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Mani bianche

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(23 Dicembre 2010) Enzo Apicella
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(La controriforma dell'istruzione pubblica)

La scuola ricomincia, in campagna elettorale

(8 Settembre 2022)

scuola e seggi

Il nuovo anno scolastico sta per cominciare, con i problemi di sempre e con nuovi attacchi che, durante l’estate, il governo ancora in carica ha tirato fuori dal cilindro. Il mese di settembre sarà anche un mese di campagna elettorale, denso di promesse e dichiarazioni da parte delle diverse forze politiche istituzionali, per sottolineare l’importanza della scuola pubblica e accaparrarsi il consenso del bacino elettorale rappresentato dalle lavoratrici e dai lavoratori della scuola.

Il Partito Democratico propone di aumentare gli stipendi degli insegnanti, di potenziare la scuola dell’infanzia, il sostegno, i viaggi d’istruzione, di finanziare l’edilizia scolastica e i sistemi di aerazione, di rendere gratuiti i trasporti e i libri di testo per le famiglie con redditi medio-bassi, di alzare l’obbligo a 18 anni. Il Movimento 5 stelle non è da meno in quanto a promesse di aumenti degli stipendi; aggiunge lo sdoppiamento delle classi sovraffollate, il potenziamento del supporto psicologico, il tempo pieno, la gratuità il percorso scolastico fino a 18 anni. La coalizione di destra propone di sostenere le scuole paritarie, rivedere il percorso scolastico in senso meritocratico e professionalizzante e sostenere gli studenti meritevoli.

Alla campagna della destra va riconosciuto il merito della sincerità e della coerenza in tema di politiche scolastiche. I suoi esponenti non nascondo il disprezzo per la scuola pubblica, per i/le docenti come per gli studenti e le studentesse. Matteo Salvini ha dichiarato, riferendosi alle proposte di estensione dell’obbligo scolastico; “Ma perché uno a 16 anni che vuole andare a lavorare, deve essere costretto ad andare a scuola? Perché un bambino di 4 anni deve andare all’asilo statale?”. Giorgia Meloni, che non ha nulla da imparare da Salvini in quanto a disprezzo della scuola e del sindacato, se l’è presa con i docenti sindacalizzati, dichiarando: “Sogno una nazione nella quale tu, per essere un buon docente, non devi per forza avere la tessera dalla Cgil”. Forse ha fatto confusione con il ventennio fascista che tanto piace a FdI, in cui in effetti per lavorare a scuola dovevi essere tesserato al PNF.

Ma andando al di là delle boutade elettorali, effettivamente la destra si è contraddistinta per i peggiori attacchi alla scuola pubblica negli ultimi tempi. Ricordiamo solo il taglio strutturale che Tremonti e Gelmini hanno operato nel 2008, durante il quarto governo Berlusconi. Quei tagli furono realizzati, tra l’altro, con la creazione delle famigerate “classi pollaio”, cioè con i criteri tuttora vigenti per la formazione delle classi nelle scuole pubbliche, che hanno portato alla costituzione di classi in molti casi con più di trenta alunni/e. Ricordiamo a beneficio dei più smemorati, che Giorgia Meloni e Matteo Salvini erano in Parlamento già all’epoca, impegnati a sostenere la maggioranza di governo di centrodestra.

La campagna elettorale del centrosinistra sulla scuola invece sembra uno spettacolo di teatro dell’assurdo. Il Partito Democratico è stato al governo per la maggior parte della legislatura che va esaurendosi, tra l’altro con l’attuale ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi, ed anche negli anni precedenti ed ha fatto sistematicamente il contrario di quanto va promettendo. Come dimenticare il governo Renzi, all’epoca segretario del PD, che ha imposto la cd. Buona scuola a colpi di fiducia in Parlamento, mentre nelle piazze e nelle scuole veniva rigettata a gran voce? La condizione misera degli stipendi della scuola, che oggi si dice di voler aumentare, non è conseguenza del destino cinico e baro, ma di precise scelte politiche operate, ad esempio, tra il 2009 e il 2018, quasi dieci anni di mancato rinnovo dei contratti di lavoro pubblici. Non che il rinnovo del 2018 abbia invertito la tendenza, visto che non sono stati restituiti gli arretrati e gli aumenti non hanno coperto neanche la perdita di potere d’acquisto determinata dall’inflazione. E dal 2011 il PD è sempre stato in maggioranza, prima nel governo “tecnico” di Mario Monti, poi con Letta, Renzi, Gentiloni… Il nuovo contratto è scaduto già a dicembre 2018 e ancora non ci sono le risorse per rinnovare il triennio scaduto a dicembre 2021.

Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte vorrebbe far dimenticare l’esperienza disastrosa dell’ultima legislatura in tema di politiche scolastiche. Votati da tante e tanti lavoratrici e lavoratori della scuola nel 2018, sull’onda dell’opposizione alla buona scuola renziana, i parlamentari grillini si sono ben guardati dall’abrogare la legge 107 del 2015. Hanno rifatto la facciata all’alternanza scuola-lavoro cambiandole nome in “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”, diminuendo le ore obbligatorie ma non cambiandone la sostanza. Il primo ministro dell’istruzione nel primo governo Conte, il leghista Marco Bussetti, si è distinto per l’introduzione dell’educazione civica nelle scuole, una pessima legge che sta nei fatti consentendo agli insegnanti di religione cattolica (scelti dalla Chiesa cattolica) di imporsi come docenti anche per chi ha scelto di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Il primo ministro del secondo governo Conte, Lorenzo Fioramonti, si è dimesso a pochi mesi dall’incarico, denunciando il mancato finanziamento dell’istruzione e della ricerca in Italia. La ministra Lucia Azzolina rimarrà nella storia per i “banchi a rotelle”, proposti come soluzione alla crisi pandemica nelle scuole. Nei fatti la scuola, già vessata dai tagli operati dal 2008, durante la pandemia ha praticamente smesso di funzionare per due anni, tra chiusure, didattica a distanza, per colpa dell’inadeguatezza delle strutture e delle classi sovraffollate. Problemi che il M5S non ha neanche accennato a risolvere, lasciando la scuola pubblica – così come la sanità – nelle condizioni fatiscenti in cui l’ha trovata.

Infine, tutte insieme le forze politiche dell’arco parlamentare hanno partecipato alla maggioranza che ha sostenuto il governo tuttora in carica di Mario Draghi. Si dirà che bisogna fare eccezione di FdI e di Sinistra italiana, che si sono schierati all’opposizione, ma ad oggi entrambe queste forze politiche sono alleate in coalizione con le forze del centrosinistra e della destra che di quella maggioranza facevano parte. Attraverso l’attuazione delle riforme previste nel PNRR (che era già stato predisposto dal secondo governo Conte), il governo Draghi sta mettendo a segno degli attacchi importanti alla scuola pubblica, nella logica neoliberista e competitiva della buona scuola renziana, praticamente senza opposizione in Parlamento e con risposte ancora troppo timide del fronte sindacale. Il decreto 36 del 2022, che contiene la riforma della formazione del personale scolastico (ne abbiamo parlato in questo articolo) è stato già convertito in legge, al Senato con 179 favorevoli e 22 contrari, alla Camera con 316 favorevoli e 24 contrari. Quel provvedimento contiene, tra l’altro, il taglio di ulteriori diecimila cattedre nelle scuole, aggravando il problema del sovraffollamento delle classi. L’obiettivo di fondo però, lo avevamo denunciato subito dopo l’emanazione di quel decreto, era quello di differenziare la carriera degli insegnanti, puntando a costruire una ristretta cerchia di collaboratori dei dirigenti (una sorta di middle management sul modello aziendale), con stipendi più alti, mantenendo al palo quelli della grande maggioranza. Questo obiettivo si è esplicitato con il decreto legge n. 115 del 9 agosto scorso, in corso di conversione in legge proprio in questi giorni al Senato, che ha istituito la figura del “docente esperto”, inizialmente 8000 insegnanti (a regime saranno 32000) selezionati dai dirigenti tra quelli che abbiano completato tre cicli di formazione triennali (quelli istituiti dal decreto 36). Si sta rischiando di portare a termine, con il consenso di tutti quelli che oggi si presentano a chiedere i voti come paladini della scuola pubblica, ciò che non era riuscito a Luigi Berlinguer con il suo concorsone del 1999 ed a Letizia Moratti nel 2003, entrambe le riforme sconfitte dalla mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori, delle studentesse e degli studenti.

Che fare allora? Per quello che può servire, intanto non bisognerebbe votare nessuna delle forze politiche che hanno determinato lo scempio della scuola pubblica, né i loro alleati nelle principali coalizioni. Un segnale potrebbe venire dal voto a Unione popolare, che ha un programma antiliberista e di sinistra, di difesa reale della scuola pubblica, del diritto all’istruzione per tutte e tutti, della libertà dell’insegnamento. Ma non basta. Per sconfiggere le politiche liberiste nella scuola è necessario dare continuità alla mobilitazione cominciata con lo sciopero del 31 maggio, il sindacato deve indire subito una forte mobilitazione e uno sciopero per influire sul dibattito parlamentare di questo scorcio di legislatura. E’ necessario che il movimento per la scuola pubblica riprenda e si colleghi con gli altri settori della classe lavoratrice, che rischia di subire un colpo mortale dall’aumento dei prezzi dell’energia e, a cascata, di tutte le altre merci, per mettere in discussione i fondamenti capitalisti del sistema economico dominante. Oggi come ieri, la scuola pubblica e il salario si difendono con la lotta.

Francesco Locantore - Sinistra Anticapitalisa

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