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Putin versus NATO: verità e menzogne

(23 Settembre 2022)

vladimir putin

Il discorso di Putin di ieri mattina getta nuova luce sugli eventi? No, niente che già non si sapesse. Segna, questo sì, con il varo della “mobilitazione parziale” di 300.000 riservisti, un ulteriore incrudimento della guerra tra NATO e Russia in Ucraina (già scontato da tempo per la decisione degli Usa e delle potenze occidentali di dare un sostegno illimitato in armi e addestramento a Kiev), e rappresenta il tentativo di reagire ad alcuni rovesci militari. Ma si muove comunque lungo un tracciato politico e propagandistico noto.

Anzitutto i suoi richiami alla patria e agli eventi dell’89 mostrano senza dubbi che i suoi riferimenti non sono la Rivoluzione di Ottobre ma il capitalismo, variamente definito, dell’Urss postleninista.

L’attacco dell’Occidente è spiegato a partire dal paese di Stalin, di Chruscev, di Breznev; è quella la Russia che Putin vuole restaurare e, semmai, quella precedente alla Rivoluzione di Ottobre. Le critiche a Lenin e alla sua politica non sono mancate e non appartengono certo al passato, ma si rinnovano regolarmente nei fatti. A nulla serve il richiamo alla denazificazione dell’Ucraina: se è vero che i riferimenti di Zelensky sono Bandera ed i suoi successori; se è vero, come è vero, che Svoboda, Sektor e Bilec’kyj, il comandante del Battaglione Azov, si sono distinti in ferocia nella battaglia di Mariupol del ’14 e per l’esibizione della loro simbologia nazista; se sono vere le loro successive efferate imprese ai danni della popolazione del Donbass; se tutto questo è vero, non si può certo dire che Putin si sia circondato di bolscevichi dediti agli interessi del proletariato. La Legione Imperiale, col suo progetto di Nuova Russia, addestra militanti stranieri di estrema destra più o meno come il Gruppo Wagner, altra formazione di aperta vocazione nazifascista. Anche le “amicizie” nazionali ed internazionali di Putin si distinguono per le loro dichiarate idee ed iniziative apertamente reazionarie. Due per tutte: il Patriarca Kirill e il premier ungherese Orban le cui rispettive idee ed imprese di governo non lasciano dubbi.

Dunque Putin ed il suo gruppo di comando, i suoi oligarchi, i suoi epigoni non sono i paladini del proletariato internazionale, quindi nemmeno di quello russo. E non si tratta certo di “astratte” questioni ideologiche: la condizione dei proletari russi parla chiaro tanto quanto quella delle classi medie e dei capitalisti russi.

Dall’altro lato l’associazione di briganti riuniti sotto le bandiere della Nato ha manifestato tutti i propositi di distruggere la Russia, e di diffondere e difendere la “democrazia”, ovvero la propria dominazione sull’universo globo, come ha sempre fatto in tutto il mondo, Usa in testa, dal ’45 ad oggi: una difesa a suon di bombe nucleari (Hiroshima, Nagasaki, a guerra già vinta), oceani di proiettili all’uranio impoverito in Iraq e Jugoslavia, nucleare tattico (sulla via da Kuwait City a Bassora), senza farsi mancare tutto il corredo preparatorio di lunghe e convincenti campagne propagandistiche, embarghi genocidi almeno quanto le guerre, falsi ritrovamenti di armi biologiche, individuazione di dittatori che spesso loro stessi avevano portato al potere.

Ma in casa di entrambi i contendenti cominciano a sorgere i primi movimenti di protesta, di dissociazione dai propri nemici che, come in tutti i paesi, sono i propri governanti, i propri capitalisti, i propri militaristi. Non abbiamo mai avuto dubbi, mai avuto torto nel dire, parafrasando Brecht, che “la voce che ci comanda è la voce del nostro nemico, e chi parla del nemico è lui stesso il nemico”. Per quanto spurii siano questi movimenti (ci torneremo su, evidentemente), essi restano per noi positivi perché non scendono in piazza per interessi particolari, per questioni di categoria, per questa o quella rivendicazione immediata, ma per opporsi ad un disegno politico bellicista, anche se ancora con un basso livello di coscienza del valore e della portata della propria stessa azione – che oggettivamente pone anche questioni di potere.

L’unica forza che può fermare la guerra, le guerre, si dimostra ancora una volta essere la forza dei proletari, la loro attività, il loro livello di coscienza e di organizzazione autonoma. In questa platea manca, ad oggi, il proletariato ucraino e, nelle condizioni attuali, non sarebbe possibile altrimenti: la guerra ha scavato un solco intorno al proletariato ucraino già provato dalle leggi antioperaie del governo Zelensky che, ancor prima degli eventi bellici, aveva immiserito un paese ricco di risorse a tutto vantaggio delle proprie classi possidenti. La guerra ha completato l’opera mettendo in opera una separazione ed una ostilità tra proletari ucraini e russi (e non solo!) che sarà difficile eliminare per anni e generazioni, e quest’aspetto da solo basterebbe a convincere chiunque della necessità di una posizione politica coerentemente internazionalista e schierata per classi sociali e non per nazioni. Chi vuole intendere intenda.

Senza abbandonarci a ripetizioni di quanto già detto altre volte, torniamo al discorso di Putin che, dopo il refrain antinazista e l’appello alla grande Russia, fa uno sforzo più analitico contro “…la politica aggressiva di alcune élite occidentali…” il cui scopo è dividere, indebolire e distruggere la Russia portando a termine quanto iniziato nel ’91, seminando russofobia e odio specie in Ucraina, e trasformandola in una piazza d’armi contro la Russia. Questa denuncia identifica i reali obiettivi del blocco Nato-UE per quel che riguarda la Russia come stato, ma la preoccupazione di Putin per il popolo ucraino “…trasformato in carne da macello e spinto alla guerra…” appare davvero ipocrita. Segue l’annuncio del referendum di adesione alla Federazione Russa che si svolgerà nel Donbass, e anche questa non è una novità assoluta. L’aspetto che ha destato molta attenzione è la chiamata dei riservisti che significa un impegno maggiore in termini di uomini, e si accompagna al silenzio cinico sulle perdite notevoli di giovani vite umane in questo conflitto. L’aver sostenuto, come Putin ha fatto a Samarcanda, che “finora la Russia non ha perso nulla”, è uno schiaffo alle migliaia di soldati morti sul campo di battaglia.

Ancora più importante è l’allusione alla minaccia nucleare. Secondo Putin le dichiarazioni di alti rappresentanti di stati aderenti alla Nato (vedi la Truss) e il bombardamento della centrale nucleare di Zaporizhzhia da parte dell’esercito ucraino e della Nato costituiscono una escalation verso il confitto nucleare, e quindi la risposta è che la Russia dispone di armi altrettanto notevoli che in alcune componenti superano perfino quelle che hanno i paesi della Nato. Anche in questo caso la risposta è da stato a stato, da potenza capitalistica nucleare a potenza capitalistica nucleare, essendo escluso dalla politica di Putin ogni possibilità (e intenzione) di rivolgersi ai proletari dei paesi della Nato perché si sollevino in massa contro i propri criminali governanti e i loro piani di guerra.

Qui una pausa di riflessione si rende necessaria perché gli Usa, molto prima dello scoppio del conflitto, hanno messo in atto una tattica mirata a spingere l’Europa a contrastare la politica della Russia ad ergersi a potenza di zona e alle sue mire egemoniche. Il punto in cui si è resa più evidente questa intenzione è stato l’aver obbligato Kiev a rifiutare il negoziato nelle primissime fasi dell’attacco russo. Anche la minaccia nucleare è stata posta dagli Usa e dalla Gran Bretagna con il furbesco ricorso all’accusa preventiva sostenendo che la Russia stava armando le sue testate. Il metodo di Colin Powell, l’agitatore della “provetta di Saddam Hussein”, non è stato abbandonato dai massimi briganti del mondo, nonostante ne sia stata dimostrata la falsità.

Il governo italiano, il nemico in casa nostra, tace del tutto sulla questione del ricorso alle armi nucleari. I politici (si fa per dire!) impegnati in campagna elettorale si guardano bene dal fare ogni accenno al problema e smuovere le acque. I ministri degli Interni e degli Esteri non dicono che da più di un anno il Pentagono ha secretato ogni dato sugli armamenti nucleari distribuiti dagli Usa in tutto il mondo (è di ieri la decisione di segretare anche i dati del bilancio militare statale), ma nonostante ciò “il Messaggero” ci dice poche ore fa che in Italia ci sono 113 bombe nucleari e 100 ad idrogeno distribuite in varie basi Nato sul territorio nazionale: il più grande arsenale nucleare d’Europa, a detta di alcuni esperti. Il giornale ci dà qualche altra notizia di notevole interesse: gli ordigni non sono italiani (com’è invece per altri paesi) ma appartengono del tutto “…agli Usa e possono essere utilizzati solo sotto comando della Nato…” [le sottolineature sono nostre]. Questo significa che a decidere sull’utilizzo di queste armi saranno anche lo stato e il governo italiano che della struttura della Nato, delle strategie e delle “imprese” della Nato sono parte integrante da sempre, e non semplici lacchè.

L’Italia, nonostante i capolavori d’ipocrisia di Draghi e non solo, è una piazza d’armi al pari dell’Ucraina, al pari della Polonia, con un ruolo esplicito di retrovia. Pensiamo che sia cosa da poco?

Il pungolo rosso

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