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Buon compleanno Marx

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D. Popovic – IL FATTO DECISIVO – Lettera a C. Rakovsky

(14 Ottobre 2022)

Dusan Popovic

Dusan Popovic

Negli ultimi mesi, la condizione della Serbia nella Prima guerra mondiale e la valutazione che Lenin ne ha fornito sono state molto spesso strumentalizzate da alcuni falsi internazionalisti – la cui presunzione si è rivelata inversamente proporzionale alla loro onestà intellettuale – per cercare di legittimare con rimandi autorevoli e accomodati il loro precipitarsi a tutta forza – e a testa bassa – nel fango socialimperialista nel corso della guerra imperialista in Ucraina [1].

Nell’intento di dimostrare che l’“elemento centrale” dello scontro in atto in Ucraina sarebbe la lotta di una nazione dipendente contro un’aggressione imperialista, vorrebbero far passare l’idea che, per Lenin, se fosse rimasta una guerra combattuta solamente da Serbia e Austria-Ungheria, sic et simpliciter la guerra serba avrebbe avuto un carattere nazionale e progressivo. Questa è la prova dell’astuta disonestà di chi forza il parallelo con l’attuale conflitto russo-ucraino, nel quale effettivamente, sul campo, si fronteggiano gli eserciti di due Paesi, dei quali uno, l’Ucraina, è, sulla carta, economicamente e militarmente più debole. Eppure, ad una lettura più attenta – o dalle intenzioni migliori – ci si avvede che Lenin non subordinava un eventuale appoggio alla guerra serba da parte del movimento operaio internazionale soltanto alla concreta natura sociale progressiva del movimento nazionalista serbo, o soltanto alla circostanza che questa guerra risultasse “isolata”, ovvero che non fosse “collegata con la guerra europea[2]”, ma anche e soprattutto alla sua mancanza di collegamento con “gli avidi scopi di rapina dell’Inghilterra, della Russia, ecc.[3]” Dunque, seppure riconosce, nella guerra austro-serba, la presenza di un “elemento nazionale” all’interno della Prima guerra imperialistica mondiale, cionondimeno Lenin ci ricorda che la dialettica marxista “proscrive […] l’esame isolato, vale a dire unilaterale e mostruosamente deformato d’un oggetto. Il fattore nazionale della guerra serbo-austriaca non ha e non può avere alcuna seria importanza nella guerra europea[4]”, e non soltanto perché la guerra è europea e coinvolge altre nazioni imperialistiche, ma perché, se anche il conflitto fosse rimasto circoscritto ad Austria e Serbia, “dietro la Serbia c’è la Russia[5]”, perché “dietro il nazionalismo serbo si erge l’imperialismo russo[6]”. L’“isolamento” che ipotizza Lenin in riferimento alla Serbia – e che farebbe della guerra il proseguimento del suo movimento nazionale – non è soltanto isolamento da una guerra che coinvolge altre potenze, ma altresì isolamento dagli interessi imperialistici di queste potenze, quand’anche non fossero direttamente belligeranti.

Esiste oggi in Ucraina un movimento nazionalista progressivo? Una “giovane” borghesia rivoluzionaria? È un’interpretazione di cui “non contestiamo la legittimità, quanto piuttosto la serietà”, un’interpretazione che va dimostrata, dati alla mano, altrimenti si galleggia nello stagno della retorica opportunista. E l’elemento nazionale dell’attuale guerra accelerata dall’aggressione russa – elemento che si manifesta in ogni guerra imperialista – è il “fatto decisivo” che permette di comprendere la natura del conflitto e di impostare una politica rivoluzionaria del proletariato?

Con i compagni di Prospettiva Marxista abbiamo più volte illustrato lo strettissimo collegamento dell’”isolata” Ucraina con gli “avidi scopi di rapina” dello schieramento imperialistico (in primis degli USA) contrapposto all’altrettanto rapace imperialismo russo; la subordinazione economica, militare e politica dello Stato borghese ucraino agli interessi imperialistici che muovono i fili di questo conflitto.

Ebbene, far mostra di riconoscere questi innegabili dati di fatto e al tempo stesso sminuirne intenzionalmente l’importanza, omologando la propria narrazione della guerra alla vulgata dello schieramento imperialistico che sostiene l’Ucraina – del quale, guarda che strani scherzi gioca il caso, fa esattamente parte l’imperialismo di casa nostra – è socialimperialismo. Il rifiuto platonico di appoggiare le sanzioni anti-russe nonché l’invio di armi allo Stato Maggiore ucraino (un rifiuto che non costa molto, dal momento che la borghesia imperialistica di casa nostra non ha finora nemmeno pensato di chiedere a questi “internazionalisti” un qualsivoglia assenso alle proprie decisioni) non nega questo socialimperialismo, al contrario, lo conferma nel momento stesso in cui si fa appello al movimento operaio internazionale per sostenere nella “resistenza” ucraina di fatto uno degli schieramenti imperialistici contrapposti. A ciascuno il compito suo: alla borghesia le sanzioni e le armi, ai socialimperialisti mascherati da marxisti il tentativo di mobilitare ideologicamente il proletariato precisamente nel solco degli interessi della propria borghesia, ma, sia chiaro, senza concedere ad essa assolutamente nulla di più… dell’essenziale.

È così, senza nemmeno perdere troppo tempo in una critica minuziosa, che crolla miseramente la pietosa caricatura di una “difesa del marxismo” la quale, per giustificare teoricamente una posizione socialimperialista, è costretta a dipingere un quadro nel quale l’Ucraina sarebbe “isolata” nella sua lotta contro l’imperialismo russo – in quanto i soldati sul campo sono esclusivamente ucraini –; una pietosa caricatura che mostra di non concepire guerre imperialiste dagli obiettivi limitati, circoscritti, ottenibili con un dispiegamento limitato e circoscritto di forze, ed è costretta a sostenere l’assurdità che una guerra interimperialista, dunque una contrapposizione militare di interessi imperialistici, può concepirsi soltanto come guerra mondiale.

Ad ogni modo, qualsiasi tentativo di utilizzare fraudolentemente il caso serbo per giustificare l’abbandono di una conseguente posizione internazionalista in merito alla guerra imperialista in Ucraina, e per accreditare ed appoggiare una presunta “guerra di liberazione nazionale” ucraina, è definitivamente sventato dall’atteggiamento assunto dagli stessi socialdemocratici serbi che nel 1914, il giorno della mobilitazione, piuttosto che arruolarsi e chiamare a raccolta gli operai serbi per la resistenza anti-austriaca, decisero di opporre alla richiesta di approvazione dei crediti di guerra, e prima che questa diventasse mondiale, un netto rifiuto. Soli, in tutta la II Internazionale, insieme ai bolscevichi e ai socialisti bulgari. Gesto politico che valse al piccolo partito serbo ampi riconoscimenti dagli internazionalisti autentici.

Il testo che qui ripubblichiamo[7] mette in sufficiente evidenza la consapevolezza dei socialdemocratici serbi circa il potente intreccio di interessi imperialistici che impediva loro di considerare l’elemento nazionale serbo – l’elemento nazionale del loro paese, perdipiù brutalmente aggredito – come il “fatto decisivo” della guerra contro l’Austria e che gli consentiva di respingere come ingannevole qualsiasi comunanza d’interessi del proletariato serbo con la borghesia nazionale, il nemico in casa propria.

Una lezione di internazionalismo che ci arriva da militanti rivoluzionari che in alcuni casi hanno pagato la loro coerenza con la mobilitazione e la morte al fronte; una lezione che dovrebbero ripassare molti di coloro che – molto, molto lontani da qualsiasi fronte – pretendono di “difendere” un marxismo che offendono con ogni parola scritta o pronunciata. Se ci sarà altro “da aggiungere” o meno, non saranno loro a deciderlo.

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[…] Mi trovo a Nisch. Qui viene pubblicato dall’inizio della guerra il nostro giornale Radnicke Novine [8], che sono costretto a redarre da solo, poiché Lapcevic [9] abita a Skoplje dall’inizio della guerra.

Appena pubblicati alcuni numeri del nostro giornale dopo la dichiarazione di guerra, il governo decideva di sopprimerlo. Ma, appena dissipato il panico delle prime settimane, ne riprendemmo la pubblicazione. Dal mese di ottobre il giornale è stato pubblicato ininterrottamente fino ad oggi.

Non puoi immaginare le condizioni in cui siamo obbligati a lavorare! Ma tre grandi incitamenti sostengono le mie forze.

Innanzitutto il nostro alto ideale socialista che ci chiama a una lotta accanita e intransigente contro la barbarie universale dell’imperialismo capitalista.

Poi la morte del mio miglior amico, Tucovic[10], che mi ha causato un dolore ancora più profondo di quello che mi fece provare la morte del mio beneamato fratello, anch’egli caduto sul campo di battaglia. Tucovic era il mio miglior compagno di lavoro e la forza organizzatrice più attiva del nostro movimento. La sua morte è una perdita inesprimibile per il nostro movimento e un lutto costante per me personalmente. Ma nello stesso tempo questa morte mi ha dato un nuovo slancio per il lavoro e la lotta; e dopo aver trascorso la giornata in questa cameretta solitaria e scura, quando la sera rientro a casa mia, provo un conforto al pensiero che forse sono riuscito a far avanzare ancora di un passo la causa che sola vendicherà la morte del mio sventurato e grande amico.

Ciò che infine m’incoraggia a perseverare è che il nostro lavoro porta dei frutti. Radnicke Novine è letto in tutti gli ambienti e ha un’influenza autentica. Attualmente, durante il macello, mentre quasi tutti i nostri compagni sono sia sul fronte, sia nella tomba, Radnicke Novine ha raggiunto una tiratura che ha conosciuto solo nei migliori momenti d’anteguerra. Ancora una prova: la censura esiste in questo momento quasi esclusivamente a causa di Radnicke Novine. Attualmente è il solo giornale di opposizione in Serbia, e lo stato maggiore solleva quasi ogni giorno delle proteste presso il governo a proposito del nostro giornale[11]. Il che prova contemporaneamente che non facciamo alcuna, assolutamente alcuna concessione ai discorsi comuni e alle tendenze nazionaliste e guerresche. A questo proposito siamo, tutti, senza alcuna eccezione, solidali fin dal primo giorno di guerra. Il giorno stesso in cui fu decretata la mobilitazione, abbiamo riunito il comitato centrale, col nostro caro Tucovic, e in questa riunione abbiamo deciso chiaramente la nostra posizione dal punto di vista dei principi.

Ci era evidente che, per quanto riguardava il conflitto tra la Serbia e l’Austria-Ungheria, il nostro paese si trovava evidentemente in posizione difensiva. L’Austria conduceva una politica di conquista contro la Serbia molto prima che quest’ultima diventasse uno stato indipendente. Quanto all’attentato di Sarajevo, la colpa spetta senza dubbio alla Serbia ufficiale. Così che, formalmente, una parte della responsabilità della provocazione della guerra ricade sulla Serbia. Ma, in fondo, la Serbia difende la sua vita, la sua indipendenza, minacciate senza sosta dall’Austria, anche prima dell’attentato di Sarajevo. E se la socialdemocrazia era in diritto di votare in qualche parte per la guerra, ciò era senz’altro in primo luogo in Serbia.

Tuttavia, per noi il fatto decisivo fu che la guerra tra la Serbia e l’Austria era solo una piccola parte di un tutto, nient’altro che il prologo della guerra europea, universale; e quest’ultima – ne eravamo profondamente convinti – non poteva avere altro carattere che quello imperialista nettamente spiccato. E di conseguenza noi – come parte della grande Internazionale socialista e proletaria – abbiamo ritenuto che fosse nostro dovere urgente dichiararci decisamente contro la guerra. Non volevamo causare alcun contrasto nell’atteggiamento delle sezioni dell’Internazionale, ed è proprio per la nostra decisione che abbiamo, noi malgrado, provocato questo contrasto perché, ahimé!, quasi tutti gli altri partiti socialisti hanno votato per questa guerra!

Questo fu per noi un colpo morale terribile, il colpo più duro della nostra vita di militanti. Ma nonostante tutto non ci ha fatto per nulla vacillare, non ha scosso la nostra profonda convinzione di aver agito in senso socialista, unicamente socialista. Gli avvenimenti sopravvenuti in seguito hanno solo fortificato la nostra opinione su questa guerra. E alcuni mesi dopo abbiamo appreso con la più profonda gioia che alcuni dei migliori socialisti condividevano la nostra opinione…

Disgraziatamente abbiamo avuto troppo ragione. Questa guerra ha annientato la Serbia. È poco dire che il paese è decimato: la metà, e la migliore metà della nostra popolazione, è stata distrutta. Alle perdite della guerra se ne sono aggiunte altre, ancora maggiori, causate dalla febbre tifoidea e da altre epidemie che, a causa della nostra disorganizzazione amministrativa, dell’incuria e della corruzione burocratica, hanno falciato innumerevoli vittime. Quanto c’era di migliore, di più prezioso in Serbia, ora non esiste più. «La Grande Serbia non avrà serbi», questa frase è diventata adesso da noi un’espressione popolare. Il popolo è completamente esaurito. E tutti, tutti aspirano alla pace. Quando, tre mesi fa, Lapcevic pronunciava alla Skupština [12] un discorso in cui esaltava la pace e riprendeva il progetto socialista di una Federazione balcanica, l’intera assemblea rimase zitta; non un solo partito politico ha protestato contro questo vigoroso discorso. Si può dire che in quella circostanza e in quel momento il nostro partito esprimeva non solo la profonda convinzione e il desiderio appassionato delle grandi masse sofferenti, ma anche le aspirazioni della borghesia governante che, nella sua politica sciovinista, ha provato la disillusione più atroce.

Quasi tutte le forze del nostro paese, forze che erano mature non solo per la guerra ma anche per la rivoluzione, sono attualmente annientate, e ci sembra che di tutti i partiti il nostro ha subìto le perdite più pesanti. Dopo la guerra il nostro partito avrà senza dubbio con sé grandi masse. Ma non avrà militanti: tutti i nostri compagni coraggiosi e con un’educazione profondamente socialista, che avevano lottato con tanta passione e devozione e con un tale successo, non sono più. Tutti, con loro Tucovic, dormono nelle loro tombe, e non sentiremo più la loro voce… Quanto a noi – quelli che restano ancora in vita – continueremo la loro lotta malgrado la ferita inguaribile dei nostri cuori.[13]

NOTE

[1] Cfr. M. Ferrando, In difesa del marxismo. Risposta alle polemiche contro il PCL sulla guerra in Ucraina, http://www.pclavoratori.it, 1 aprile 2022.

[2] Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale, in Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2006, pp. 68-69.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5]
Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, in Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2006, p. 171.

[6] Ibidem.

[7] La lettera di Dušan Popovic a Christian Rakovsky, del 1915, è parzialmente riportata nel testo di A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della Prima guerra mondiale, Jaca Book, Milano, 1979, pp. 230-232. Dušan Popović (6 gennaio 1885 – 8 novembre 1918) è stato un giornalista, pubblicista e politico serbo, nonché segretario del Partito Socialdemocratico Serbo. Dal 1908 al 1912, Popovic fu docente presso la scuola di partito di Belgrado. Insieme a Dimitrije Tucovic, lanciò il giornale Borba, quindicinale del SSDP, pubblicato tra il 1910 e il 1914. Popovic emigrò dalla Serbia occupata nell’estate del 1917. Entrò in disaccordo con il comitato della SSDP a Parigi, che sosteneva l’Intesa nella Prima Guerra Mondiale. Scrisse al comitato nell’agosto del 1918, sostenendo che la guerra era combattuta con obiettivi imperialisti da entrambe le parti. Popovic sostenne la Rivoluzione russa, come “la migliore garanzia per la pace nel mondo” e “l’embrione di una nuova Internazionale”.

[8] Giornale dei Lavoratori.

[9] Dragutin “Dragiša” Lapcevic (27 ottobre 1867 – 14 agosto 1939) è stato un politico, giornalista e storico serbo. Fu uno dei fondatori, insieme a Dimitrije Tucovic, del Partito Socialdemocratico Serbo (1903-1918). In polemica con l’ala sinistra del partito, guidata da Dimitrije Tucovic, Lapcevic adottò spesso posizioni centriste e opportuniste. Dal 1905 al 1908 e di nuovo dal 1912 al 1919, fu deputato alla Skupština, dove si guadagnò una grande reputazione internazionale votando contro i crediti di guerra in vista delle guerre balcaniche del 1912-13 e della Prima guerra mondiale, sostenendo una Federazione balcanica.

[10] Dimitrije “Mita” Tucovic (13 maggio 1881 – novembre 1914), teorico socialista serbo, scrittore ed editore. Fu il fondatore del Partito Socialdemocratico Serbo. Nel 1910 partecipò al Congresso socialista internazionale di Copenaghen e tenne un importante discorso in cui criticò la posizione assunta dai socialdemocratici austriaci sulla questione nazionale, in particolare sull’annessione austro-ungarica della Bosnia-Erzegovina. In un dibattito con Karl Renner mise in evidenza la politica coloniale dell’Austro-Ungheria e il fatto che in tale questione i socialdemocratici appoggiavano il governo. Dopo lo scoppio delle guerre balcaniche del 1912, fu mobilitato nell’esercito serbo e partecipò alla campagna militare serba in Albania. Dal fronte inviò lettere sui crimini di guerra contro la popolazione civile che venivano regolarmente pubblicate sul Radnicke Novine. Dopo il ritorno dalla guerra dei Balcani, pubblicò il suo influente libro Serbia e Albania: Un contributo alla critica della politica di conquista della borghesia serba, che analizza le radici del conflitto serbo-albanese. Cadde sul fronte della Prima guerra mondiale a Vrace Brdo, come membro della divisione Morava nel novembre 1914 nella battaglia di Kolubara contro l’esercito austro-ungarico presso la riva di Ljig. Nel 1915, Trotsky scrisse a proposito dell’impatto politico della sua morte: “Quanti alfieri della Federazione balcanica sono caduti nelle guerre degli ultimi anni! Il colpo più pesante per la socialdemocrazia serba e balcanica nella guerra è stato il destino di Dimitrije Tucovic, una delle figure più nobili ed eroiche del movimento operaio serbo” (Rakovsky e Kolarov, Kievskaya Mysl, n. 294, 23 ottobre 1915).

[11] [N.d. T.] Dopo che questa lettera è stata scritta, il governo serbo ha vietato Radnicke Novine. Al suo posto è pubblicato adesso, con la stessa redazione, il quotidiano L’Avvenire.

[12] Il parlamento unicamerale del Regno di Serbia.

[13] [N.d. T.] «Il segretario del nostro partito, il compianto Dušan Popovic, assisté nel 1918 alla conferenza di Stoccolma. Doveva morire alcuni mesi dopo, a Londra, privandoci di uno dei nostri capi migliori e più intelligenti» (J. Koussovatz, «Le mouvement communiste en Yougoslavie» in Avenir International, giugno 1920).

Circolo Internazionalista "Coalizione Operaia"

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