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(10 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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Chi aggredisce l’“Europa”?

Prima parte

(3 Ottobre 2022)

perché la russia non era socialista

Siamo in presenza di uno svolto decisivo in cui crisi economica, crisi sociale, crisi politica e guerra convergono in un tutto denso di incognite e prospettive. Non è impresa facile districarsi tra tutti i fattori che determinano i nuovi scenari e individuare, almeno approssimativamente, la direttrice degli eventi in funzione dei loro inevitabili esiti catastrofici. In questo compito ci viene in aiuto il fondamentale lavoro di sistemazione dei capisaldi del marxismo rivoluzionario, compiuto dalla Sinistra comunista “italiana” nel secondo dopoguerra, che ci offre alcune linee di lettura. Una di queste riguarda la direttrice storica dell'”aggressione all'Europa”, espressa nell'omonimo articolo uscito nel 1949 su quello che allora era il nostro organo teorico, Prometeo, in cui si dava una valutazione del differente peso relativo degli imperialismi russo e americano.

Russia e America, differenti “concentramenti di potenza”
Fu, questo, uno dei temi che alimentarono la polemica interna che, agli inizi degli anni Cinquanta, portò alla scissione nel Partito Comunista Internazionalista e alla nascita del Partito Comunista Internazionale – Programma comunista. Poiché riteniamo che quella discussione fornisca elementi utili a valutare la portata e il significato dell'attuale scontro tra imperialismi, riproduciamo di seguito due passaggi sull'argomento, tratti dalla corrispondenza tra Onorio (Onorato Damen) e Alfa (Amadeo Bordiga):

“Non è possibile al partito rivoluzionario non praticare una politica di equidistanza, soprattutto se in periodo di guerra guerreggiata, tra un paese a massimo sviluppo capitalistico come gli U.S.A. e la Russia ad economia che tu fai tendere al capitalismo; potrebbe divenire la premessa teorica per nuove esperienze intermediste; in ogni modo verrebbe a turbare profondamente i termini della visione strategica del partito della rivoluzione nel corso della prossima guerra imperialista.” (Onorio ad Alfa, 6 ottobre 1951).

“Prendo prima la tua osservazione relativa alla pag. 3. Domandi: proprio soltanto l'America tende ad assoggettare etc.? Ma tu stesso hai riportato l'inciso mio: secondo la natura e la necessità di ogni grande concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione e di potere. Dunque non solo l'America, ma ogni concentramento. Dove e quali nei successivi momenti storici tali concentramenti? Qui il punto. Portiamo in conto: territorio e sue risorse, popolazione, sviluppo della macchina industriale, numero del proletariato moderno, possessi coloniali come materie prime, riserve umane, mercati, continuità storica del potere statale, esito delle guerre recenti, progresso nel concentramento mondiale delle forze sia produttive che di armamento. Ed allora possiamo concludere che, nel 1900, 5 o 6 grandi potenze erano sullo stesso fronte o quasi; nel 1914, poniamo si fronteggiavano Inghilterra e Germania; oggi? Esaminati tutti quei fattori si vede che l'America è il concentramento n. 1 nel senso – oltre tutto il resto, ed oltre la probabilità di vincere in ulteriori conflitti – che sicuramente può intervenire ovunque una rivoluzione anticapitalista vincesse. In questo senso storico dico che oggi la rivoluzione, che non può che essere internazionale, perde il tempo se non fa fuori lo stato di Washington. Ciò significa che ne siamo ancora lontani? Okei.” [corsivo nostro – NdR] (Alfa ad Onorio, 9 luglio 1951).
***
I nostri lavori di partito degli anni Cinquanta individuavano le forze storiche che presiedevano alla duratura conservazione del modo capitalista di produzione nelle vittoriose formazioni statuali anglosassoni, Stati Uniti in primis, rafforzate dalla riduzione a vassalli dei capitalismi sconfitti. Quanto alla natura economica e sociale della Russia allora sovietica, e dei vassalli suoi, se ne affermavano con chiarezza i tratti capitalistici e il ruolo internazionale controrivoluzionario, smontando qualunque illusione sulla capacità di quelle forze di competere, pacificamente o meno, con lo sviluppo impetuoso dei capitalismi d'occidente a partire da un modello economico e sociale presunto alternativo e superiore, “socialista”, che fosse di riferimento per i popoli “colorati”, che, in quell’epoca, stavano tentando di scrollarsi di dosso il dominio imperialista. La storia fece il suo corso e, alla fine della bella sfida (che tutto fu fuorché pacifica), ciò che restava dello Stato che aveva tradito e usurpato l'Ottobre rosso pacificamente collassava sotto la pressione delle dinamiche democrazie d'Occidente, ben più attrezzate di quello in termini capitalistici e superiori per statistiche di produzione e reddito, avendo lo Stato russo accettato da tempo di combattere con le armi del nemico e sul terreno del nemico – pienamente capitalistico – una battaglia impari.

L'effettivo sviluppo storico si è occupato di dare il responso su chi, sulla questione discussa nella corrispondenza tra Onorio ed Alfa, si ponesse allora nella corretta prospettiva marxista. Lo stesso richiamo dovrebbe valere per orientarsi oggi sul problema della guerra in corso, e non correre il rischio di limitarsi a una generica opposizione alla guerra imperialista che avrebbe ben poco a che vedere con gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin. Non intendiamo per questo sottovalutare il pericolo (segnalato da chi sostenne allora la tesi dell'“equidistanza” del partito comunista rispetto a qualsivoglia imperialismo, a prescindere dai suoi connotati di potenza) che il riconoscimento del principale nemico da battere potesse portare a smottamenti su posizioni frontiste e partigianesche. Il principio che i comunisti non parteggiano per e non si schierano in agglomerati di forze spurie rimane scolpito nella roccia.

Nel lontano 1946, e sempre su Prometeo, nel delineare le prospettive del dopoguerra, il nostro movimento aveva posto chiaramente la questione:

“Noi affermiamo senz'altro che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre interessanti tutto il mondo, ma di qualunque guerra, anche la più limitata, hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle forze sociali in campi limitati e nel mondo intiero, e sulle possibilità di sviluppo della azione di classe...”
(“Prospettive del dopoguerra in relazione alla piattaforma del Partito”, Prometeo, n.3, 1946).

Se dunque gli esiti di qualsivoglia conflitto, a più forte ragione se tra blocchi mondiali, decidono i percorsi e le sorti della lotta di classe, i comunisti non possono essere indifferenti alla vittoria dell'uno e dell'altro contendente e affidarsi unicamente al dato di fatto che entrambi sono forze di classe nemiche del proletariato.
A evitare fraintendimenti, nello stesso testo si precisavano “tre arbitrarie posizioni” che sarebbero potute discendere dalla premessa e che così sintetizziamo: la prima, che il proletariato si faccia ingannare dagli obiettivi, sempre nobilissimi, progressivi e financo “rivoluzionari”, che fanno da carburante ideale alle guerre borghesi; la seconda, che non tenga conto che a una vittoria militare può corrispondere una sconfitta politica e viceversa (Waterloo non impedì il trionfo delle forze borghesi in Europa e il fascismo sconfitto in guerra fu vittorioso nel generalizzarsi delle forme totalitarie di dominio di classe in tempo di pace); e infine che “quando anche le due soluzioni del conflitto siano apportatrici di diverse possibilità, sicuramente prevedibili e calcolabili per il movimento, la stessa utilizzazione di queste possibilità non può venire assicurata che evitando di compromettere nella politica dell'infeudamento opportunista, le energie principali di classe e le possibilità di azione del Partito”. Perno irrinunciabile, dunque, l'indipendenza del Partito e la salvaguardia del suo invariante programma integrale. Il pericolo di scivolare nell'opportunismo è scongiurato se il Partito mantiene la propria totale autonomia, non persegue obiettivi “intermedi” assieme ad altre forze politiche e, in caso di guerra, rispetta la consegna di non deflettere dal disfattismo radicale in casa propria, sia essa la casa di una borghesia imperialista dominante o di una vassalla. Il concetto è espresso a chiare lettere proprio nell’articolo “Aggressione all'Europa”. Citiamo:

“Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.” (Prometeo, n.13, agosto 1949)

Nella discussione che precedette la scissione del 1952, i gruppi del Partito che facevano capo a Onorato Damen equiparavano i due imperialismi che si spartivano il mondo del dopoguerra, attribuendo anzi all'URSS la forma capitalistica più avanzata storicamente quanto a centralizzazione e totalitarismo, e derivavano da questo giudizio la necessità di un atteggiamento di equidistanza o, si potrebbe dire, di indifferentismo, in rapporto agli esiti di uno scontro tra i due blocchi. Riportiamo il punto dell'ordine del giorno del II congresso del Partito comunista internazionalista, che sancì la scissione:

“Di fronte al concentramento russo di capitale, di forza, di produzione e di potere, dichiara che esso è, quanto quello americano, una forza egemonica sul piano delle forze capitaliste in urto sulla scena mondiale.” (https://www.leftcom.org/files/2019-quaderni-st07.pdf, p.33.)

Per contro, i compagni che avrebbero dato vita a Il programma comunista, individuata nella immane concentrazione di forza controrivoluzionaria dell'imperialismo americano il pilastro che reggeva l'impalcatura del dominio capitalistico nel mondo, ne traevano la necessaria conclusione che solo la sua liquidazione avrebbe posto le condizioni per il crollo dell'intero sistema, mentre ogni sua ulteriore vittoria sarebbe stata foriera di tempi ancor più duri per il proletariato di ogni luogo, per un periodo “misurabile a decenni o generazioni”. Il fattore dirimente era rappresentato dalla valutazione della natura economica e sociale dell'URSS, pienamente capitalistica per Onorio, tendente al capitalismo per Alfa:

“Camminare verso il capitalismo, dove le basi sono ormai edificate (come in America) significa camminare in senso inverso al socialismo. Ma camminare verso il capitalismo, ove queste basi storicamente mancano o sono incomplete, significa l’opposto, ossia camminare nel senso che conduce al socialismo. È chiaro che il secondo caso allude alla Russia, e ancora più agli arretrati Stati satelliti e alleati. E quindi costoro non vanno vituperati per la politica economica del potere, ma per la politica anti-classista del partito, che spaccia l’andare al socialismo per lo stare nel socialismo, con incalcolabili effetti anti-rivoluzionari in tutto il sistema internazionale”. (“Deretano di piombo, cervello marxista”, Il programma comunista, n.19/1955 – disponibile sul nostro sito).

Dalla diversa valutazione del concentramento di potenza rappresentato dall'URSS allora e in prospettiva storica, si ricavava il seguente indirizzo tattico:

“Sconfessione di ogni appoggio al militarismo imperiale russo. Aperto disfattismo contro quello americano” (in “Per la riorganizzazione internazionale del movimento rivoluzionario marxista”, Il programma comunista, n. 18/1957 – disponibile sul nostro sito) (1).

Il crollo dell'URSS, avvenuto senza uso di missili né invasioni né “rivoluzioni”, confermò quanto sostenuto dalla nostra corrente circa la natura dell'imperialismo sovietico, sintetizzata nella definizione quasi ossimorica di “imperialismo debole”, data fin dal 1977:

“La struttura commerciale e il livello di indebitamento permettono di dire che l'URSS, mentre svolge una politica imperialistica e detiene una corrispondente area di influenza politica ed economica, toccatele nell'ultima grande ripartizione del pianeta fra ladroni imperialistici, è tuttavia un 'imperialismo debole' nella misura in cui hanno per essa un carattere tutt'affatto secondario l'esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo, sulla quale molto più saldamente che sul semplice prepotere militare fonda il suo dominio l'imperialismo statunitense. Persino al livello meno evoluto della semplice esportazione di merci, la Russia non è ancora in grado di tenere validamente testa a molti concorrenti di assai minore peso politico ed anche economico quanto a produzioni assolute. All'opposto, essa si presenta sui mercati finanziari mondiali in cerca di capitali, e su quelli commerciali come acquirente di prodotti industriali.” (“La Russia si apre alla crisi mondiale”, 1977, riprodotto in Perché la Russia non era socialista, Quaderni del Partito comunista internazionale, n.10, 2019).

Pur con tutti i suoi limiti, il gigante “sovietico” rappresentò per oltre quarant'anni un argine all'espansione mondiale del capitalismo atlantico, sottraendogli fisicamente un territorio vastissimo ed esercitando un'influenza politica e ideologica, oltre che economica, su Paesi appena agli albori di un moderno sviluppo, e proponendosi loro come alternativa alla soggezione “neocoloniale” all'Occidente. Con il crollo “sovietico”, dai primi anni Novanta del ‘900 il mondo intero divenne aperto terreno di caccia per i capitali occidentali affamati di valorizzazione, mentre l'enorme apparato politico-militare statunitense proliferava e si estendeva, con le buone e con le cattive, a tutti i gangli vitali di un interscambio di merci e capitali, via via sempre più vasto e interconnesso.

In questo contesto di forsennata conquista e predazione, la traiettoria imperialista per la Russia ex-sovietica sembrava definitivamente spezzata dalla perdita della sfera di influenza in Europa orientale, dalla svendita delle proprie immense risorse alle agenzie d'Occidente per tramite di una borghesia sbocciata dai ranghi dell'alta burocrazia “sovietica”, dal tracollo sociale, dalla prospettiva della dissoluzione della federazione in un mosaico di nuovi Stati indipendenti. Il proletariato russo pagò un prezzo durissimo. (2)

Dopo il crollo del 1990, il processo di liquidazione di ciò che restava dello Stato nato dalla rivoluzione d'Ottobre non fu conseguenza di un confronto militare, ma effetto della enorme concentrazione di potenza rappresentata dal capitalismo USA. Nell’articolo “Aggressione all'Europa”, si metteva in conto la possibilità che il “vassallaggio” della Russia agli Stati Uniti avvenisse non per effetto di una sconfitta militare, ma nella forma della corruzione della “organizzazione dirigente russa” :

“Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni [...]”.

È precisamente quanto si verificò nel terribile decennio finale del secolo scorso quando, sotto il governo di El'tsin, la Russia fu sottoposta a saccheggio dall'Occidente capitalista, e una rinnovata classe dirigente venduta si arricchì a dismisura a spese di una popolazione esposta alle delizie del mercato liberato dai “lacci e laccioli” del controllo pubblico. Finalmente i proletari russi conobbero, con la nuova miseria, la vera democrazia.

Alla fine degli anni Novanta, tutto sembrava preludere alla genuflessione definitiva anche della Russia all'unico imperialismo dominante il globo. L'implosione dava conferma inequivocabile di quanto la nostra corrente aveva sostenuto intorno alla natura economica e sociale dell'URSS: nel suo progredire verso il capitalismo, era crollata per l'azione dei fattori caratteristici di una società pienamente mercantile, senza la quale né la sconfitta in Afghanistan né le manovre degli imperialismi avversari – che pure ebbero un ruolo – avrebbero potuto tanto. A provocare il crollo furono la formidabile pressione dei mercati mondiali sulla ancor fragile struttura capitalistica dell'URSS e dei suoi satelliti, la progressiva penetrazione di merci e capitali occidentali entro i confini del suo vasto spazio protezionistico, cui si accompagnava, come portato egemonico, quella relativa agli stili di vita e al modo di pensare della “civiltà occidentale”.

Tanto la propensione dell'imperialismo statunitense al dominio globale quanto la relativa debolezza dell'imperialismo russo trovarono conferma negli eventi della storia, ma erano già chiari alla nostra corrente in tempi di pieno “bipolarismo”:

“Coloro che sono abbacinati dall'imperialismo russo fino a dimenticare la tremenda forza di dominazione ed oppressione della potenza statunitense, rischiano di cadere vittime delle deviazioni democratiche e liberaloidi che sono il peggior nemico del marxismo. Non a caso la predicazione liberal-democratica ha il suo pulpito nella sede del massimo imperialismo odierno. Essi non vedono come la Russia, il cui espansionismo si volge tuttora nelle forme del colonialismo (occupazione del territorio degli Stati minori), è ancora alla fase inferiore dell'imperialismo, l'imperialismo degli eserciti, cioè il tipo che per due volte è stato sconfitto nella guerra mondiale[...] Tutti gli Stati esistenti sono nemici del proletariato e della rivoluzione comunista, ma la loro forza non è eguale. Quel che conta soprattutto per il proletariato, il quale vedrà coalizzarsi contro di lui tutti gli Stati del mondo appena si muoverà per conquistare il potere, è prendere coscienza della forza del suo più tremendo nemico, il più armato di tutti e capace di portare la sua offesa in qualunque parte del mondo” (“Imperialismo delle portaerei”, Il programma comunista, n.2/1957)

Le deviazioni democratiche e liberaloidi, di cui alla caduta dell'URSS si volle celebrare il definitivo trionfo con la pomposa formula della “fine della storia”, rimangono tuttora il peggior nemico del marxismo, con immutata carica ideologica e col sostegno di un colossale apparato propagandistico in grado di spacciare la più spudorata azione di assoggettamento, ove necessario culminante nella devastazione bellica, per una meritoria azione di liberazione e progresso, nella migliore tradizione del vecchio colonialismo portatore di civiltà ovunque vigesse arretratezza e ignoranza.

L'Occidente pretende ancor oggi di imporre al mondo intero un'ideologia quanto mai logora e decadente, che associa al liberismo economico un'idea di “libertà” tutta centrata sull'individuo e sui suoi sconfinati “bisogni” da soddisfare nel mercato; libertà solo apparentemente in contrasto con l'introduzione nelle società “libere e democratiche”, segnate da crescente violenza e spinte disgregatrici, di forme di controllo sociale totalitarie malamente mascherate dall'ipocrisia mediatica. Quale effetto del sistematico ribaltamento della verità storica e del sistematico travisamento di fatti che altrimenti smonterebbero i racconti ufficiali, non sorprende che in difesa dell'Ucraina aggredita siano fatti passare per eroi patriottici e difensori della libertà gli odierni seguaci dell’ultra-nazionalista e filo-nazista ucraino Stepan Bandera (1909-1959), emuli dei collaborazionisti massacratori di ebrei e di proletari russi e polacchi durante l'occupazione tedesca (3).

Non sorprende neppure che oggi, in Germania, i più sfegatati sostenitori della guerra contro l'“autocratica” Russia si trovino nel “sinistrissimo” partito dei Verdi, già radicalmente pacifista e detentore del dicastero degli Esteri nel governo di coalizione. La Ministra degli esteri green sembra convinta dell'idea che, schiacciata la Russia, si prospetti il tramonto dei combustibili fossili – di cui la Russia è colpevolmente esportatrice – e con le bombe si apra la via maestra al mondo floreale delle energie rinnovabili. Simili idioti si trovano ovunque, nel variegato panorama delle sinistre europee, e l'unica difficoltà consiste nel distinguere tra questi i veri, utilissimi idioti, dai menarrosto prezzolati (in tempi di ingegneria genetica non è esclusa l'ibridazione tra i due tipi). L'abbiamo sempre sostenuto: sotto la patina del pacifista si cela il guerrafondaio, sotto quella del democratico cova il fascista... Che i falsi opposti siano destinati a unirsi nell'abbraccio antiproletario è una necessità storica di cui la nostra Sinistra Comunista ha sempre segnalato e che oggi sempre più spesso trova riscontro nei fatti. Buon segno per chi sa leggere negli apparenti paradossi l'inappellabile giudizio della Storia.

Limiti dell'imperialismo russo attuale

Per concludere sul “concentramento di potenza” rappresentato dagli imperialismi in campo, non c'è alcun dubbio che gli Stati Uniti rappresentino tuttora e di gran lunga quello dominante, tanto da potersi permettere, in qualità di stato rentier alla scala globale, un perenne e crescente deficit con l'estero a garanzia del flusso continuo di merci e capitali attraverso continenti ed oceani.

Come possiamo definire la natura dello Stato russo oggi? A cavallo tra la fine del secolo scorso e l'attuale, a scongiurare il rischio che la Russia scomparisse come autonomo “concentramento di potenza”, la borghesia russa ha ripreso il controllo del potere statale con l'azione dei governi di Putin, che hanno impresso una svolta istituzionale autoritaria e riaffermato il legame tra Stato e grandi gruppi monopolistici su nuove basi, ridando una prospettiva strategica al concentramento di potenza russo.

La svolta “bonapartista” voluta dalle forze sociali ed economiche che Putin rappresenta non ha incontrato una forte resistenza nel proletariato, nelle cui file era fresca la memoria dell'esperienza “lacrime e sangue” vissuta nel decennio in cui imperversavano le meraviglie della democrazia occidentale. D'altra parte, il nuovo corso ha imposto anche una forte limitazione alle faide interne alle oligarchie e all'azione indipendente dei settori oligarchici più legati ai centri finanziari occidentali, protagonisti negli anni Novanta di una imponente fuga di capitali nei paradisi fiscali esteri. La stabilizzazione ha favorito un significativo flusso di rientro nell'ambito di un generale aumento dei movimenti di capitale da e per l'estero, in forma di investimenti diretti. Va sottolineato che il flusso in entrata “si è concentrato soprattutto nell’energia e nelle materie prime, nel commercio al dettaglio e in altri servizi, con una modesta partecipazione dei settori industriali a eccezione del comparto alimentare, in netto contrasto con la Cina.” (4)

Sono dati significativi per definire la natura del capitalismo russo e i suoi limiti. Se consideriamo l'esportazione di capitali, tratto caratteristico dell'imperialismo, risulta che gli investimenti diretti esteri russi, pur notevolmente cresciuti dagli anni Novanta, nel 2021 ammontavano a circa il 4% di quelli americani (dati UNCTAD), ed erano indirizzati in un'area in buona parte coincidente con i territori ex “sovietici”. La rendita di cui si nutre il flusso di investimenti in entrata si è concentrata prevalentemente sui settori energetici e delle materie prime, trascurando quello industriale, dove permane la dipendenza dalle produzioni estere.

Tutti questi elementi confermano che la definizione di imperialismo debole, attribuita dalla nostra corrente all'URSS, in buona parte si attaglia tuttora alle misure della potenza russa, oggi meno esposta al debito estero e più dinamica nell'export di capitali, ma ancora fortemente dipendente dai prodotti industriali di importazione e dalla rendita energetica. L'ambizione russa ad assumere nuovamente un ruolo imperialista già rivestito in passato (con molti limiti, tant'è che non ha retto il confronto ed è collassata) ha dalla sua una significativa capacità militare non supportata da una adeguata base economica, dipendente com'è dalle esportazioni di energia e materie prime e dai loro prezzi estremamente variabili.

Con questi presupposti, l'imperialismo russo – proiezione degli interessi dei grandi gruppi monopolistici interni – è in grado di esercitare un'influenza entro un'area a ridosso dei pur vasti confini della Federazione, ben lontana da ambizioni di egemonia oltre uno spazio ritenuto di “sicurezza”, per quanto piuttosto esteso. Come ai tempi dell'URSS, “l'esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo” rimane un carattere secondario rispetto ai tratti dominanti da imperialismo degli eserciti. L'intervento in Ucraina, come in passato quelli in Caucaso e nell'Asia centrale, ne è la conferma e, per quanto le iniziative militari in Siria e in Africa settentrionale diano alla Russia una proiezione che va ben oltre i confini di potenza regionale, i loro obiettivi rimangono dettati principalmente da considerazioni strategiche e militari, di risposta e contenimento alla pressione dell'imperialismo USA. La minaccia da Occidente, che in Ucraina ha senz'altro connotati militari nell'allargamento della NATO verso Est e si avvale anche di un formidabile sistema di intelligence (5), è funzionale a preparare il terreno alla penetrazione finanziaria, al saccheggio delle risorse agricole, minerarie ed energetiche ucraine, allo sfruttamento bestiale del proletariato di quel Paese, e in quanto tale ha connotati pienamente imperialisti (6).

Considerati i limiti dell'imperialismo russo, l'”operazione militare” in Ucraina sarebbe stata un'iniziativa suicida se il contesto generale non fosse già mutato, se non fossero già saltati i vecchi equilibri tra avversi concentramenti di forze e se non si appoggiasse a una prospettiva strategica più ampia, di respiro eurasiatico. Il progetto di integrazione eurasiatica fu annunciato dallo stesso Putin nel 2015, preceduto dalla fondazione dell'Unione Economica Eurasiatica (2014, l'anno stesso del colpo di stato di Maidan), ed è in via di realizzazione attraverso i numerosi progetti infrastrutturali di cui la Cina è il principale promotore e finanziatore (7).

Nel suo perenne oscillare tra Oriente e Occidente, la Russia si vede oggi respinta dall'Europa e gettata nelle braccia dell'emergente potenza cinese. Se infatti l'imperialismo russo ha i limiti “militari” che abbiamo detto, “ La Cina ha tutte le caratteristiche classiche dell'imperialismo come delineato da Lenin: capitalismo statale-monopolistico, esportazione di capitale, una spinta all'espansione per conquistare mercati stranieri e sfere d'influenza, una politica estera espansionistica volta ad ottenere il controllo delle rotte commerciali, ecc. L'imperialismo russo ha un carattere diverso. I suoi obiettivi sono più limitati e dettati principalmente da considerazioni strategiche e militari.” (8).
Il consolidamento del legame tra Russia e Cina è il fattore che sta imprimendo una svolta verso nuovi scenari.

Partito comunista internazionale
(il programma comunista – kommunistisches programm – the internationalist – cahiers internationalistes)

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