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    Nota sulla tattica del “parlamentarismo rivoluzionario”

    (7 Settembre 2022)

    L’analisi dei dati delle passate elezioni (politiche e amministrative) e i sondaggi relativi alla prossima kermesse del 25 settembre sono convergenti nel mostrare la tendenza ad un astensionismo crescente, un astensionismo particolarmente radicato nei settori proletari e fra le classi subalterne.

    Si tratta di un elemento di fondo, di una condizione di lungo periodo, sottolineata periodicamente da quasi tutti i commentatori. Tuttavia, nonostante tanta (interessata) preoccupazione, i media presentano costantemente i dati elettorali in termini percentuali, metodo che maschera, pur essendo formalmente corretto, la vera entità del “consenso” ricevuto dai diversi partiti borghesi, tenuto conto che tali percentuali si applicano ad una massa di votanti che non supera di molto la metà del corpo elettorale.

    Il fenomeno dell’astensionismo, comune a tutti i paesi “avanzati”, segna un’inversione – che non abbiamo elementi per definire definitiva, ma che è comunque radicata e profonda – del modo in cui le contraddizioni dei rapporti di classe emergono alla superficie della società e si presentano sullo scenario politico ufficiale. Non siamo cioè in presenza di un disorientamento o di una delusione momentanea, magari verso questa o quella formazione politica, ma di una crescente estraneità verso tutta la dinamica elettorale e i processi di formazione delle strutture istituzionali (Parlamento, Governi) che non può essere liquidata o sottovalutata.

    Anche chi, fra i proletari, va a votare non lo fa generalmente per un convincimento effettivo, riconoscendosi in un determinato programma, ma in forza di un atteggiamento di “disincanto”, di una convenienza momentanea che si limita a sperare che “da quella tavola” (elettorale) e da quel partito – se non addirittura da quel particolare candidato – possano piovere delle briciole, per quanto piccole, e non delle sonore bastonate, as usual. Tutto ciò avviene sulla base di una generale mancanza di senso di classe, ciascuno ragionando come semplice individuo, cittadino fra i cittadini, sballottato nel mare burrascoso di una crisi che si spera transitoria, ma che i fatti si ostinano a mostrare come sempre più profonda, complessiva, di sistema, capace di introdurci a sconvolgimenti di portata epocale, tali che, per questioni anagrafiche, quasi nessuno, nelle nazioni imperialistiche di cui l’Italia fa parte, ha ormai conoscenza diretta. Il quadro che ne risulta è abissalmente distante da quello di fronte al quale si sono trovati i rivoluzionari all’incirca fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. In altre parole, non c’è una situazione in cui cresce l’azione di classe, si sviluppano movimenti di lotta e, con essi, la spinta di ampi strati proletari ad entrare nell’agone politico, a costruire “la propria rappresentanza” anche nel Parlamento e nelle istituzioni della democrazia borghese.

    Su questa dinamica poggiava oggettivamente la tattica del parlamentarismo rivoluzionario. Essa era costruita esplicitamente sulla base dell’assunto che il proletariato non solo potesse accedere al potere solo per via rivoluzionaria, e non certo elettoralistica, ma che la stessa lotta di difesa immediata dovesse svilupparsi fuori e contro i meccanismi parlamentari.

    Fondamento di tale tattica era la consapevolezza che le elezioni e i meccanismi parlamentari servissero solo a decidere periodicamente a quale partito borghese spettasse il compito di organizzare il dominio e l’oppressione di classe e che tale dominio aveva comunque il suo centro decisionale non nelle aule parlamentari ma nella rete di interessi, connivenze, apparati, di cui la classe dominante dispone.

    Per tale motivo, il centro di gravità dell’azione di classe non poteva che essere extra-parlamentare, con l’obiettivo di far avanzare, sul terreno dello scontro proletariato/borghesia, i rapporti di forza in favore delle masse.

    La tattica del parlamentarismo rivoluzionario era così finalizzata ad utilizzare la presenza nelle istituzioni come semplice tribuna rivoluzionaria, non certo come strumento per “cambiare qualcosa dall’interno”.

    La storia, tuttavia, non si riproduce sempre uguale a sé stessa. Il modo di manifestarsi degli antagonismi di classe – oggi crescenti, in termini oggettivi – è profondamente mutato per molte ragioni, che non possiamo analizzare in queste poche righe, alle quali non è certo estraneo il modo soggettivo in cui la classe ha vissuto, non solo in Italia, l’esperienza del proprio adattamento alle esigenze del capitalismo – un adattamento che è stato condizionato da una fase espansiva dell’accumulazione capitalistica inedita per durata e profondità e di una successiva sequenza di crisi che, nei paesi imperialisti, è stata utilizzata dalle classi dominanti grazie anche al loro predominio sul mercato mondiale. E’ stata questa gestione capitalistica che ha logorato profondamente non solo le condizioni materiali di esistenza dei proletari, ma la loro stessa percezione di essere una classe distinta dalle altre.

    L’attuale crescente astensionismo elettorale, che di per sé è un fattore positivo di estraniazione proletaria dai meccanismi della politica borghese, ha però anche un risvolto che si presta ad una lettura meno ottimistica e che fa tutt’uno con la difficoltà di ripresa di un’attività proletaria di lotta che, eccezion fatta per singoli comparti, manca – in particolare in Italia – da troppo tempo.

    In ogni caso, quale che sia la lettura dell’attuale situazione di classe, non si può negare che essa sia radicalmente diversa da quella della prima metà del secolo scorso.

    Pensare di riproporre, sic et simpliciter, tattiche sperimentate con maggiore o minore successo nella storia del movimento operaio – come è appunto il caso del parlamentarismo rivoluzionario –, trascurando il modo completamente diverso in cui si manifesta oggi la stessa crisi del riformismo e la sua capacità di controllo sulle masse, è un’attitudine destinata al fallimento.

    Le esperienze, fatte ormai nel corso di molti anni, di costruire liste “di alternativa”, “di lotta” (anche a partire da battaglie reali non certo disprezzabili), regolarmente finite nel nulla, anzi con un surplus di rassegnazione, delusione e demoralizzazione dei proletari coinvolti, dovrebbe provarlo a sufficienza.

    Non è questione di chiarire che non si vuole conquistare il potere e cambiare la società per via parlamentare, di ribadire che si vuol fare la lotta di classe nelle piazze e non nelle aule di Camera e Senato, ecc. Si tratta di prendere atto, una volta per tutte, che la situazione soggettiva dei rapporti di classe che abbiamo ereditato dai passati decenni, il modo di esprimersi delle contraddizioni all’interno del proletariato, è tale per cui queste ricette sono destinate a naufragare. Non basta dire: siamo consapevoli che il partito si costruisce sul terreno dello scontro di classe reale, partecipiamo alle elezioni solo per fare propaganda rivoluzionaria. Occorre prendere atto che questo atteggiamento – sulla carta, astrattamente corretto – si è sistematicamente tradotto in un rovesciamento del rapporto tra causa ed effetto. La propaganda elettorale e le soluzioni specifiche individuate per partecipare alla campagna elettorale (di parlamentari eletti in “liste di lotta” si è da tempo persa ogni traccia) si trasformano inevitabilmente nell’operazione politica principale che si conduce, glissando sul fatto, tutto sommato facile da comprendere, che senza un partito già esistente, strutturato e capace di azione complessiva, la “tattica elettorale” è un’illusione e un boomerang e scade, a dispetto di ogni buona intenzione, in semplice elettoralismo.

    Davvero qualcuno può pensare che una “lista di lotta” possa oggi avere un qualche appeal verso le masse che si allontanano sempre più dai meccanismi elettorali?

    O si pensa invece, magari con qualche reticenza nel dichiararlo apertamente, che il vero scopo di tali liste, il messaggio subliminale che esse servono a veicolare, non è rivolto alla massa proletaria in genere, quanto piuttosto a quel Circo Barnum che è da tempo diventato il cosiddetto “popolo della sinistra”, di cui si sogna una qualche forma di “ricomposizione”?

    Noi siamo convinti non solo che la rinascita di un nuovo movimento proletario dovrà scaturire dalla ripresa a tutto campo del protagonismo di settori crescenti della classe, ma che essa sarà tale se si svilupperà fuori e contro ogni illusoria scorciatoia elettoralistica. In questo cammino, essa dovrà necessariamente disgregare quanto rimane del “popolo della sinistra”, che sopravvive penosamente nel continuo rimpianto di un capitalismo dal volto umano, mentre tutta l’evoluzione dei rapporti sociali si indirizza a mostrare il volto più feroce e inumano del capitalismo.

    Non siamo indovini e non possiamo escludere in assoluto che, in una situazione radicalmente mutata, la riproposizione di una tattica che preveda anche la presentazione alle elezioni possa essere presa in considerazione. Proporla oggi è del tutto fuori dalla realtà.

    P.S. Ovviamente, le considerazioni sopra esposte si riferiscono alla situazione dei paesi più sviluppati, quelli nei quali la “democrazia parlamentare” e l’elettoralismo, con la loro coda di inganni e manipolazioni, sono da lungo tempo consolidati. Diverso ragionamento, invece, va fatto per quei paesi che non hanno mai conosciuto lo sviluppo di “istituzioni democratiche” o nei quali, comunque, le forme apertamente autoritarie e dittatoriali dei governi borghesi rappresentano da sempre la norma dell’esercizio del potere da parte delle classi dominanti. Una situazione differente che, certamente non da sola, è alla base del diverso atteggiamento che il proletariato, le classi lavoratrici e anche ampi strati popolari sviluppano rispetto alla contesa elettorale. Ma, ovviamente, questo è un discorso che merita una trattazione specifica che non possiamo svolgere in questa sede.

    5 gennaio

    Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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