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LA GUERRA IN UCRAINA E LA QUESTIONE NAZIONALE NELL’EPOCA DELLA MATURAZIONE IMPERIALISTICA

Seconda Parte

(31 Marzo 2022)

Seconda parte dell’intervento conclusivo della conferenza/dibattito contro la guerra imperialista in Ucraina, tenutasi nella sala “Big Bill Haywood” di Roma il 27 marzo 2022

la guerra, figli miei

In quanto comunisti e internazionalisti riconosciamo e difendiamo il diritto delle nazioni oppresse all’autodecisione, sempre. Riconoscere e difendere questo diritto non significa però ammettere oggi, nelle condizioni attuali dello stadio imperialistico, un benché minimo ruolo progressivo delle borghesie nazionali delle nazionalità oppresse; non significa dimenticare il ruolo preponderante delle potenze imperialiste; non significa ritenere che, nei vari scenari di oppressione nazionale ancora oggi esistenti, date le attuali circostanze, esista la possibilità concreta di ottenere quest’autodecisione senza un intervento imperialistico diretto o indiretto, o senza una mobilitazione rivoluzionaria del proletariato, nazionale o regionale.

In quanto comunisti e internazionalisti denunciamo l’uso strumentale delle questioni nazionali da parte delle potenze imperialistiche e quello altrettanto strumentale di organizzazioni e gruppi di una certa sinistra piccolo-borghese che, appoggiando l’una piuttosto che l’altra rivendicazione nazionale, e nella misura in cui possiedono una qualche influenza sulla classe operaia, la legano precisamente agli interessi dell’una o dell’altra potenza imperialista. In quanto comunisti e internazionalisti subordiniamo la rivendicazione all’autodeterminazione nazionale a quella di classe, che, nelle attuali circostanze concrete, riteniamo essere la sola alternativa alla sistemazione imperialistica delle questioni nazionali ancora irrisolte. Una sistemazione che, lungi dal risolverle, non può fare che inasprirle, magari rovesciandone il segno.

Attualmente, valutando ogni singola questione nazionale aperta, riteniamo che l’unico modo per il proletariato di combattere un’oppressione imperialista straniera è quello di farla finita con la propria borghesia, venduta e alleata all’uno o all’altro dei contendenti di un sistema imperialistico che afferma di voler combattere. Il proletariato oggi non può essere coerentemente anti-imperialista se non liquida preventivamente la propria borghesia; non può combattere un qualsiasi nemico esterno se si sottomette alle esigenze di quello interno.

È innegabile che anche nella guerra in corso in Ucraina si presentino degli elementi di oppressione nazionale, anzi, questi elementi si manifestano con il procedere di qualsiasi guerra imperialista, ma altrettanto innegabile è che il carattere predominante di questa guerra non è quello di una lotta di “liberazione nazionale”, perché la libertà economica e politica dell’Ucraina era assai relativa anche prima dell’invasione russa e sicuramente non si libererà dal dominio imperialista con la sconfitta del solo imperialismo russo.

Ad ogni modo, di certo non contribuisce in nessun modo a rendere coscienti eventuali e per ora assai remoti “stati d’animo rivoluzionari” nel proletariato ucraino, ad “approfondirli e precisarli”[15], la parola d’ordine della sua partecipazione ad una “resistenza” che è solo la partecipazione ad una guerra imperialista condotta per procura dalla borghesia ucraina; nella prospettiva, questo compito può avere qualche speranza di essere adempiuto solo dall’inflessibile denuncia della guerra come guerra imperialista, dalla decisa riaffermazione dell’internazionalismo proletario e

… dalla parola d’ordine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile; ed ogni lotta di classe conseguente in tempo di guerra, ogni tattica di “azione di massa” seriamente applicata, conduce inevitabilmente a questo.[16]

Prima che qualcuno si lanci in avventati paragoni tra la situazione attuale in Ucraina e la guerra che nel 1871 condusse alla sollevazione del proletariato parigino e alla proclamazione della Comune, è opportuno ricordare quanto scriveva Lenin sempre ne Il socialismo e la guerra:

Mezzo secolo fa il proletariato era troppo debole, le condizioni obiettive del socialismo non erano ancora maturate, il collegamento e la collaborazione dei movimenti rivoluzionari in tutti i paesi belligeranti non poteva esistere. La simpatia di una parte degli operai di Parigi per le “ideologie nazionali” (tradizione del 1792) era una loro debolezza piccolo-borghese, rilevata a suo tempo da Marx: fu questa una delle ragioni della sconfitta della Comune. A distanza di mezzo secolo, le condizioni che indebolirono la rivoluzione di allora non esistono più, e attualmente sarebbe imperdonabile per un socialista tollerare la rinuncia ad agire precisamente nello spirito dei comunardi parigini.


Oggi, a distanza di centocinquanta anni, le condizioni obiettive del socialismo esistono su scala mondiale, ma, come allora – anzi, meno di allora – non esiste il collegamento e la collaborazione dei movimenti rivoluzionari in tutti i paesi belligeranti, o peggio, non esistono nemmeno i movimenti rivoluzionari, e il proletariato è completamente assuefatto alle “ideologie nazionali”. A maggior ragione è oggi imperdonabile per un socialista tollerare che si predichi la rinuncia ad agire precisamente nello spirito dei comunardi parigini, che hanno rivolto i loro fucili e i loro cannoni – che furono acquistati con sottoscrizioni operaie e che non furono loro consegnati dalla borghesia, proprio perché non riteneva di potersi fidare del loro patriottismo (a differenza di quanto avviene oggi in Ucraina) – contro il nemico interno prima che contro i prussiani di turno.

Nel 1956, in Ungheria, i proletari che si opposero fucile alla mano al capitalismo di stato e ai carri armati dell’imperialismo sovietico possedevano una forma embrionale di autonomia di classe. Venne infatti organizzata una rete di consigli operai in tutti i centri industriali del paese, arrivando in pochi giorni alle soglie di un dualismo di poteri che fu riassorbito dall’espressione politica del capitale ungherese (rappresentata da Nagy) che, anche in quel caso, manovrava per il compromesso con l’imperialismo. Questi consigli operai rivendicavano aumenti salariali, abolizione delle “norme” schiaviste in fabbrica, abolizione della gerarchia dei salari, l’autogestione operaia nelle fabbriche, la ritirata delle forze armate russe e, nella maggior parte dei casi, a Budapest, a Sopron, a Miskolc, la formazione di una “repubblica dei consigli”. Le milizie operaie che combatterono con molotov e fucili contro i tank sovietici, pur sventolando bandiere nazionali, non rinunciarono a tentativi di fraternizzare con i soldati russi indirizzando loro volantini con frasi di Marx nel segno dell’internazionalismo proletario.

Oggi, c’è chi vuole spacciare l’armamento e l’inquadramento anche degli operai nell’esercito nazionale e nelle milizie nazionaliste ucraine come un passo verso l’indipendenza di classe del proletariato, ed esprime noia ed insofferenza verso i “preteschi” appelli internazionalisti. Per difendere a tutti i costi questa tesi preconfezionata si è arrivati a inventare che nella lotta contro l’invasore russo la “resistenza” ucraina abbia travalicato i limiti ad essa imposti dal controllo della borghesia ucraina – e non dimentichiamoci di quello degli imperialismi che la sostengono, finanziariamente e con aiuti militari di ogni tipo – sull’esercito e sulle milizie nazionali; si è arrivati a sostenere che il fatto che gli operai ucraini partecipino attivamente alla conversione delle fabbriche alla produzione bellica – fabbriche delle quali non ci risulta abbiano neanche per ipotesi messo in discussione la proprietà borghese o statal-borghese – avrebbe sconvolto i piani dell’imperialismo mondiale; si è arrivati a inventare che le milizie territoriali nazionaliste, ausiliarie dell’esercito nazionale e, come questo, controllate dai quadri militari della borghesia ucraina e degli imperialismi ad essa alleati, siano delle “squadre di autodifesa”… di cosa? delle vite degli operai? delle loro case? Saremmo i primi a salutarle con entusiasmo e a sostenerle con ogni mezzo a disposizione se esistessero, ma così come una ciliegina candita non trasforma un secchio di letame in una torta al cioccolato, la natura di classe del conflitto in Ucraina non muta di una virgola in virtù dell’esistenza di un “comitato di resistenza” intitolato all’anarchico Nestor Machno (ammesso che possa considerarsi una ciliegina), di cui non si conoscono consistenza e composizione e che è noto esclusivamente per ciò che esso dice di sé stesso su internet. A onor del vero quel che questo “comitato machnovista” intende per internazionalismo proletario ci lascia per ora ben poche speranze. Si invita il “popolo” russo ad insorgere contro il proprio tiranno, e fin qui, fatto salvo il generico destinatario dell’invito, si potrebbe convenire, il problema è che un analogo invito non viene rivolto alla classe operaia ucraina, la cui consegna è esclusivamente quella di battersi contro il tiranno russo. Dunque, non si tratta nemmeno di un discutibile “vai avanti tu che io ti seguo” ma addirittura di un: “il nemico è solo quello di casa tua”. Questo “internazionalismo” è perfettamente compatibile con le esigenze della borghesia ucraina, con le esigenze delle potenze imperialistiche che la sostengono a distanza e persino con quelle dell’imperialismo russo. Non è certamente nell’interesse della classe operaia averci nulla a che fare.

***

Indubbiamente, senza lotta contro ogni oppressione nazionale non è possibile raggiungere l’“alto obiettivo dei socialisti”[17], ma la lotta contro ogni oppressione nazionale non si identifica con la partecipazione del proletariato della nazione oppressa ad ogni guerra che non abbia questo carattere come predominante. Inoltre, se è un dovere per un comunista riconoscere il diritto di autodeterminazione dei paesi oppressi dal suo, perché questo arreca indiscutibilmente un danno al proprio imperialismo, appoggiare incondizionatamente ogni rivendicazione all’autodeterminazione di nazionalità oppresse da paesi terzi può non essere così innocente e altruista come appare. Anzi, può inserirsi perfettamente nella logica della contesa tra potenze imperialiste, a favore delle une o delle altre. Non è un caso che alcune questioni nazionali restino costantemente al di fuori delle considerazioni di una certa “sinistra”.

Lenin scrive:

Il fatto che la lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista può essere utilizzata, in certe condizioni, da un’altra “grande” potenza per i suoi scopi egualmente imperialisti, non può costringere la socialdemocrazia a rinunziare al riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni…[18]

Lenin è molto chiaro su questo punto. Ma la chiarezza non sempre evita la distorsione interessata. A Lenin preme rimarcare che i comunisti di una nazione che opprime potrebbero facilmente giustificare il proprio appoggio all’oppressione nazionale affermando che i fili del moto indipendentista della nazione oppressa dal loro paese sono tirati da altre potenze imperialiste concorrenti. Il che può anche essere vero – ed oggi, in linea di massima, lo è – nondimeno, i comunisti delle nazioni che opprimono hanno il dovere di riconoscere il diritto all’autodeterminazione delle nazionalità oppresse innanzitutto dal loro paese, sempre, persino nel caso di una guerra il cui carattere fondamentale non sia quello della liberazione nazionale. Solo così si potrà avere la certezza che quei comunisti non facciano effettivamente concessioni alla loro borghesia. Attenzione però, ciò non implica per essi il dovere di esigere che eventuali comunisti del paese oppresso mettano invece il proletariato al servizio della propria borghesia nazionale[19]. Per Lenin i comunisti della nazione oppressa non devono permettere in alcun modo che i proletari si facciano strumenti dell’uno o dell’altro degli imperialisti concorrenti, ma questo è possibile solo se essi conservano la necessaria indipendenza di classe.

Ultimamente ci sono capitati sotto gli occhi degli azzardati paragoni tra l’invio di armi all’Ucraina, da parte della NATO e delle potenze europee, e l’invio di armi all’Irlanda da parte del Reich tedesco durante la Prima guerra mondiale. Per dirla fuori dai denti: sarebbe ora di finirla una buona volta con la truffa ricorrente di rievocare l’insurrezione irlandese ogni volta che si vuole indorare la pillola socialsciovinista. Nel 1916 l’Irlanda era un paese in lotta contro un dominio coloniale plurisecolare che ne aveva atrofizzato il pieno sviluppo capitalistico, non un paese formalmente indipendente, ampiamente industrializzato, con centrali nucleari, che opprime minoranze e con classi sociali da lungo tempo definite e contrapposte come l’attuale Ucraina. Lenin salutò favorevolmente la Easter Rising del 1916 in quanto riteneva – sulla base delle informazioni di cui disponeva – che alla sua direzione vi fosse, oltre ad una parte della piccola borghesia nazionalista radicale e degli operai arretrati, con tutti i loro “pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori” anche “l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato”, presumibilmente rappresentato dall’Irish Citizen Army del socialista James Connolly. Ed è assolutamente vero che Connolly entrò nella direzione del movimento insurrezionale, ma è altrettanto vero che egli non rispettò un criterio fondamentale evidenziato da Lenin qualche anno dopo, forse anche proprio in considerazione degli eventi irlandesi:

… l’Internazionale comunista deve sostenere i movimenti democratici borghesi nazionali nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che, in tutti i paesi arretrati, gli elementi dei futuri partiti proletari – comunisti di fatto e non soltanto di nome – siano raggruppati ed educati nella coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro nazione. L’Internazionale comunista deve concludere alleanze provvisorie con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con essa e deve assolutamente salvaguardare l’autonomia del movimento proletario persino nella sua forma embrionale.[20]

Per quanto infatti Connolly per lunghi anni abbia impostato molto correttamente la questione nazionale irlandese con criteri di classe e internazionalisti, proprio nel corso della Prima guerra mondiale passò dalla posizione: “We serve neither King nor Kaiser, but Ireland” ad una che lo portò a sostenere pubblicamente, nell’articolo Il Kaiser e i socialisti del 4 dicembre 1915 – riferendosi all’intervista a Guglielmo II da parte del socialdemocratico tedesco Anton Friedrich, che essa

… mostra il sovrano sotto una nuova luce. L’autore dice che il monarca ha completamente cambiato le sue opinioni nei confronti dei socialisti e ora li considera “splendidi compagni”, almeno la maggior parte di loro […] Nessuno può aspettarsi che le opinioni del Kaiser siano quelle di un radicale o di un socialista, ma non c’è dubbio che egli capisca molto meglio gli obiettivi della sinistra radicale in Parlamento e abbia per loro più simpatie di quanto il mondo sappia.[21]

Per la cronaca, stiamo parlando dello stesso Friedrich Wilhelm Viktor Albrecht von Hohenzollern che, nel celebre “discorso degli Unni” pronunciato nel 1900 in occasione della partenza dei soldati tedeschi per la Cina, dove avrebbero represso nel sangue la ribellione dei Boxer, affermò:

Non si concede perdono, non si fanno prigionieri! Come mille anni or sono gli Unni, sotto il re Attila, si fecero un nome che li fa apparire ancora oggi formidabili nella tradizione e nella leggenda, possa così il nome di “tedesco”, in Cina, per mezzo vostro, acquistare per mille anni tale reputazione, in modo che un cinese non osi mai più nemmeno guardare di traverso un tedesco.

Stiamo parlando dello stesso Kaiser che raccomandava ai soldati tedeschi di tenersi “pronti a sparare sulle proprie madri, se necessario”, in caso di “disordini” interni. È assai difficile che Connolly ignorasse queste tangibili effusioni di “simpatia” del Kaiser…

Come scrive Liam O’Ruairc:

Non c’è dubbio che dal settembre 1914 Connolly non solo desiderava una vittoria tedesca sulla Gran Bretagna, ma elogiava anche la Germania come uno Stato moderno e progressista in cui risiedeva la “classe operaia più istruita del mondo, il maggior numero di giornali sindacali, il maggior numero di parlamentari e rappresentanti locali eletti su una piattaforma della classe operaia, il maggior numero di elettori socialisti: tutto questo era un indice infallibile dell’alto livello di intelligenza della classe operaia tedesca, nonché della loro forte posizione sia politica che industriale.
Questo è quanto Connolly indicò come “l’alta civiltà dell’intera nazione tedesca. Su questa formula la Germania ha posto il suo successo nel commercio. E il suo successo in guerra”. Connolly credeva che la Germania avrebbe vinto la guerra. Sentiva che i successi bellici tedeschi erano dovuti alla natura “socializzata” del paese e ad essa contrapponeva l’immagine dei “cosacchi selvaggi” della Russia che rapivano le figlie di una razza che era alla “testa della civiltà cristiana”. Queste opinioni sono evidenti fin dall’inizio della guerra.[22]

In fondo non si tratta di altro che delle stesse argomentazioni usate dai socialpatrioti tedeschi per giustificare la loro adesione alla guerra del proprio imperialismo.

Come scriveva Lenin, che a Connolly e all’insurrezione di Dublino dedicò in fondo assai ben poche pagine, funzionali a una ben precisa battaglia politica

Sono da annoverare tra i socialsciovinisti sia coloro che giustificano e mettono in buona luce i governi e la borghesia di uno dei gruppi di potenze belligeranti, sia coloro che, come Kautsky, riconoscono ai socialisti di tutte le potenze belligeranti lo stesso diritto di “difendere la patria”.[23]

Ci sembra indiscutibile che l’internazionalismo di Connolly, nei suoi ultimi anni, abbia fortemente vacillato (per essere indulgenti con qualcuno che, quantomeno, ha rischiato e perso la propria vita, a differenza dei socialsciovinisti tedeschi, o francesi o inglesi…) e che egli si sia molto allontanato da una valutazione della Prima guerra mondiale come guerra imperialista su tutti i fronti, quello dell’Intesa come quello degli Imperi centrali. Il sostegno militare e finanziario – peraltro limitato – da parte del Reich tedesco al moto indipendentista irlandese non poteva giustificare l’abbandono di una posizione internazionalista di classe per sostituirla con l’appoggio all’uno o all’altro dei predoni in conflitto. Lenin arrivò in Russia con l’aiuto dello Stato maggiore germanico ma non fece commercio di princìpi con l’imperialismo tedesco. Non diede il minimo serio appiglio all’accusa di essere un “agente del Kaiser”, per quanto di questo lo accusassero tutti i socialsciovinisti. Quanto alle armi, il problema non è la loro provenienza ma il loro utilizzo. Se si spinge il proletariato a fare uso di armi fornite dall’imperialismo subordinandolo agli interessi della borghesia nazionale – quand’anche oppressa – automaticamente lo si pone anche al servizio dell’imperialismo che a questa borghesia le ha fornite. Se, al contrario, si conserva l’indipendenza di classe, le armi possono venire persino da casa del diavolo, perché verranno usate contro la borghesia nazionale e contro l’imperialismo. Purtroppo Connolly e i socialisti irlandesi abdicarono all’indipendenza di classe del proletariato fondendosi con i nazionalisti borghesi alle loro condizioni e subordinando la classe operaia alle loro esigenze. Una delle conseguenze più tragiche dell’insurrezione fu che venne spazzato via il nucleo dei socialisti rivoluzionari irlandesi, e questo solamente un anno prima dello scoppio della rivoluzione in Russia. Quando in Irlanda si alzò la successiva ondata di lotte, nel 1919-22, rimanevano solamente gli atomi dispersi di un’autocoscienza proletaria che potesse influenzare gli eventi. Le conseguenze di ciò sono ancora visibili nella divisione dell’Irlanda. Sarebbe il caso di ragionare su questo, invece di raccogliere citazioni “selezionate”.

Per Lenin, e per gli internazionalisti conseguenti, quel che i comunisti possono e devono fare in ogni situazione di oppressione imperialista è tentare di organizzare il proletariato del paese oppressore in collegamento con quello del paese oppresso, premere sulla propria borghesia affinché riconosca il diritto all’autodeterminazione della nazione oppressa o, nella migliore delle ipotesi, abbattere la borghesia dello Stato oppressore e garantire questo riconoscimento; i comunisti internazionalisti hanno poi il dovere di solidarizzare e di aiutare concretamente il proletariato della nazione oppressa quando questo proletariato combatte contro l’esercito dello Stato oppressore da una posizione di indipendenza di classe; hanno sempre il dovere di augurarsi e di accelerare, se possibile, la sconfitta del proprio esercito mediante la lotta di classe, al fronte e nelle retrovie, contro la propria borghesia e il proprio Stato ma mai quello di suggerire al proletariato della nazione oppressa che debba sospendere la lotta contro la propria borghesia; che sia corretto abbracciare, ideologicamente o di fatto, il nazionalismo e l’odio verso l’indifferenziata nazionalità del paese oppressore, che è fatta anch’essa di classi contrapposte.

Oggi, se le circostanze lo permettessero, i proletari russi dovrebbero reclamare il ritiro unilaterale dall’Ucraina, senza se e senza ma, promuovere la sconfitta del proprio esercito prescindendo dal comportamento del proletariato ucraino, ma, specularmente, il dovere internazionalista dei proletari ucraini imporrebbe loro di combattere in primo luogo contro la propria borghesia se vogliono combattere realmente contro l’imperialismo russo. E questa lotta non può prescindere da tentativi di collegamento con i proletari russi. Una lotta contro l’imperialismo russo che non sia anche lotta contro la borghesia nazionale è solamente la partecipazione ad una guerra imperialista per procura, che l’invasione del territorio permette a qualcuno di camuffare come “guerra nazionale”.

***

Quali indicazioni pratiche, concrete, possiamo dare però, come comunisti internazionalisti, ai nostri fratelli proletari ucraini stretti fra il martello delle bombe e delle incursioni dell’esercito russo e l’incudine dell’arruolamento coatto o indotto dal fanatismo ideologico che si incista sulle loro sofferenze reali? Quali indicazioni pratiche possiamo dare a quei padri, mariti, figli proletari ucraini che stanno disertando l’arruolamento forzato nell’esercito e nelle milizie perché non vogliono morire e non vogliono uccidere su comando, e perché ritengono che la diserzione e la renitenza siano un modo di difendere le loro vite e quelle dei propri cari più concreto e meno retorico del farsi mandare al macello? Quali indicazioni possiamo dare alle madri proletarie ucraine e russe che stanno perdendo mariti e figli e a quelle ucraine che sono costrette a fuggire a piedi o con mezzi di fortuna trascinandosi dietro bambini denutriti e i pochi averi che hanno salvato dalle macerie?

Se in Ucraina e in Russia esistesse un soggetto autonomo di classe, una forma anche debole ma indipendente di organizzazione del proletariato, non avremmo dubbi, risponderemmo come già Lenin nel 1916:

La militarizzazione invade oggi tutta la vita sociale. L’imperialismo è la lotta accanita delle grandi potenze per la divisione e la ripartizione del mondo: esso deve quindi estendere inevitabilmente la militarizzazione a tutti i paesi, non esclusi i paesi neutrali e le piccole nazioni. Come reagiranno a questo le donne proletarie? Si limiteranno a maledire tutte le guerre e tutto ciò che riguarda la guerra, rivendicando il disarmo? Le donne di una classe oppressa veramente rivoluzionaria non accetteranno mai una funzione così vergognosa. Esse diranno ai loro figli: «Presto sarai cresciuto. Ti daranno un fucile. Prendilo e impara a maneggiar bene le armi. È una scienza necessaria ai proletari. No, non per sparare sui tuoi fratelli, sugli operai degli altri paesi, come accade in questa guerra e come ti consigliano di fare i traditori del socialismo, ma per combattere contro la borghesia del tuo paese, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria e alle guerre, non con le pie intenzioni, ma piegando la borghesia e disarmandola».[24]


Il proletariato cosciente, nella guerra imperialista, non può non scorgere il legame che intercorre fra gli insuccessi militari del proprio Stato e la maggior facilità di abbatterlo [25].

Purtroppo invece, il pensiero palese anche di qualche elemento incosciente della nostra classe, non è quello di indicare al proletariato ucraino, quantomeno in prospettiva, la necessità di approfittare degli insuccessi militari del governo della propria borghesia per abbatterlo, ma di unirsi a questo governo, di combattere per esso e a fianco di esso con la pretesa che quest’azione conduca miracolosamente ad un suo rafforzamento in termini di indipendenza di classe a guerra finita – si dà per scontato vittoriosamente. Un rafforzamento ipotetico che, si badi bene, non si pone come obbiettivo nemmeno quello di abbattere il governo borghese a crisi finita o in via di risoluzione – quindi comunque in un momento in cui la sua debolezza sarà presumibilmente rientrata o svanita – ma soltanto quello di mettere una fantomatica ipoteca sulla ricostituzione di questo governo borghese.

Disgraziatamente oggi, lo ripetiamo, in Ucraina come in Russia, un soggetto autonomo di classe a cui rivolgere l’indicazione di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, posto che esista, non sembra avere nessuna rilevanza. Non soltanto l’internazionalismo, che ne è il portato, ma la stessa capacità di concepirsi come classe è ridotta ai minimi storici a livello mondiale. Tuttavia, quali che siano i rapporti di forza, una prospettiva di classe internazionalista dev’essere comunque perseguita costantemente, a prescindere dalle sue possibilità di immediata realizzazione.

L’attuale guerra imperialista in Ucraina non si è trasformata in un conflitto interimperialistico generalizzato. Non è escludibile in assoluto che lo diventi, e, se non lo farà in questa, è inevitabile che accada nel corso delle prossime guerre che sta preparando l’imperialismo mondiale. L’Italia, al di là di tutte le iperboli, non è direttamente in guerra con la Russia. Qual è il compito degli internazionalisti in Italia? Resta tutt’ora valida la consegna per il proletariato di provare a impedire l’ingresso del proprio paese in una guerra imperialista e, in caso di insuccesso, di provare a trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Come? Con azioni rivoluzionarie contro il proprio governo anche in tempo di guerra, azioni che per Lenin significano

non soltanto augurarsi la disfatta di questo governo, ma portare alla disfatta un contributo effettivo (per il «lettore perspicace»: non si tratta affatto di «far saltare dei ponti», di organizzare ammutinamenti militari votati all’insuccesso, e, in generale, di aiutare il governo a schiacciare i rivoluzionari).[26]

Non concedere tregue o sospensive nella lotta di classe contro la propria borghesia e il suo Stato in tempo di guerra, questo è il senso generale del disfattismo rivoluzionario. Affinché il proletariato possa essere un domani non troppo lontano all’altezza di questa consegna, affinché possa diventare veramente, e non nell’immaginazione di qualcuno, un fattore attivo rilevante, è necessario per gli internazionalisti avere oggi la consapevolezza che si parte da zero, che occorre rimboccarsi le maniche, in un titanico lavoro di ricostruzione dell’autocoscienza della classe operaia e dell’internazionalismo proletario. Un lavoro quotidiano, controcorrente, che non appaga la vanità individuale con risultati immediati, appariscenti, di dubbia consistenza. Un lavoro che non tollera più ritardi.

Per quanto riguarda i nostri fratelli proletari ucraini e russi, con o senza divisa, non è nostro compito suggerire loro soluzioni individuali, come la renitenza alla leva o la diserzione – la diserzione di massa sarebbe già la rivoluzione –, che però non ci permettiamo minimamente di condannare con il disprezzo che presumibilmente fa storcere il naso agli eroi della resistenza “di popolo” o “di classe”, rigorosamente a distanza di sicurezza. È però nostro compito l’intransigente denuncia del carattere imperialista di questa guerra e l’indicazione al proletariato russo e anche a quello ucraino del nemico principale nel proprio paese, senza la sconfitta del quale non è attualmente possibile nessuna lotta anti-imperialista.

NOTE

[1] B. Mussolini, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, “Avanti!”, 18 ottobre 1914.

[2] A. Bordiga, Per l’antimilitarismo attivo e operante, “Il Socialista” del 22 ottobre 1914.

[3] “… l’incondizionato riconoscimento della lotta per la libertà di autodecisione non ci impegna affatto ad appoggiare ogni richiesta di autodecisione da parte di una nazione. La socialdemocrazia, quale partito del proletariato, si pone come compito concreto e principale l’appoggio all’autodecisione non dei popoli e delle nazioni, ma del proletariato in ogni nazionalità. Noi dobbiamo tendere sempre e incondizionatamente alla più stretta unione del proletariato di tutte le nazionalità, e solo in singoli casi eccezionali possiamo avanzare e appoggiare attivamente le rivendicazioni che mirano alla creazione di un nuovo Stato classista e alla sostituzione di una più debole unità federativa alla piena unità politica dello Stato ecc.” Lenin, La questione nazionale nel nostro programma, 1903, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 77.

[4] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, ne Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 171.

[5] Ibidem, p. 172.

[6] Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione, in L’autodecisione delle nazioni, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 185.

[7] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, ne Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 177-180.

[8] Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1916, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 210.

[9] “…la socialdemocrazia […] non si lega affatto le mani. Essa tiene conto di tutte le possibili combinazioni, persino di tutte quelle concepibili in generale, quando sostiene nel suo programma il riconoscimento del diritto delle nazioni all’autodecisione.” Lenin, La questione nazionale nel nostro programma, 1903, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 84.

[10] Lenin, Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 111.

[11] Cfr. Ibidem, p. 115.

[12] Cfr. Ibidem, p. 111.

[13] Cfr. Ibidem, p. 120.

[14] Ibidem, p. 111.

[15] Cfr. Ibidem, p. 123.

[16] Ibidem.

[17] Cfr. Ibidem, p. 126.

[18] Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, 1916, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 216.

[19] Va da sé che incoraggiare il proletariato a farsi arruolare con parole d’ordine che di fatto si fondono con quelle nazionaliste della borghesia è esattamente asservirlo.

[20] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, 1920, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari editore, 2005, p. 244.

[21] L. O’Ruairc, James Connolly, Germany and the First World War: Was Connolly a proto-Lenin? https://theirishrevolution.wordpress.com/2015/12/03/james-connolly-germany-and-the-first-world-war-was-connolly-a-proto-lenin/

[22] Ibidem.

[23] Lenin, Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 116-117.

[24] Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, OC, Editori Riuniti, Roma, 1965, volume 23, pp. 80-81.

[25] Cfr. Lenin, Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 125.

[26] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 1915, OC, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 249.

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