperialista, perché l’Olanda in primo luogo difendeva le sue colonie e in secondo luogo era alleata di una delle coalizioni imperialiste.

Ebbene, è esattamente quanto affermiamo a proposito dell’attuale guerra in Ucraina. Si tratta di una guerra imperialista su entrambi i fronti nella quale l’elemento nazionale gioca un ruolo del tutto marginale, se si eccettua il suo peso ideologico.

Lenin prosegue:

L’errore sarebbe soltanto di esagerare questa verità, di eludere l’esigenza marxista della concretezza, di estendere la valutazione della guerra attuale a tutte le guerre possibili nell’epoca dell’imperialismo, di dimenticare i movimenti nazionali contro l’imperialismo. L’unico argomento in favore della tesi: “non ci possono più essere guerre nazionali”, è quello che il mondo è oggi diviso tra un pugno di “grandi” potenze imperialiste e che perciò qualsiasi guerra, anche se nazionale ai suoi inizi, si trasforma in guerra imperialista, perché finisce sempre col toccare gli interessi di una delle potenze o delle coalizioni imperialiste. È ovvio che quest’argomento non è giusto. Senza dubbio, il principio fondamentale della dialettica marxista è che tutti i limiti, nella natura e nella società, sono relativi e mobili; che non c’è un solo fenomeno il quale non possa, in determinate circostanze, trasformarsi nel suo opposto. Una guerra nazionale può trasformarsi in guerra imperialista e viceversa.[5]

Ma questa corretta osservazione di Lenin a Junius non ci coinvolge, in quanto non neghiamo in assoluto l’eventualità che in futuro possano riemergere guerre nazionali progressive. È il risultato di un’analisi materialistica, non una qualche assolutizzazione metastorica, che ci induce a riaffermare il principio internazionalista; che ci porta a non riscontrare attualmente movimenti nazionali contro l’imperialismo bensì dentro l’imperialismo. In ogni circostanza valutiamo materialisticamente la realtà delle forze in campo: borghesie nazionali, potenze imperialiste, rapporti di classe, movimenti politici, e, sulla base del punto di vista di classe, ci sforziamo di elaborare delle indicazioni per il proletariato.

Domandiamoci quante nazioni attualmente nel mondo, prescindendo dal dominio economico e finanziario, sono vere e proprie colonie subordinate al dominio politico diretto di un’altra nazione, quante sono incorporate con la violenza all’interno delle frontiere dello Stato di un’altra nazione. Rispondendo a questa domanda inizieremo a farci un’idea delle forme odierne dell’imperialismo e quindi anche delle forme che assume oggi la lotta contro di esso.

Se all’epoca di Lenin il dominio imperialistico si sovrapponeva ancora al precedente dominio coloniale, direttamente politico, oggi il dominio politico dell’imperialismo è prevalentemente mediato dal dominio finanziario. L’imperialismo maturo non si identifica con l’esigenza di colonie precapitalistiche nelle quali “realizzare” il plusvalore prodotto nella madrepatria, e le teorizzazioni “neocolonialiste”, che non colgono nello sfruttamento imperialistico una dinamica di drenaggio di plusvalore tra gradi diversi di sviluppo capitalistico, occultano il dato di fatto che non solo l’imperialismo non necessita minimamente di rapporti di dominazione coloniale, ma che anzi da essi trae nocumento. Infatti, laddove una borghesia sufficientemente vitale e rivoluzionaria è riuscita a scuotersi di dosso il dominio coloniale, direttamente politico, è stato possibile avviare un’industrializzazione che ha enormemente ampliato le possibilità di esportazione di capitale nel mondo da parte dei paesi imperialisti.

Una volta individuate le nazionalità ancora direttamente oppresse dobbiamo esaminare nel concreto la struttura economico-sociale delle regioni in cui si collocano, il loro grado di differenziazione sociale interna, i rapporti tra le classi, i rapporti delle classi con i movimenti politici e i rapporti di questi e di quelle con le varie potenze imperialistiche. Solo a quel punto sarà possibile, da un punto di vista sempre rigorosamente proletario, determinare una politica internazionalista sulla questione nazionale e nella lotta all’imperialismo.

Al giorno d’oggi, le sacche di oppressione nazionale ancora esistenti nel mondo – nelle quali non riteniamo si inserisca l’Ucraina – sono perlopiù confinate nelle zone di faglia dell’imperialismo, nelle intersezioni tra le sfere di influenza delle varie potenze imperialistiche. Il pluridecennale – in certi casi secolare – attrito tra opposti contendenti, senza un decisivo prevalere dell’uno sull’altro, ha trasformato queste aree in “zone grigie” dell’imperialismo, con un’economia strettamente legata alle esigenze dei paesi oppressori e al commercio dei prodotti di un’agricoltura estremamente arretrata. Traffici che arricchiscono prevalentemente una debolissima piccola e media borghesia mercantile, poco o nulla interessata a reinvestire il capitale accumulato e pronta a vendersi al migliore offerente imperialista. In simili circostanze, ben difficilmente si può sostenere che esista una borghesia nazionale rivoluzionaria in grado di condurre conseguentemente una lotta anti-imperialista, e d’altro canto i lavoratori salariati – dal punto di vista della rilevanza sociale più che da quello numerico – sono purtroppo ancora una forza marginale in queste società, dispersi in centinaia di piccolissime e piccole aziende commerciali o del terziario. Evidentemente, l’unica risposta a questa debolezza e alla corruzione di una borghesia compradora che mantiene il suo dominio sociale solo in grazia degli imperialismi a cui alternativamente si vende – mentre contemporaneamente alimenta un fanatismo nazionalista ipocrita – è nella più stretta unione dei lavoratori delle nazionalità oppresse con il proletariato dei paesi oppressori della regione. Un’unione che, se realizzata, non può certamente accontentarsi della mera risoluzione delle “questioni nazionali”.

Come osservava correttamente Lenin

Le singole rivendicazioni della democrazia, compresa l’autodecisione, non sono un assoluto, ma una particella del complesso del movimento democratico (oggi: del complesso del movimento socialista mondiale). È possibile che, in singoli casi determinati, la particella sia in contraddizione col tutto, e allora bisogna respingerla. È possibile che il movimento repubblicano di un paese sia soltanto uno strumento degli intrighi clericali o finanziari, monarchici di altri paesi; allora non dovremo sostenere quel dato movimento concreto; ma sarebbe ridicolo cancellare per questa ragione dal programma della socialdemocrazia internazionale la parola d’ordine della repubblica.[6]

Per tenerci sulle generali, senza dilungarci troppo in approfondimenti che esulano dallo scopo di questa riflessione, riteniamo che tra i “singoli casi determinati” in cui la particella è in contraddizione col tutto si inseriscano ad esempio le questioni nazionali della Palestina e del Kurdistan, per non parlare dell’Afghanistan, che così di recente ha provocato tante paurose sbandate che sono sfociate persino nella barzelletta dei talebani espressione politica di una borghesia “rivoluzionaria” e anti-imperialista.

Tornando all’opuscolo di Junius esaminato da Lenin, in esso, paradossalmente, la Luxemburg tenta di adattare il “programma nazionale” dell’epoca della borghesia ascendente ad una guerra imperialista, e questa posizione, più che alla nostra, ci sembra assomigliare molto a quella di chi inneggia alla “resistenza nazionale” ucraina come “forma di lotta di classe” nelle circostanze attuali.

Per Lenin, infatti, Junius/Luxemburg:

… propone di “contrapporre” alla guerra imperialista il programma nazionale. Propone alla classe d’avanguardia di volger lo sguardo al passato e non all’avvenire! Nel 1793 e nel 1848, in Francia, in Germania e in tutta l’Europa, obiettivamente era all’ordine del giorno la rivoluzione democratica borghese. A questa situazione storica obiettiva corrispondeva il programma “effettivamente nazionale”, cioè nazionale borghese, della democrazia del tempo, programma attuato nel 1793 dagli elementi più rivoluzionari della borghesia e della plebe, programma sostenuto nel 1848 da Marx a nome di tutta la democrazia d’avanguardia. Alle guerre feudali e dinastiche si contrapposero allora, obiettivamente, le guerre democratiche rivoluzionarie, le guerre di liberazione nazionale. Tale era l’essenza dei compiti storici del tempo. Oggi, la situazione obiettiva dei maggiori Stati progrediti d’Europa è diversa. Uno sviluppo progressivo – astrazione fatta dai possibili, temporanei passi indietro – è realizzabile soltanto in direzione della società socialista, della rivoluzione socialista. Alla guerra borghese imperialista, alla guerra del capitalismo altamente sviluppato, obiettivamente sipuò soltanto contrapporre, dal punto di vista progressivo, dal punto di vista della classe d’avanguardia, la guerra contro la borghesia, vale a dire, innanzi tutto, la guerra civile del proletariato contro la borghesia per il potere, la guerra senza la quale non è possibile un serio movimento progressivo, e poi – solo in determinate circostanze particolari – una eventuale guerra in difesa dello Stato socialista contro gli Stati borghesi. Perciò, quei bolscevichi […]che erano disposti ad accettare il punto di vista della difesa a certe condizioni, della difesa della patria a condizione della vittoria della rivoluzione e della repubblica in Russia, restavano fedeli alla lettera del bolscevismo, ma ne tradivano lo spirito, giacché la Russia, anche se fosse repubblicana, partecipando alla guerra imperialista delle potenze progredite dell’Europa condurrebbe pur sempre una guerra imperialista! Dicendo che la lotta di classe è il mezzo migliore contro l’invasione, Junius ha applicato la dialettica marxista solo a metà; ha fatto un passo sulla via giusta e se ne è subito scostato. La dialettica marxista esige l’analisi concreta di ogni situazione storica particolare. Che la lotta di classe sia il mezzo migliore contro l’invasione, è vero sia nei riguardi della borghesia che abbatte il feudalesimo, sia nei riguardi del proletariato che abbatte la borghesia. E appunto perché è vero nei riguardi di ogni oppressione di classe, ciò è troppo generico e dunque insufficiente nei riguardi di questa situazione particolare. La guerra civile contro la borghesia è anche uno degli aspetti della lotta di classe, e solo questo aspetto della lotta di classe potrebbe risparmiare all’Europa (a tutta l’Europa e non a un solo paese) il pericolo di una invasione. La “repubblica grande-tedesca”, se fosse esistita nel 1914-1916, avrebbe condotto la stessa guerra imperialista.[7]

Lenin è cristallino: la lotta di classe è il mezzo migliore contro l’invasione ma l’aspetto della lotta di classe che solo può risparmiare a tutta l’Europa – oggi diremmo quindi anche all’Ucraina – il pericolo di un’invasione è la guerra civile contro la borghesia.

***

La bellezza di un secolo fa sempre Lenin affermava che

L’imperialismo è la fase suprema dello sviluppo del capitalismo. Il capitale ha sorpassato nei paesi avanzati i limiti degli Stati nazionali, ha sostituito alla concorrenza il monopolio, creando tutte le premesse oggettive per l’attuazione del socialismo. Perciò nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti la lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento dei governi capitalistici e per l’espropriazione della borghesia è all’ordine del giorno.[8]

È lecito domandarsi se, in più di cento anni, l’area in cui “la lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento dei governi capitalistici e per l’espropriazione della borghesia era all’ordine del giorno” si sia ampliata o se sia rimasta confinata all’Europa occidentale e agli Stati Uniti. La risposta a questa domanda segna uno spartiacque tra i marxisti e coloro che rivendicano una presunta analisi “concreta della realtà concreta” solo quando i “princìpi” non corrispondono ai loro desideri… o interessi, e inversamente citano i classici – senza coglierne il metodo o alterandoli – quando devono conferire il manto dell’autorevolezza ai loro desideri… o interessi.

Se Lenin poteva correttamente riscontrare un cambiamento rispetto all’epoca di Marx ed Engels, con lo sviluppo dell’imperialismo, con i suoi connotati di spartizione del mondo in colonie e sfere d’influenza, con il ridursi delle aree del pianeta nelle quali i compiti democratico-borghesi erano risolvibili da rivoluzioni nazionali, per contro, oggi, rispetto a più di un secolo fa, si respinge l’analisi concreta delle diverse realtà nazionali nell’imperialismo maturo; si respinge l’evidenza di rivendicazioni nazionali costruite artificialmente dall’imperialismo o che assumono un rilievo esclusivamente perché impugnate dalle varie potenze imperialistiche nella loro contesa; si nega la debolezza e la compromissione di borghesie di alcune nazionalità ancora senza Stato e la debolezza del proletariato nelle no man’s land imperialiste, dove la sovrapposizione di molteplici interessi crea grovigli nazionali che allo stato attuale non sono risolvibili da un punto di vista nazionale. Che siano poi irrisolvibili per sempre all’interno dei rapporti capitalistici di produzione non è sostenibile in assoluto, proprio perché il materialismo storico permette di comprendere che ogni limite è relativo, transitorio[9], così come permette di comprendere che applicare pedissequamente la linea tattica di un precedente ciclo significa non cogliere la metodologia che ha permesso di elaborare questa linea e nella pratica significa tradirne il significato profondo, procurando un danno alla classe operaia internazionale.

Invece dell’ossequio pedante e interessato ad uno schema, sarebbe il caso di riconoscere che l’elemento nazionale per Lenin, come per Marx ed Engels, svolge un ruolo esclusivamente se subordinato al punto di vista di classe, se rafforza la lotta di classe. La nazione (intesa come Stato-nazione) è una categoria transitoria che può essere utile all’interno del processo storio che tende a farla scomparire. In questo soltanto risiede il suo peso. Questa categoria per i comunisti non ha nessun valore in sé.

***

Abbiamo sostenuto, continuiamo, e continueremo a sostenere, che la guerra in Ucraina è una guerra imperialista su entrambi i fronti. Spieghiamoci meglio. Non può essere l’indiscutibile aggressione russa e l’invasione del territorio ucraino a determinare da sola la natura imperialistica di questa guerra, perché nessuna guerra esclude l’aggressione e l’invasione. Le guerre dell’antichità vedevano aggressioni ed invasioni senza essere imperialiste, le guerre feudali e dell’assolutismo altrettanto, le guerre rivoluzionarie e persino le guerre di liberazione nazionale contemplano la possibilità di attaccare preventivamente il nemico e di invaderne il territorio per sconfiggerlo nei suoi centri di potere. D’altro canto, la difesa del territorio nazionale contro l’invasione di truppe nemiche non è sufficiente per definire una guerra di liberazione nazionale; nel 1914 la Francia vide parte del suo territorio invasa dalle truppe dell’impero tedesco, nondimeno, la sua “resistenza” non usciva dal quadro di una guerra imperialista. Ci si obietterà che l’Ucraina non è la Francia del 1914, giustissimo, ma neanche l’Ucraina è più la stessa del 1914 e soprattutto l’estensione mondiale dello stadio imperialistico del capitalismo – con tutto ciò che ne consegue – non è più quella del 1914, e da un pezzo. Sarebbe il caso di fare una buona volta i conti con questa realtà.

Per il capitalismo, sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione esso non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione, che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. [10]

Se nel 1915 per Lenin “quasi tutto il globo” era imperialisticamente diviso, cosa possiamo osservare oggi se non la completa spartizione del globo, non più in forma di colonie – dalle quali sono sorti nuovi Stati pienamente capitalistici e addirittura nuove potenze imperialistiche – ma sempre più “mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri”?

Sebbene l’Ucraina non possa definirsi una potenza imperialista, il suo governo borghese è o non è reazionario[11]? Sarebbe corretto definirla un paese coloniale dominato dall’arretratezza semifeudale – come nel 1915 il Marocco, l’India, la Persia o la Cina? L’Ucraina è o non è un paese capitalistico legato con mille fili all’imperialismo mondiale? È o non è invischiata in una rete di alleanze imperialiste la cui fluidità ha permesso all’imperialismo russo di aggredirla per ora senza scatenare l’intervento militare diretto dell’imperialismo americano o tedesco, o francese, o italiano? È o non è un paese capitalistico che sfrutta la propria classe operaia e che opprime la minoranza russofona all’interno del proprio territorio? In questo caso specifico, la qualifica di guerra “difensiva” o di “difesa della patria” non

costituirebbe una falsificazione storica e, in pratica, solo un inganno del popolo semplice, della piccola borghesia, della gente ignorante, da parte degli astuti padroni di schiavi?[12]

L’Ucraina, che opprime minoranze, che oltre ad esserne oggetto è anche una pedina nel gioco delle potenze imperialiste, sta oggi conducendo una lotta contro l’oppressione straniera? Riteniamo che in questo caso l’aspetto nazionale della resistenza contro l’invasione russa abbia un ruolo marginale rispetto al quadro generale, fondamentalmente imperialista, del conflitto. Quale libertà difende la borghesia ucraina che conduce la guerra anti-russa? La libertà dall’imperialismo? Ma la libertà dall’imperialismo russo implica la libertà dall’imperialismo americano, da quello delle potenze europee o dalla Cina? Il fatto che l’Ucraina non abbia raggiunto la maturità imperialistica, il punteggio pieno dei “cinque contrassegni” di Lenin, può nascondere il fatto che essa sta combattendo, sulla difensiva, per procura, una guerra imperialista che in altre circostanze poteva essere offensiva? E non potrebbe essere ritenuto un atto offensivo permettere che sul proprio territorio vengano create basi militari e missilistiche per una o più potenze imperialiste contro altre? Che sul proprio territorio vengano eseguite manovre ed esercitazioni militari congiunte con gli eserciti di una o più potenze imperialiste contro altre?

Si potrà obiettare che l’adesione dell’Ucraina ad una sfera di influenza imperialistica piuttosto che ad un’altra rappresenta una sua “libera scelta”, ratificata da tutti gli strati della popolazione in libere elezioni che hanno democraticamente conferito il loro mandato a quei governi ucraini che hanno operato tale “scelta”. Sarebbe tutto molto edificante se, da marxisti, non sapessimo che le ideologie dominanti sono quelle della classe dominante e che, nella democrazia borghese dell’epoca imperialista, non è l’interesse della classe dominata ad esprimersi nelle elezioni ma quello delle principali frazioni borghesi che utilizzano tutto il loro armamentario di partiti, movimenti politici, giornali, televisioni, istituzioni culturali ecc. per trasformare il “loro” interesse in una “libera e volontaria scelta” della classe dominata.

La borghesia ucraina ha “scelto” a quale corruttore imperialista vendersi, al proletariato ucraino l’onere di subire le conseguenze delle sue scelte, qualunque esse siano. Che si tratti di scegliere di far parte della sfera d’influenza dell’imperialismo russo, più debole e meno in grado di esportare capitali in Ucraina, o di far parte della sfera d’influenza degli USA o delle potenze europee – senza dimenticare gli importanti rapporti commerciali con la Cina – scatenando una reazione militare di Mosca che, se vogliamo, è esemplarmente indicativa della debolezza dell’imperialismo russo che – a dispetto delle bambinate a proposito della follia, dell’irrazionalità o dell’erroneità dei calcoli di Vladimir Putin – non è stata in grado di continuare la propria politica “con altri mezzi” che non fossero quelli militari.

Per chi vuole intendere: non si tratta in alcun modo di “giustificare” l’aggressione imperialistica russa, quanto di evidenziare le cause profonde di questa guerra e la sua natura imperialistica su tutti i fronti, egualmente condannabili dal proletariato internazionale, quali che siano i reciproci rapporti di forza tra le potenze imperialiste coinvolte, direttamente e indirettamente.

La borghesia ucraina sta lottando per condividere con le potenze imperialiste alle quali si è legata il privilegio di sfruttare il proletariato ucraino. La borghesia ucraina, non imperialista secondo i canoni economici, sta combattendo una guerra imperialista contro un altro imperialismo, che la aggredisce per riportarla nella propria sfera d’influenza o per neutralizzarla dopo averne annesso parte del territorio.

Al di là dell’esistenza o meno in Ucraina di elementi di autocoscienza proletaria in grado di comprendere questo dato fondamentale e di agire conseguentemente – elementi che, ammesso che esistano, purtroppo non sembrano attualmente essere in grado di mutare il quadro complessivo – sostenere la “resistenza” ucraina, borghese e assolutamente non anti-imperialista, per i proletari ucraini significa oggettivamente “aiutare il «proprio» governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell’interesse della rivoluzione”[13]. Ostinarsi a negarlo, da parte di varie organizzazioni che in tutto il mondo si richiamano al marxismo è opportunismo, è socialsciovinismo. E non ci si può considerare scagionati da questa accusa solamente in virtù del fatto che non è – per il momento – il nazionalismo della propria borghesia quello al quale si tenta di aggiogare un reparto della nostra classe mondiale.

Sulla base dell’attuale guerra è impossibile aiutare l’Ucraina, ovvero la sua borghesia, se non contribuendo a soffocare il proletariato sia ucraino che russo. In questo consiste la guerra imperialista, la guerra fra governi borghesi reazionari, storicamente superati, guerra condotta per l’oppressione in primis del proletariato di altre nazioni. Mai come oggi sono validi il monito e la consegna di Lenin:

Chi giustifica la partecipazione all’attuale guerra, perpetua l’oppressione imperialista delle nazioni. Chi consiglia di sfruttare le attuali difficoltà dei governi ai fini della lotta per la rivoluzione sociale, difende realmente la libertà di tutte le nazioni raggiungibile solo col socialismo.[14]

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