">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

Egypt

Egypt

(14 Agosto 2013) Enzo Apicella

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

APPUNTAMENTI
(Imperialismo e guerra)

SITI WEB
(Imperialismo e guerra)

UCRAINA 2022: PER L’INTERNAZIONALISMO ATTIVO ED OPERANTE

(15 Aprile 2022)

coalizione operaia

Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti. K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871.

Da quando l’uomo ha la dote di pensare prima di agire, per sfuggire al mantenimento degli impegni, alle conseguenze concrete delle astratte affermazioni, l’avvocatismo che si annida in ogni essere pensante è ricorso sempre alle distinzioni. Così oggi ci rigetta tra capo e collo la distinzione tra guerra di offesa e guerra di difesa, tra l’invasione della patria altrui e la protezione del territorio nazionale. E gli antipatrioti di ieri scrivono una lettera che distrugge dieci volumi, mille discorsi, mille articoli, e marciano alla frontiera. A. Bordiga, In tema di neutralità: al nostro posto!, Avanti!, 16 agosto 1914.

Una caricatura del 4 agosto 1914

Nell’ultimo mese, in Italia, salvo poche eccezioni, abbiamo assistito al “4 agosto” di gran parte della sedicente sinistra rivoluzionaria. Una triste farsa, nella quale l’opportunismo, il socialsciovinismo, la falsificazione del marxismo hanno gettato la maschera di fronte all’atteggiamento da assumere verso la guerra imperialista in Ucraina. Un esito preannunciato da decenni di tanti piccoli segnali, e che una crisi tutto sommato ancora “parziale” ha precipitato con inesorabile rapidità.

Quella del 4 agosto 1914 fu una tragedia che vide un potente partito socialdemocratico, quello tedesco, corrotto dall’assorbimento nelle maglie della società capitalistica, legare le sue sorti e le sorti del proletariato in esso organizzato a quelle di una frazione nazionale del capitale mondiale. La farsa del “4 agosto” del 2022, almeno in Italia, vede invece protagoniste decine di realtà microscopiche, insignificanti, impotenti, che non avevano nulla da perdere dall’assunzione di un atteggiamento coerentemente marxista di fronte alla crisi in atto, ma tutto da guadagnare. Eppure, nell’ansioso timore di perdere ciò che non hanno mai avuto, o per la brama di ottenere un briciolo di visibilità a buon mercato, lanciandosi su quella che ritengono “la cresta dell’onda”, tutti questi “rivoluzionari” hanno sostanzialmente concesso il loro appoggio ai “crediti di guerra” per un fronte imperialista contro l’altro. Non ancora un voto nel parlamento borghese, dove, nonostante le velleità di molti di costoro, non hanno i numeri per mettere piede, bensì un appoggio ideologico, fatto di capziose quanto grossolane distorsioni del patrimonio teorico marxista. Il lato grottesco di questa disonorante commedia è che agli opportunisti, ai massimalisti, ai socialsciovinisti nostrani, questo sostegno, la borghesia non lo ha nemmeno chiesto, ben consapevole della loro irrilevanza sociale. Semmai, lo ha chiesto, ed entusiasticamente ottenuto, da tutti i partiti borghesi di “sinistra”, di destra e di centro, ma di questi “partiti” non mette nemmeno conto parlare.

La guerra imperialista “su un solo fronte” e l’“isolata” Ucraina


Tra le furbesche costruzioni verbali con le quali si vuole conferire dignità teorica alla capitolazione rappresentata dal sostegno alla “resistenza” ucraina, c’è il tentativo di qualificare l’attuale guerra come imperialista da un solo lato, quello dell’aggressore russo.

Dall’altro lato del fronte ci sarebbe comunque una nazione borghese, lo si ammette, ma una nazione isolata rispetto alla contesa interimperialistica; una nazione invasa che starebbe combattendo per la propria “liberazione” e autodeterminazione e alla quale le potenze imperialistiche starebbero “soltanto” fornendo armi e supporto politico internazionale, ovviamente “per i propri scopi”, ma sostanzialmente – anche in virtù della loro assenza “dal campo di battaglia” – senza alterare la presunta natura di “liberazione nazionale della guerra”.

Si continua a sostenere questa “tesi” nonostante sia universalmente noto, e confermato da alti rappresentanti della NATO, che forniture di armamenti moderni, istruzione militare di alto livello e riorganizzazione dell’esercito ucraino, con annesse esercitazioni congiunte su larga scala, siano in corso da anni, ben prima dello scoppio del conflitto. Si ribatterà che queste “misure preventive” sono state prese dopo la formazione delle “repubbliche” separatiste ad est del paese e dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, ma difficilmente si potrà negare che la cosiddetta Euromaidan del 2014 non abbia rappresentato un preciso e dichiarato passo verso una ricollocazione dell’Ucraina in una sfera d’influenza ostile a quella dell’imperialismo russo. Passo che corrisponde vistosamente alla direttrice di espansione imperialistica di alcuni paesi sotto il cappello NATO.

Un piccolo assaggio di quanto la borghesia ucraina stia combattendo la “sua” guerra lo abbiamo gustato anche nel bel mezzo dei tentativi di trattativa con la Russia, in corso in queste settimane, quando il “servitore del popolo” Zelensky ha dichiarato di essere disposto a trattare sulla “neutralità” e sullo status di Crimea e Donbass, prima di farsi bruscamente ricordare dagli USA di attenersi al “copione” dell’intangibile “sovranità” e declamare shakespearianamente: “ci accontenteremo solo della vittoria”.

Un esemplare caso di “isolamento” dalla contesa imperialista. Non c’è che dire.

Le professorali disquisizioni che negano la natura imperialistica della guerra su “entrambi i fronti” a causa del grado di sviluppo capitalistico dell’Ucraina o del suo presunto “isolamento” ci ricordano quelle fatte a proposito della Russia nel corso del primo conflitto imperialistico mondiale:

Tra gli storici russi della nuova scuola spesso si accendono discussioni per stabilire in quale misura la Russia zarista fosse matura per una moderna politica imperialistica, ma queste controversie scivolano inevitabilmente sul piano della scolastica, in quanto la Russia viene considerata come un elemento isolato, come un fattore indipendente, mentre non era che l’anello di un sistema. Sostanzialmente e formalmente, l’India ha partecipato alla guerra come colonia dell’Inghilterra. L’intervento della Cina, «volontario» dal punto di vista formale, era in realtà l’intervento di uno schiavo in una rissa tra padroni. La partecipazione della Russia aveva un carattere non bene definito, era una via di mezzo tra la partecipazione della Francia e quella della Cina. La Russia pagava così il diritto di essere alleata dei paesi avanzati, di importare capitali e di pagarne gli interessi, cioè, insomma, il diritto di essere una colonia privilegiata dei suoi alleati; ma nello stesso tempo acquistava il diritto di opprimere e di saccheggiare la Turchia, la Persia, la Galizia e, in generale, i paesi più deboli e più arretrati. L’equivoco imperialismo della borghesia russa assumeva, in fondo, la funzione di un’agenzia al servizio di Potenze mondiali superiori. I compradores cinesi costituiscono il tipo classico di una borghesia nazionale che opera come una specie di agenzia intermediaria tra il capitale finanziario straniero e l’economia del paese. […] l’autocrazia russa da una parte e la borghesia russa dall’altra avevano assunto una fisionomia sempre più marcata di compradores: l’una e l’altra vivevano e si mantenevano grazie al legame con l’imperialismo straniero, servivano questo imperialismo e non potevano reggersi senza il suo appoggio. […] La borghesia russa, semi-compradore nei confronti della finanza straniera, aveva interessi imperialistici mondiali allo stesso modo che un agente retribuito a percentuale è interessato agli affari del suo padrone. […] Riguardo alle forniture di guerra e alle finanze, la Russia si trovò immediatamente a dipendere servilmente dagli alleati. Era questa l’espressione militare della dipendenza più generale in cui si trovava rispetto ai paesi capitalisti più avanzati.[1]

È sorprendente notare come oggi in queste importanti righe sia perfettamente sostituibile la parola “Russia” con le parole “Ucraina” e “borghesia ucraina”. Ucraina “anello di un sistema”; Ucraina che “paga il diritto di essere alleata dei paesi avanzati”; Ucraina “colonia privilegiata dei suoi alleati”; Ucraina che acquista “il diritto di opprimere e saccheggiare” le sue minoranze; borghesia ucraina che assume “la funzione di un’agenzia al servizio di Potenze mondiali superiori”; borghesia ucraina “agente retribuito a percentuale” “interessato agli affari del suo padrone”; Ucraina che “riguardo alle forniture di guerra e alle finanze” si trova a “dipendere servilmente” dai paesi capitalisti più avanzati.

Il piano della scolastica sul quale scivola chi ritiene che un conflitto interimperialista non possa combattersi per “interposta nazione” borghese, persino arretrata, è già stato quindi sufficientemente raddrizzato dal Trotsky meno citato, quello che quando vuole sa maneggiare la dialettica materialistica, non quello posto di fronte a eventi catastrofici e a compiti così al di sopra delle forze in quel momento disponibili da far vacillare anche i rivoluzionari più solidi e brillanti. In genere, nei marxisti degni di tale nome, questi vacillamenti vengono rapidamente superati e corretti, ma laddove circostanze casuali o la mano armata della controrivoluzione vengono a interrompere bruscamente e violentemente questo processo, il rischio è sempre che l’epigonismo deponga le proprie “uova fatali” negli angoli più oscuri e umidi dell’elaborazione di importanti teorici rivoluzionari prematuramente scomparsi.

Comprendiamo quanto una guerra imperialista “per procura” esca dalla pigra riproposizione di comodi schemi, e quanto per qualcuno sia troppo complicato afferrare la cosa, quando non si tratta di quei casi in cui l’interesse si sostituisce surrettiziamente alla logica, che si tratti di quella formale o di quella dialettica.

Chi cerca maldestramente di isolare questo conflitto dalla dinamica interimperialistica vede nella guerra attuale nulla più che il tentativo russo di negare lo status di nazione all’Ucraina – fingendo di prendere per buone le dichiarazioni propagandistiche di Putin – ignorando gli ultimi decenni di lotte, anche violente, tra le frazioni della borghesia ucraina, legate con mille fili alle varie centrali imperialiste e da esse sostenute, per un pieno ricollocamento del paese nel campo di influenza dei propri “committenti”, e ignorando quelle che l’imperialismo russo ha considerato delle concrete minacce economiche, politiche e militari verso i propri interessi di potenza.

Se vogliamo essere seri interpreti della realtà imperialistica non possiamo attardarci nella ricerca del singolo responsabile del conflitto, e non possiamo nasconderci che l’imperialismo statunitense gioca un ruolo di primo piano in questa crisi, mentre all’Ucraina, nonostante sia impegnata militarmente, spetta quello del comprimario, in uno scontro tra potenze nel quale certi “alleati” possono alla fine della fiera risultare il vero avversario, a dispetto delle apparenze. Affermare semplicemente che la NATO, o meglio, un determinato conglomerato di interessi imperialistici al suo interno, “appoggia” per i propri scopi la resistenza ucraina contro la Russia, è inesatto, è insufficiente, è fuorviante. Al contrario sono questi interessi, nella contrapposizione a quelli russi e anche nella contrapposizione all’interno delle alleanze formali, che hanno scatenato il conflitto a cui stiamo assistendo. Le potenze imperialiste che sostengono lo sforzo bellico del governo borghese ucraino – chiamarlo “resistenza” ha il solo scopo di edulcorare, per un certo tipo di pubblico, la reale natura delle cose – non hanno bisogno, per ora, di essere direttamente coinvolte nelle operazioni militari ma questo non diminuisce di un’oncia la natura interimperialistica del conflitto in corso[2]. Lo si può negare solo per difendere una tesi precostituita, rispondente a precisi interessi, alla quale si vuole accomodare la realtà. Per dire la verità, abbiamo un’idea abbastanza precisa di questi interessi: da un lato l’esigenza di non perdere “pezzi” sotto i colpi di una campagna propagandistica borghese con pochi precedenti quanto a pervasività, dall’altro la continua rincorsa codista delle “masse”, atteggiamento tradizionale in certi ambiti e aggravato dal fatto che le masse profonde, almeno in Italia, e per i motivi più sbagliati che ci possano essere – tra i quali l’antiamericanismo “di pancia”, un filo-russismo più o meno impregnato di nostalgie “sovietiche” e una sfiducia antipolitica e pregiudiziale verso le narrazioni “correnti” – non sembrano essere molto permeabili alla campagna mediatica imperialistica filo-ucraina, che trova i suoi più ampi e rumorosi consensi essenzialmente negli strati “intellettuali” della società. Impostazione errata ed errata valutazione dell’umore delle masse profonde: un “errore” a cui, dunque, se ne somma un altro, il quale indica chiaramente lo scarso legame con la realtà sociale di certi ambienti sedicenti marxisti e la loro totale dipendenza ideologica dal dibattito borghese.

Affermare che la guerra in corso sia un conflitto isolato che vede da una parte un aggressore imperialista e dall’altro una “nazionalità” aggredita, negando che si stia verificando uno scontro interimperialista, è funzionale alla giustificazione teorica di un determinato posizionamento “difesista” e al rifiuto, fattuale, incontrovertibile, nei confronti di una politica tendente al disfattismo rivoluzionario su tutti i fronti coinvolti. Ma che nessuno si allarmi: “se” la guerra dovesse diventare interimperialistica – ci assicurano, bontà loro, alcune “vecchie volpi” del mestiere di una certa sinistra – allora la parola d’ordine diverrebbe immancabilmente quella della “trasformazione della guerra in guerra civile”. In poche parole, si rispetterà la consegna internazionalista proletaria “quando”, e solo quando, “qualcuno” avrà stabilito secondo i propri criteri, la cui infallibilità viene data per scontata, che la guerra è “diventata” interimperialista. Non ci resta che fidarci.

Purtroppo, i “criteri” impiegati per descrivere la natura del conflitto in corso in Ucraina non sono affatto convincenti da un punto di vista marxista, e questo ci fa sospettare che anche in futuro non costerà eccessiva fatica sofistica trovare il modo per eludere l’esigenza di una politica internazionalista di disfattismo rivoluzionario, la quale è certamente più impegnativa, rischiosa e “impopolare” da assumere rispetto alla prassi del contorcimento versipellesco attorno al ramo nodoso del “senso comune”.

Le fobie “ultrasinistre”

Presso un certo tipo di “ultrasinistra”, con una tradizione e una presenza prevalentemente nord-europea – c’è una grande difficoltà nel comprendere la differenza, neanche troppo sottile, tra l’obbligo per gli internazionalisti del paese imperialista, oppressore, invasore, annessionista, di riconoscere il diritto all’autodeterminazione del paese oppresso, invaso, annesso, e l’appoggio, il sostegno, il riconoscimento di un ruolo storicamente progressivo, alla borghesia nazionale del paese oppresso, invaso, annesso. La presunta identità tra queste due politiche esiste solamente nelle fantasie piccolo-borghesi dell’anti-leninismo viscerale, emotivo, irrazionale, che si spaccia per internazionalismo marxista e che, a forza di pretestuose e modaiole prese di distanza dall’“impresentabile” Lenin, approda inconsapevolmente e paradossalmente al plauso della politica “internazionalista” del Dzerjimorda Stalin.

Per costoro già il solo parlare di autodeterminazione costituisce un’imperdonabile concessione al diritto borghese. Non concepiscono questo riconoscimento da parte del proletariato rivoluzionario del paese dominante – ci perdoni il lettore se siamo costretti a ripeterlo fino allo stremo – come una necessaria presa di posizione internazionalista per togliere il terreno sotto i piedi all’influenza nazionalista borghese sul proletariato del paese dominato, per marcare un’opposizione di classe, concreta, reale, evidente, rispetto alla propria borghesia, fugando ogni dubbio che sotto la bandiera di un internazionalismo formale possa celarsi un appoggio canagliesco all’imperialismo di casa propria. Il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del paese oppresso, invaso, annesso, che esso sia arretrato, dipendente, o imperialista esso stesso, è inseparabile, per gli internazionalisti del paese oppressore, invasore, annessionista, dalla politica del disfattismo rivoluzionario contro la propria borghesia, contro il suo Stato e il suo esercito, dalla politica della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, dalla politica dell’opposizione di classe contro lo sforzo bellico, in collegamento con i proletari del paese oppresso, invaso, annesso. Cos’altro rappresenta lo schierarsi contro l’oppressione nazionale, contro l’invasione imperialista del territorio di un’altra nazione, contro le annessioni imperialistiche, se non il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del paese oppresso, invaso, annesso, quale che sia il suo grado di sviluppo capitalistico?

Solo chi ha paura delle parole, solo chi non sente il peso di nessuna responsabilità reale nei confronti della classe che afferma di rappresentare per investitura extra terrena e, in cuor suo, trema al solo pensiero di doversela assumere, preferendo baloccarsi in processi-farsa – e in contumacia – contro Trotsky, contro Bordiga, ma soprattutto contro Lenin, l’arcinemico, può scandalizzarsi di questa “concessione” alla fraseologia borghese. Costui si scandalizza perché vede in questo riconoscimento una qualche forma di “acquiescenza” nei confronti del nazionalismo borghese della nazionalità oppressa, quando in realtà, se questo riconoscimento non si accompagna all’indicazione dell’appoggio da parte del proletariato della nazione oppressa alla propria borghesia ma all’indicazione della lotta contro quest’ultima, a quella del disfattismo rivoluzionario contro quest’ultima, in collegamento con il proletariato rivoluzionario del paese oppressore, ne è effettivamente l’esatto contrario.

Oggi definire “leninisti” – come fanno alcuni “ultrasinistri” – i falsi internazionalisti che giustificano con le parole di Lenin – malamente alterate o espunte dal contesto – l’appoggio all’uno o all’altro dei fronti della guerra imperialista che si combatte in Ucraina, significa “regalarlo” a dei truffatori, e, per quanto si possano muovere taluni rilievi critici a singoli aspetti dell’elaborazione leniniana, non crediamo che sia arrivato il Natale.

L’autodeterminazione è borghese? Ma è di per sé evidente che finché ci sarà la necessità di battersi contro le oppressioni e le annessioni imperialistiche vorrà dire che ci troviamo ancora nell’ambito della società capitalistica, con le sue nazioni ed i suoi Stati. D’altronde la stessa lotta di classe presuppone il fatto che non si sia ancora fuoriusciti dalla società borghese.

Nel testo della sinistra comunista “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, del 1955-1957 la puerilità di certe posizioni viene correttamente confutata:

[Pjatakov] avrebbe affermato che in un’epoca in cui l’economia mondiale ha stabilito legami indissolubili tra molti paesi, lo Stato nazionale costituisce una tappa storca già superata:
«La rivendicazione dell’indipendenza appartiene ad un’epoca storica già sorpassata», egli disse, «essa è reazionaria perché vuole far camminare la storia a ritroso. Partendo dall’analisi della nuova epoca, l’epoca dell’imperialismo, noi diciamo che al momento attuale non possiamo concepire una lotta per il socialismo diversa da quella condotta sotto la parola d’ordine ‹Abbasso le frontiere›, una lotta che tenda alla soppressione di tutte le frontiere fra le nazioni e gli Stati». […] Anche noi abbiamo cantato i versi di cui il vecchio Turati arrossiva: «i confini scellerati cancelliam dagli emisferi», né ripudiamo di aver cantato e… stonato. Ma altro è cantare, altro marxisticamente dedurre. Preconizziamo pure quella cancellazione e l’Internazionale della cultura e della lingua, o la mondiale fusione delle umane razze, ma nel seguire il corso storico guardiamoci bene dal dire e dal fare poetiche e liriche pistacchiate. Lenin polemista non usava pannicelli caldi, ed avrà probabilmente parlato come si riferisce:
«Il metodo della rivoluzione socialista sotto la parola d’ordine “abbasso le frontiere” è una confusione completa… Che diavolo significa il metodo della rivoluzione socialista sotto la parola d’ordine: abbasso le frontiere? NOI SOSTENIAMO LA NECESSITÀ DELLO STATO. MA LO STATO PRESUPPONE LE FRONTIERE… Bisogna essere dei pazzi per continuare la politica dello zar Nicola (che era, supponiamo abbia aggiunto Vladimiro, abbasso ogni frontiera che osi tagliare il territorio della mia Santa Corona)… La parola d’ordine ‹abbasso le frontiere› diventerà giusta quando la rivoluzione socialista sarà una realtà, invece di essere un metodo…» […] Il marxismo è contro lo Stato in generale ed è contro lo Stato borghese in particolare. La società che è nel suo programma storico, essendo senza classi, è senza Stato. Ma il marxismo prevede che lo Stato sarà uno strumento rivoluzionario transitorio per appunto distruggere la classe dominante presente, dopo che la rivoluzione ne avrà distrutto lo Stato attuale. […] Tutte le volte che questa macchina storica che è lo Stato ci servirà, ci servirà forza di armi politiche, militari, anche di polizia, e ci servirà un territorio tassativamente circoscritto: ci faranno gioco le frontiere. Quando non ci sarà più feudalismo, quando non ci sarà più borghesia e non ci saranno classi e, meglio, forme economiche e produttive di classe, ossia quando non ci saranno più proletari, allora, come Engels disse, butteremo via lo Stato nei ferrivecchi, butteremo via gli ultimi Stati, e solo allora cadranno le ultime frontiere nazionali. Non certo appena avremo preso il potere in un paese di grande capitalismo moderno [grassetto nostro]; tanto meno quando avremo preso il potere nella feudale Russia del 1917. E allora, dice Lenin a Pjatakov, non mi dici nulla con la frase: non più frontiere. Mi devi dire: le frontiere del territorio Romanov, o altre? e quali? […] Il marxismo per risolvere tali punti fiammeggianti non si può fondare sul grido caldo ed ingenuo dei Pjatakov. Ben altro bisogna, quando per muovere le frontiere occorrerebbero torrenti di energia storica, e scarse si mostrano quelle dell’Internazionale operaia, che le dovrebbe cancellare dalla lavagna sferoidica del pianeta.[3]

A dire il vero, ci sembra tutto molto chiaro, e ben difficilmente si può accusare la sinistra comunista italiana storica di fare concessioni al diritto democratico borghese o di costituirsi un “feticcio” dell’elaborazione leniniana.

Il II Congresso panrusso dei Soviet che assunse il potere il 26 ottobre (8 novembre), nella stessa seduta adottò il decreto sulla pace, preparato da Lenin, primo atto del nuovo potere. Con esso si propone a tutti i paesi in guerra l’immediato inizio di trattative «per una pace giusta e democratica». Il testo dice subito che cosa per tale formula si intende: «Una pace immediata, alla quale aspira la schiacciante maggioranza degli operai e delle classi lavoratrici di tutti i paesi, sfinite, estenuate e martoriate dalla guerra, una pace senza annessioni (cioè senza conquista di terre straniere, senza incorporazione forzata di altri popoli) e senza indennità». Una ulteriore delucidazione: «Per annessione o conquista di terre straniere il governo russo intende – conformemente alla coscienza giuridica della democrazia in generale e delle classi lavoratrici in particolare – qualsiasi annessione di un popolo piccolo e debole ad uno Stato grande o potente, senza che il popolo ne abbia espresso chiaramente, nettamente e volontariamente il consenso e il desiderio, indipendentemente dal momento in cui questa incorporazione forzata è stata compiuta, indipendentemente anche dal grado di sviluppo o di arretratezza della nazione forzatamente annessa o forzatamente tenuta nei confini di quello stato [grassetto nostro], e indipendentemente, infine, dal fatto che questa nazione risieda in Europa o nei lontani paesi transoceanici». Questa proposta concreta non costituisce una costruzione teorica. La posizione marxista è che un partito proletario non può in nessun caso appoggiare una annessione politica forzata [grassetto nostro]; ma non consiste nel fare un capitolo del programma del partito della sistemazione ex novo di tutti i popoli omogenei in un nuovo ordinamento politico-geografico di Stati raggiunto e mantenuto dal consenso e senza violenza. Questa è ritenuta dai marxisti una utopia inconciliabile con la società di classe capitalistica, più ancora che con ogni altra, mentre in una società socialista il problema passa su altre basi, includenti la distensione e lo spegnimento di ogni violenza statale. Una proposta tale che i paesi borghesi potrebbero accettarla, o almeno non possono rifiutarla per ragioni di principio, e che quindi li smaschererebbe se la rifiutassero – come è sicuro – nel loro appetito di brigantaggio imperiale. Si sarà così provato che una coscienza giuridica internazionale degli Stati non esiste di fatto, né può esistere nel mondo attuale.[4]

Riconoscere il diritto di autodeterminazione non vuol dire sostenere che le questioni nazionali ancora aperte possano essere risolte soddisfacentemente in regime capitalistico, o che possano esistere in regime capitalistico nazioni libere ed eguali. Questa illusione non alberga tra gli internazionalisti:

Dire che la nazione ha diritto di decidere sulla sua sorte e che nessuno ha quello di imporgliela dall’esterno, indubbiamente è una formulazione propagandistica e un poco letteraria che non si adagia sulla dottrina del determinismo marxista. Ma il senso è chiaro: esso condanna ogni legittimismo, ogni repressione di insurrezione, ogni espediente che tenda, nel caso di urti irresistibili sorti da separatismi ed indipendentismi nazionali, ad accoppiare due degenerazioni del movimento operaio: una in certe fasi storiche tollerabile, ossia la solidarietà nella rivolta di borghesi e lavoratori; l’altra disfattista e reazionaria, ossia la solidarietà dei socialisti collo Stato della nazionalità dominante nel sostenere che la cosa si può sistemare legalmente, e quindi va represso il ricorso alle armi. […] Quindi quella dottrina, al fine di raccogliere nemici alla legalità costituzionale borghese, opponeva alle cupidigie di classe delle più avide borghesie imperialiste, l’appoggio allo svincolamento da esse di nazioni e colonie oppresse e, dialetticamente diceva che, pur tendendo alla lotta di classe contro le borghesie padrone e serve, il proletariato non è indifferente a quelle forme di oppressione e tende a distruggerle per superare ogni motivo di antagonismi nazionali. Non può essere confusa con una rinunzia al programma internazionalista integrale [grassetto nostro].[5]

È quindi necessario distinguere tra il senso teorico e l’uso politico, strumentale, del riconoscimento del diritto di autodeterminazione. Il suo senso politico rivoluzionario è appunto quello di “superare ogni motivo di antagonismi nazionali”. Si tratta di acquisire, presso i proletari delle nazionalità che le circostanze – anche di una guerra imperialista – conducono ad una situazione di oppressione, militare, politica, credenziali di credibilità per l’internazionalismo dei proletari coscienti della nazione dominante, che non possono ignorare o sottostimare il dato psicologico conseguente all’oppressione nazionale, la quale favorisce l’influenza ideologica del nazionalismo borghese sul proletariato. E questa credibilità, se e quando esiste, costituisce un formidabile argomento in favore della propaganda internazionalista da parte dei rivoluzionari dello stesso paese oppresso.

Tutto ciò non può essere confuso con una “rinunzia al programma internazionalista integrale”, proprio perché i marxisti ritengono che solo la lotta di classe rivoluzionaria del proletariato internazionale può dare alle questioni nazionali ancora irrisolte una sistemazione diversa da quella imperialistica. Una sistemazione che sarà in ogni caso transitoria, essendo scopo dei comunisti l’abolizione delle classi, degli Stati e quindi anche delle frontiere nazionali. Tuttavia, persino nell’immediato indomani di una futura conquista del potere – che non ci si può immaginare avvenga in tutti i paesi del mondo simultaneamente – il proletariato rivoluzionario manterrà il principio di separazione, così come fecero i bolscevichi, che, nel corso della rivoluzione del proletariato russo

arrivavano alla
disannessione al fine di raggiungere l’intesa rivoluzionaria internazionalista tra le classi operaie[6]

senza però dimenticare che

sulla sua attuazione [del principio di separazione – Ndr] influiranno le guerre civili e militari, o meglio con Stati che abbiano inviato corpi controrivoluzionari di invasione, variamente operanti in tutte le regioni [del] territorio.[7]

A ulteriore sottolineatura del concetto che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione ha valore solo in quanto e nella misura in cui è funzionale e subordinato all’internazionalismo proletario e alla lotta di classe rivoluzionaria del proletariato.

La troppo spesso trascurata distinzione tra il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione (di nuovo: da parte dei proletari coscienti della nazione che per vari motivi ne domina altra/e) e l’appoggio alle borghesie nazionali dei paesi dominati risiede nella valutazione dell’esistenza o meno di un ruolo rivoluzionario progressivo di quelle borghesie, che, con la loro rivoluzione nazionalista democratico-borghese, infrangano residui precapitalistici o le pastoie dell’arretratezza coloniale in cui questi paesi vengono mantenuti forzatamente dalla dominazione straniera. Mentre per gli internazionalisti conseguenti il riconoscimento da parte dei proletari coscienti del paese oppressore del diritto all’autodeterminazione, autodecisione, o separazione, che dir si voglia, delle nazioni dominate, non dipende dal grado di sviluppo o di arretratezza dei paesi oppressi, annessi, dipendenti, al contrario l’appoggio alla borghesia nazionale di questi paesi è interamente subordinato all’esistenza di un suo ruolo progressivo.

L’“operaismo” dell’union sacrée


Come abbiamo già scritto in precedenti articoli, fondandoci su un’interpretazione che ci sembra coerente con il patrimonio teorico marxista (di cui Lenin è e rimane parte integrante) – in base ad un’analisi specifica, condotta secondo il metodo usato da Marx, Lenin ed altri, e non per generalizzazione metastorica, come erroneamente fatto dall’altrettanto marxista Rosa Luxemburg –, attualmente non riconosciamo nessun ruolo rivoluzionario progressivo a nessuna borghesia nazionale in nessun angolo del pianeta.

Non c’è bisogno di aggiungere che giustificare o addirittura invocare la partecipazione del proletariato alla guerra di una nazione capitalista, asservita ad alcune potenze imperialiste, che ha subìto un’aggressione da parte di un’altra potenza imperialistica, senza denunciare il carattere imperialista di questa guerra ma al contrario spacciandola per una lotta per l’autodeterminazione nazionale, significa appoggiare una borghesia nazionale reazionaria, priva di qualunque ruolo progressivo, significa, in breve, appoggiare un campo imperialistico contro l’altro, significa abbandonare l’internazionalismo proletario per l’opportunismo socialsciovinista.

L’Ucraina è un paese pienamente capitalista, legato con mille fili all’imperialismo mondiale dal quale nessuna “resistenza antimperialista” condotta a “senso unico” dalla sua borghesia nazionale potrà scioglierlo. Ci viene da ridere solamente al pensiero che i putridi, avidi, più volte comprati e venduti borghesi ucraini, chiamati oligarchi, degni in tutto e per tutto dei loro compari russi, possano avere un ruolo rivoluzionario anche soltanto dal punto di vista borghese.

In Ucraina[8] i salari e le pensioni – che sono i più bassi d’Europa – ammontano rispettivamente a 420 e 110 dollari al mese in media. Il lavoro nero si attesta tra il 15% e il 21%. Il 9,7% dei bambini tra i 5 e i 14 anni (circa 385.000) lavora; il 97% dei bambini-lavoratori è impiegato nell’agricoltura, mentre il 12% degli studenti tra i 7 e i 14 anni studia e lavora. In Ucraina la borghesia impiega bambini anche di 7 anni nelle miniere di ambra e di carbone.

Nel 2019 il “progressivo” governo della “giovane” borghesia ucraina, con a capo il “servitore del popolo” Zelensky, ha presentato una bozza di legislazione sul lavoro di 98 articoli, chiaramente ispirata al mercato del lavoro statunitense, che prevedeva l’introduzione del lavoro “discrezionale”, che attribuisce al padrone la facoltà di licenziare i dipendenti senza dover dimostrare la giusta causa. Piove su bagnato, verrebbe da dire. Il progetto di riforma è stato a suo tempo congelato in seguito ad una decisa reazione dei sindacati ucraini, ma il governo borghese di Zelensky ha “spacchettato” la riforma in una serie di disegni di legge che non ne alterano la sostanza. Tra questi i ddl 5371 e 5388, presentati nell’aprile 2021 alla Verkhovna Rada, stavolta senza interpellare i sindacati.

Il disegno di legge 5371 esenta le imprese fino a 250 dipendenti dall’applicazione dei contratti collettivi, una deroga che riguarderebbe il 75% delle aziende e il 73,1% della popolazione attiva.[9]

La pubblicazione, nel novembre 2021, di alcuni documenti riservati ci fornisce un saggio della compromissione imperialistica della “giovane borghesia nazionalista progressiva” ucraina:

dal settembre 2020 UK Aid, un fondo governativo legato al Foreign Office britannico con una dotazione di 150 milioni di sterline, ufficialmente destinati a combattere la povertà e a realizzare i Global Goals dell’ONU, e l’ambasciata britannica a Kiev hanno organizzato e finanziato una campagna a sostegno delle riforma del lavoro di Zelensky.[10]

Naturalmente, la guerra ha rappresentato una possibilità di accelerazione nel dispiegamento di questa aperta politica antioperaia della borghesia ucraina. Il nazionalismo paga sempre. Il 14 marzo, il partito di Zelensky ha presentato al parlamento ucraino una nuova legge approvata e controfirmata dal “servitore del popolo” in meno di due giorni. In base alla nuova legge sarà consentito licenziare i dipendenti in ferie o in malattia (“non ancora” quelli in maternità o in congedo parentale). I padroni possono aumentare a discrezione l’orario lavorativo da 40 a 60 ore, ridurre le ferie e godere di maggior flessibilità nelle assunzioni. La legge prevede la possibilità di affidare alle donne lavori fisicamente pesanti e anche di lavorare sottoterra nelle miniere, cosa finora vietata dalla legge ucraina. Grazie a questo regalo legislativo di Zelensky i padroni ucraini hanno anche il diritto di cancellare i contratti di lavoro collettivi, le libertà delle organizzazioni sindacali sono fortemente limitate.

In Ucraina il 10% più ricco possiede una ricchezza e un reddito 40 volte maggiore a quello dei lavoratori ucraini più poveri. Di questo 10% fanno parte i vari Akhmetov (7,6 miliardi di dollari), re del carbone; Pinchuk (2,5 miliardi), re dell’acciaio; Zhevago (2,4 miliardi), banchiere, padrone di ferriere e costruttore di veicoli; Kolomoyskyi (1,8 miliardi), petroliere e finanziere, nonché proprietario della rete televisiva che ha lanciato il presidente-attore Zelensky; Boholoyubov (1,7 miliardi), finanziere; gli Hereha (1,7 miliardi), padroni dell’equivalente ucraino dell’Ikea. Ce ne sono altri, ma come dimenticare Petro Poroshenko (1,6 miliardi), il “re della cioccolata” ed ex-presidente ucraino che adora farsi intervistare nella marziale divisa della “resistenza patriottica”, accanto ai suoi soldati privati e ai suoi personali carri armati?

È evidente che i

… cosiddetti oligarchi, che sembra esistano solo in Russia, in realtà ci sono anche in Ucraina e sono frutto dello stesso processo di predazione delle spoglie del capitalismo di Stato sovietico perlopiù da parte di ex dirigenti di partito e dei loro familiari. Il conflitto a cui assistiamo, più che uno scontro tra russi e ucraini o tra dittatura e democrazia, ha come protagoniste due “oligarchie” socialmente affini, perché figlie dello stesso processo storico, ma con contrastanti visioni della propria collocazione geopolitica. Il recente episodio della moglie di un imprenditore nucleare ed ex politico ucraino, fermata al confine con 30 milioni di dollari, ci racconta la guerra da un altro punto di vista: c’è chi manda le proprie fortune all’estero e chi invece è costretto a combattere o a lavorare senza diritti, oggi vittima della guerra, domani, probabilmente, della ricostruzione.[11]

Chi si illude, e semina illusioni, sul fatto che il proletariato ucraino coscritto possa porre, dopo la guerra, una qualche “ipoteca” sul governo ucraino – servitore di questa borghesia – postula che sia necessario vincere la guerra, e, dal momento che la guerra, fino a prova contraria, la dirige il governo borghese (e i suoi alleati), vincere la guerra per il proletariato ucraino non ha altro significato che quello di sottomettersi alle condizioni di sfruttamento imposte dalla borghesia ucraina e internazionale, più o meno giustificate dal suo sforzo bellico. Ecco a cosa si riduce certo “operaismo” da operetta: all’union sacrée a spese della classe operaia che deve accettare un’ipoteca reale da parte della borghesia, che la riscuote durante la guerra e che non mancherà di riscuoterla nella ricostruzione post-bellica.

C’è da aggiungere, per chi non lo sapesse, che la guerra moderna, la si chiami o meno “resistenza”, esige nella sua conduzione un’unità e continuità che viene garantita dalla struttura gerarchica degli eserciti, esige l’accentramento di tutte le funzioni nelle mani dello Stato maggiore e del governo borghese. Se ciò che vogliono gli eventuali – sventurati – sostenitori ucraini di questa politica “resistenzial-proletaria” è la vittoria allora dovranno necessariamente garantire l’assoggettamento del proletariato allo Stato maggiore borghese, e, nel caso sopraggiungesse comunque la sconfitta, agli occhi delle masse risulterebbero complici di chi ha voluto la guerra.

All’opposto di queste indicazioni opportuniste e socialpatriottiche, ribadiamo ancora una volta che se il proletariato cosciente russo ha il dovere internazionalista di non appoggiare in nessun caso l’annessione forzata totale o parziale dell’Ucraina – il che, se non si vuole giocare con le parole, equivale per l’appunto a riconoscerne il diritto all’autodeterminazione – e di condurre una lotta che favorisca la sconfitta del proprio imperialismo, se possibile in collegamento con il proletariato ucraino, quest’ultimo, sempre cercando collegamenti con il proletariato russo, non deve “mettere tra parentesi” la lotta di classe; deve lottare contro la guerra condotta per interessi non suoi; operare con indipendenza di classe per la sconfitta del proprio governo borghese in guerra, creando in tal modo le condizioni per abbatterlo; instaurare il proprio potere e combattere una reale guerra rivoluzionaria contro l’imperialismo, moscovita e mondiale.

Questa strategia politica è quanto possiamo suggerire in linea di massima alle minoranze rivoluzionarie di classe ucraine e russe, se esistono, nella consapevolezza che, per poterla dispiegare, sono necessarie precondizioni che, con tutto l’ottimismo possibile, difficilmente sono attualmente riscontrabili. Il riconoscimento delle difficoltà oggettive e soggettive per la conduzione di una politica coerentemente internazionalista e rivoluzionaria non può mai però trasformarsi nel tradimento più o meno velato di questa politica, giustificato con la formula magica dello “stare con le masse”.

Il disfattismo rivoluzionario e la lotta operaia rivoluzionaria contro il “difesismo” variamente aggettivato


I sostenitori dell’appoggio “rivoluzionario e internazionalista” alla “resistenza” ucraina sono costretti a postulare – senza dimostrarlo – che una guerra è interimperialista solo quando le potenze imperialiste si scontrano direttamente sul piano militare. Questo postulato indimostrato e indimostrabile è alla base della giustificazione del loro posizionamento politico, se crolla il postulato, crolla tutto quanto.

Ma una guerra può essere interimperialista, senza essere una guerra interimperialista mondiale, senza coinvolgere direttamente nello scontro militare due o più potenze imperialiste, e può esserlo se, a dispetto degli effettivi contendenti sul campo militare, gli interessi fondamentali che si scontrano sono interessi imperialistici!

In questo caso, che ci sembra corrispondere perfettamente al caso ucraino, l’invio di armi da parte di alcuni contendenti imperialisti non costituisce l’appoggio ad una “lotta nazionale”, ma è perfettamente funzionale ad una guerra per interessi imperialisti combattuta da una nazione dipendente.

È allora lampante che il sostegno all’invio di armi all’Ucraina da parte del proprio governo borghese, o comunque l’appoggio ideologico a questa guerra – nel caso in cui l’irrilevanza di certi “rivoluzionari” extraparlamentari loro malgrado fornisse il solo alibi che consente di evitare di doversi esprimere di fatto pro o contro l’invio di armi – equivarrebbe all’appoggio ad una borghesia reazionaria estera e soprattutto al nemico imperialista in casa propria – o dell’alleanza imperialista di cui questo fa parte – per i cui interessi altri combattono la guerra.

Affermare che le armi fornite all’Ucraina dagli imperialisti non mutano il presunto carattere di guerra di liberazione nazionale della “resistenza” ucraina significa sostenere che in Ucraina esiste una borghesia autonoma dall’imperialismo, o una borghesia rivoluzionaria che vuole liberarsi dal dominio imperialistico, che ha la forza e i margini di manovra per farlo.

Affermare che dovrebbe essere il proletariato ucraino a condurre la lotta contro l’aggressore imperialista russo avrebbe senso se non si invitasse il proletariato a sottomettersi ad una “resistenza” che è in realtà una guerra inquadrata e diretta dalla borghesia ucraina e dagli imperialismi contrapposti a quello russo, se non si alterasse la natura della guerra per giustificare questa sottomissione.

Ma chi fa questo invito sa benissimo che la classe operaia in Ucraina è ancora subordinata alla borghesia e si illude che affibbiare un’etichetta “rivoluzionaria” al conflitto in corso, invece di denunciarne la vera natura, favorisca il processo di avanzamento della coscienza di sé e dei propri interessi da parte del proletariato coinvolto.

Siamo per la “resistenza”, ma non per il “nazionalismo”! – protestano alcuni – peccato che la resistenza sia nazionalista. È un po’ come affermare: siamo per la guerra imperialista, ma per i nostri obiettivi, non per quelli degli imperialisti.

“Vogliamo” le squadre di autodifesa operaia, le fraternizzazioni ecc. – aggiungono altri sedicenti “internazionalisti” in Ucraina. Per ora queste squadre non esistono, però intanto, nei fatti, ci schieriamo con l’esercito e le milizie borghesi, giustificandone teoricamente l’operato presso la classe ma “salvandoci l’anima” denunciandone l’eccessivo “nazionalismo”.

Se gli operai in armi non controllano nessun territorio, nessun settore del fronte, impedendo, anche con la violenza, che nelle zone da essi controllate possano mettere piede le truppe governative, le milizie naziste armate e finanziate dal governo o la soldataglia privata dei vari Poroshenko, allora le dichiarazioni di internazionalismo di chi avalla la subordinazione degli operai all’esercito nazionale sono solo vuote promesse, utili solamente a tacitare la coscienza non troppo esigente di chi non vuole rinunciare all’etichetta di “marxista”.

Semmai le squadre di autodifesa dovessero sorgere, non sarebbe certo grazie ad una simile politica capitolarda, e non si comprende come con questa abdicazione qualcuno possa illudersi di guadagnare una qualche credibilità presso gli operai, se e quando dovessero rivelarsi stanchi di una guerra che questo qualcuno avrà contribuito a nobilitare.

Ma non è il solo scenario possibile. Generalmente la vittoria in guerra rafforza il prestigio delle istituzioni borghesi che l’hanno condotta e consolida l’unanimità nazionale. Per questi pretesi internazionalisti la posizione assunta si rivelerebbe anche in tal caso un boomerang. Non saranno loro (se non a chiacchiere) a raccogliere i frutti di un’eventuale “vittoria” e in caso di sconfitta non avranno acquisito nessun credito presso le masse. Se i risultati di un’intransigente politica internazionalista sono solo probabili, quelli di una simile capitolazione sono una certezza.

Se i comunisti internazionalisti avessero una presenza organizzata e un peso in Ucraina il loro dovere rivoluzionario sarebbe quello di denunciare la natura imperialistica della guerra e accettare l’illegalità a cui li ridurrebbe il governo borghese ucraino. Continuando nella clandestinità a denunciare senza soste la guerra della propria borghesia, non dovrebbero dare ai propri militanti l’indicazione della diserzione individuale[12] ma quella di nascondere la propria affiliazione politica e di iniziare un prudente lavoro sotterraneo di disfattismo, via via più aperto ed esteso nella misura in cui la situazione politica generale e le condizioni dell’esercito permettessero di trovare una maggiore eco alle posizioni rivoluzionarie, nell’ottica dello sfruttamento delle contraddizioni create dalla guerra per sottrarre il proletariato ucraino al controllo della propria borghesia. Questo è quanto dovrebbero fare anche eventuali comunisti internazionalisti in Russia, ovvero, nella sostanza, ciò che fecero i bolscevichi e ciò che riteniamo essere l’applicazione del “disfattismo rivoluzionario”.

L’esperienza bolscevica del disfattismo rivoluzionario, che tanti pretendono di aver “superato”, non è stata in realtà minimamente compresa nel suo significato più profondo.

Per i marxisti il disfattismo non è un principio, al contrario dell’internazionalismo e della lotta di classe rivoluzionaria. Il disfattismo è una tattica in cui si traducono questi princìpi nel corso di una guerra imperialista.

L’eventualità, manifestatasi ad esempio nel corso della Seconda guerra mondiale, di “vittorie napoleoniche”, ovvero di rapide sconfitte dell’avversario con conseguente occupazione del suo territorio ed instaurazione di “governi fantoccio”, può modificare la tattica nella quale si traduce il principio internazionalista e quello della lotta di classe, ma non può mai mutarne il contenuto.

Quando l’esercito di una nazione borghese è sconfitto e il suo territorio viene occupato senza che si sia verificata la rivoluzione proletaria, risulta evidente che, a rigor di termini, parlare di disfattismo è inappropriato. La disfatta c’è già stata, ma non è stato possibile o non si è stati in grado di approfittarne. Non cambia però la sostanza della politica rivoluzionaria internazionalista:

- lotta contro lo Stato borghese, che sia direttamente quello dell’occupante imperialistico o un suo fantoccio, ma, al tempo stesso, lotta contro la borghesia nazionale, che, allo scopo di recuperare il potere perduto, utilizza il nazionalismo per intruppare il proletariato nelle sue “lotte di liberazione”;
- senza rinunciare alla difesa fisica della classe da vessazioni, coscrizioni, lavoro forzato o deportazioni, nessun appoggio a “resistenze” borghesi, che potrebbero manifestarsi come “guerre di guerriglia”, ma sempre borghesi;
organizzazione indipendente del proletariato, politica e militare;
- lotta su due fronti: lotta contro tutte le espressioni della borghesia, straniera e autoctona;
- tentativi di collegamento con i proletari dell’esercito occupante e con i proletari nel paese occupante.

Dal lato dei proletari coscienti del paese occupante:

- riconoscimento del diritto all’autodeterminazione della nazionalità oppressa;
lotta contro il proprio imperialismo;
- appoggio concreto alle forze rivoluzionarie di classe del paese occupato.

Unione internazionale della lotta, dunque, e disfattismo all’interno.

Ovviamente, chi, in caso di sconfitta militare e di prolungata occupazione, adottasse una simile politica classista, internazionalista e rivoluzionaria, si troverebbe di fronte alle condizioni più sfavorevoli per combattere la borghesia: dovrebbe combatterne due contemporaneamente. Tuttavia, non si scelgono le condizioni nelle quali essere internazionalisti, né in qual modo essere internazionalisti, si sceglie soltanto se esserlo o meno.

Crediamo che questo sia il modo corretto di applicare il marxismo alla situazione ucraina, un marxismo che non ha bisogno di “difensori” che a causa del loro conclamato opportunismo hanno perso da tempo ogni “abilitazione ad esercitare” nel foro rivoluzionario; non ha bisogno di “formule”, radicali solo in apparenza, che dovrebbero dispensare una volta e per sempre dal “contaminante” contatto con la realtà sociale e dalla sua analisi; e soprattutto non ha bisogno di trafficanti “operai” di una politica operaia borghese.

Come sempre, le nostre critiche hanno come obiettivo le posizioni politiche e non gli individui che se ne fanno interpreti. Detto questo, se la scarpa calza, la indossi chi vuole.

Concludiamo riaffermando con forza la consegna per gli internazionalisti in Italia:

- No all’economia di guerra sulle spalle della classe operaia!
- Nessuna tregua interna alla lotta di classe!
- No alla partecipazione diretta e indiretta dell’imperialismo italiano alla guerra imperialista in Ucraina!
- Non un soldo, non un uomo!


Circolo internazionalista “coalizione operaia”

NOTE

[1] L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Sugar, 1964, pp. 31-33.

[2] C’è chi sostiene che l’unica forma di guerra interimperialista possibile sia quella di una guerra “mondiale” – chissà che magari non ci venga fornito anche il “numero minimo necessario” di contendenti per definire una guerra “mondiale” – come se gli scontri “parziali”, circoscritti, tra grandi potenze, per gli interessi delle grandi potenze, anche e soprattutto combattuti per il tramite di pedine di piccolo calibro come l’Ucraina o di medie potenze regionali, non abbiano una natura imperialistica.

[3] A. Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Lotta comunista, Milano, 2009, pp. 152-155.

[4] Ibidem, pp. 230-231.

[5] A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, Iskra, Milano, 1976, pp. 154-155.

[6] A. Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Lotta comunista, Milano, 2009, p. 166.

[7] Ibidem, p. 158.

[8] Dati ripresi dall’articolo di M. Verruggio, Ucraina: una democrazia che stava per cancellare i contratti di lavoro, https://www.glistatigenerali.com, 26 marzo 2022.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Quella della diserzione individuale è un’indicazione che pertiene maggiormente agli anarchici, quelli veri, degni del rispetto che non meritano coloro che insudiciano la bandiera nera facendosi irregimentare in una guerra borghese e imperialista per procura e, nelle licenze tra un massacro e l’altro, tornano al proprio tablet per arricchire qualche blog di utilissime coperture “a sinistra” della guerra. Coperture che, se avessero un qualche peso, verrebbero senza dubbio amplificate dai media nostrani, ben felici di “dimostrare” che c’è molto di meglio del battaglione Azov sotto il sole ucraino.

Circolo Internazionalista "Coalizione Operaia"

5232