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(21 Luglio 2012) Enzo Apicella

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La crisi attuale come reset

(8 Ottobre 2022)

È ragionevole pensare che con il 2007 si sia consumato un passaggio d’epoca: che si sia chiusa la bubble epoque, l’èra in cui debito e finanza riuscivano a nascondere e tamponare una crescita asfittica e un’insufficiente valorizzazione del capitale. Se questa ipotesi è corretta, ne discende che le tre funzioni della finanza viste sopra non sono destinate a tornare a funzionare come prima della crisi. Nel caso, le implicazioni saranno molto importanti: il peso del calo dei redditi da lavoro sulla domanda interna si farà sentire a lungo, ristrutturazioni violente colpiranno i settori con eccesso di capacità produttiva, e il profilo rischio/rendimento delle attività speculative peggiorerà. Purtroppo, l’intero establishment occidentale ha scommesso su un’ipotesi diversa: ossia che il modello che si era inceppato potesse tornare a funzionare come prima. E ha agito di conseguenza, ponendo in essere: 1) un’enorme socializzazione delle perdite sia negli Stati Uniti che in Europa e in Giappone (servita in primo luogo a ridare fiato a un sistema finanziario internazionale che a fine 2008 era in bancarotta), 2) politiche monetarie ultraespansive e 3) l’enorme espansione dei bilanci delle banche centrali, finalizzata ad alleggerire le posizioni debitorie e a dare alimento ai mercati obbligazionari e azionari, incentivando così la creazione di nuovo debito e le attività finanziarie e speculative – in breve, la creazione di un’ulteriore ingente massa di capitale produttivo d’interesse.

In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: «nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al PIL, era del 356%» 70 . Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l’idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza – ossia dal capitale produttivo d’interesse...

Il risultato di tutto questo è riassumibile in poche cifre: il debito complessivo di Stati, società non finanziarie e famiglie è cresciuto di 72 trilioni di dollari dalla fine del 2007, e nel giugno 2017 (ultimo dato disponibile [al 2019]) era pari al 236% del prodotto interno lordo. Il debito pubblico ha raggiunto i 60 trilioni di dollari ed è più che raddoppiato rispetto al 2007; questo non ha avuto come contropartita la riduzione del debito privato: al contrario, il debito delle società non finanziarie è più che raddoppiato, raggiungendo i 66 trilioni di dollari. E soprattutto, a fronte di tutto questo, i tassi di crescita nei paesi industrialmente avanzati restano insoddisfacenti e comunque molto meno che proporzionali rispetto all’espansione del debito...

Conclusioni: quattro soluzioni per un problema.

1. Il riavvio. La soluzione “riavvio dopo l’errore di sistema” del 2007 non sembra in definitiva produrre i frutti sperati. E la speranza di poter tornare alla crescita facendo leva sul debito e sulla finanza (ossia sul capitale produttivo d’interesse) secondo alcuni economisti ha già creato i presupposti per la prossima crisi finanziaria...

2. Lo shift. Una ... soluzione è rappresentata dall’iniziativa cinese che va sotto il nome di Nuova Via della Seta (Belt & Road Initiative), e che è più propriamente un insieme di rotte su terra e per mare per lo sviluppo dei commerci tra Europa e Asia. Le rotte terrestri, in particolare, passerebbero per aree sottosviluppate quali i paesi dell’Asia Centrale riportandole su un percorso di sviluppo. [Fallita, non solo per criticità interne alla stessa proposta, soprattutto per l'opera di sabotaggio degli USA].

3. Il reset. Un’altra possibilità è un reset drastico: la soluzione imperniata sulla distruzione fisica di capitale. In effetti dall’ultima crisi di entità paragonabile all’attuale, quella del 1929, si uscì soltanto con una guerra mondiale...

4. Cambiare il sistema. Una quarta e diversa opzione è legata al recupero di una dimensione spesso trascurata della teoria di Marx: l’individuazione del carattere ambivalente della crisi. Da un lato, la crisi è strumento necessario al modo di produzione capitalistico per risolvere un suo stato di squilibrio (derivante da un eccesso di capitale non in grado di valorizzarsi adeguatamente). Dall’altro lato, aspetto che Marx esplicitò nei Grundrisse, essa è sintomo del carattere transeunte e non definitivo del modo di produzione capitalistico:

"... nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale".

L’accettazione di una lettura “sintomatica” della crisi del 2007 come un “errore di sistema” ha precise implicazioni tanto sul piano teorico quanto su quello pratico: significa riavviare la ricerca sulla possibilità di un “livello superiore di produzione sociale” [il comunismo] e rilanciare una prassi finalizzata al suo conseguimento [la rivoluzione proletaria].

[Estratti da Vladimiro Giacché, Capitale produttivo di interesse e “finanziarizzazione” dagli anni Ottanta a oggi. Un’analisi a partire dai manoscritti 1863-1865 di Marx per il terzo libro del Capitale (2019)].

Sami

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