">

IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
La pagina originale è all'indirizzo: http://www.pane-rose.it/index.php?c3:o55730

 

Memoria e progetto:: Altre notizie

LA DEA CULTURA E LA SANTA IGNORANZA: DUE MITI BORGHESI

(18 Novembre 2022)

carlo pisacane, la rivoluzione

«… il proletariato, che non vuole farsi trattare come una canaglia, ha molta più necessità del suo coraggio, della sua coscienza di sé, del suo orgoglio e spirito di indipendenza, che del pane». K. Marx – F. Engels, Il comunismo del «Reinischer Beobachter», 1847.

Pochi giorni fa un operaio, un nostro lettore, ci ha raccontato un episodio che, per quanto piccolo, abbiamo trovato non insignificante, data la situazione complessiva della nostra classe.

Un mattino, iniziando il turno di lavoro, gli operai hanno trovato nella sala mensa una zuppiera di riso e alcune tartine. Quanto rimasto di un rinfresco tenuto in ditta il pomeriggio antecedente dalla proprietà.

Sentendosi diminuito nella propria dignità e sicuro di interpretare il sentire di quei colleghi che a lui s’erano rivolti per sfogare la propria indignazione, l’operaio chiede spiegazioni al direttore, facendogli notare come quanto elargito agli operai altro non fosse che gli avanzi del banchetto padronale.

– “Piano con le parole!” – Fa il direttore, con tono paternalistico – ” È roba buona che abbiamo pensato di regalare ai nostri dipendenti.”

– “Sarà indubbiamente roba buona, ma quello che rimane di un pasto sono avanzi” – risponde calmo l’operaio.

A questo punto il direttore gioca la carta “ecologica”:

-“Allora questa roba la dobbiamo buttare? Quindi Lei è per lo spreco?”

-“Per niente” – risponde l’operaio – “Non c’è bisogno di buttarla via: i manager destinatari di questa merce potevano benissimo incartare i loro avanzi e portarseli a casa, proprio come fanno quelli a cui non piacciono gli sprechi. Noi però non mangiamo i vostri avanzi, perché gli avanzi si danno ai cani”.

-“Va bene, vorrà dire che la prossima volta butteremo via tutto”, rispondeva seccato il direttore dotato di “cultura ecologica” e “nemico degli sprechi”. E chissà se, tra sé e sé, avrà pensato: “Vai a fare del bene a questi ignoranti!”.

Eppure, il nostro lettore operaio, ignorante non è. Non ignora la sua collocazione di classe. Se l’avesse ignorata probabilmente avrebbe raccolto, e con gratitudine, i resti del banchetto padronale. Questa consapevolezza dell’identità dei propri interessi con quelli dei suoi colleghi, con quelli di tutti gli altri operai e in contrapposizione a quelli di altre figure sociali, e il senso della propria dignità legato a questa consapevolezza, non l’ha ottenuta sui banchi di scuola o nelle aule di un’università. Non l’ha ottenuta nemmeno per divina insufflazione, mentre era quotidianamente chino sul suo banco di lavoro. Sospinto dalla propria condizione alla lotta, e da questa lotta sollecitato a cercare risposte, ha incontrato un ambiente che lo ha spronato a conquistarsi faticosamente questa coscienza, a costruirsi una cultura sociale: ha incontrato la teoria di classe.

Nel caso specifico è stato questo operaio, e non altri, ad affrontare a testa alta il padrone e a risvegliare nei suoi compagni la fiammella dell’orgoglio di classe. Non perché sia migliore degli altri, ma perché il caso – in quanto individuo – e la necessità – in quanto membro della sua classe – gli hanno fatto incontrare la teoria marxista, consentendogli di non ignorare la propria condizione, il proprio ruolo.

Da questo punto di vista, e da quando esiste il proletariato, gli operai che incarnano il fulcro delle lotte non sono mai stati “ignoranti”. Potevano essere forse poco “istruiti”, ma non ne hanno mai fatto vanto, tutt’altro. La storia del movimento dei proletari, a partire dalle prime coalizioni operaie dell’Inghilterra di fine ‘700, è irrefutabilmente la storia del processo di autoeducazione politica della classe operaia. Sacrificando il loro scarso tempo libero, sottraendolo alla chiesa e all’osteria, generazioni di operai hanno imparato a leggere; quando non sapevano leggere hanno partecipato a circoli di discussione ascoltando i loro compagni più fortunati; leggendo e ascoltando hanno imparato a pensare e hanno divorato avidamente Tom Paine, Babeuf, Godwin, Owen, Weitling, Marx… tutti quegli scritti che intuivano potessero riguardare la loro condizione e che potessero dotarli di strumenti per andare oltre la loro istintiva insofferenza, per comprendere il loro proprio agire, comprendere le loro stesse lotte, condurle a buon esito, convincendo gli esitanti o trascinando i recalcitranti[1].

Finché ha potuto, e finché ha ritenuto fosse nel proprio interesse, la borghesia ha nutrito con la superstizione l’ignoranza in cui la classe operaia viene inesorabilmente precipitata dalla divisione del lavoro[2]. Quando gli operai, con aspre battaglie, sono riusciti ad imporre una più favorevole legislazione sul lavoro, questa “prima concessione strappata di violenza al capitale”[3] ha permesso loro di tenere i propri figli più piccoli lontani dalle fabbriche e ha costretto la borghesia a fornirli di un’istruzione elementare, “seppure in dosi prudentemente omeopatiche[4]”. È stato dunque il risultato di una pressione della nostra classe, in concomitanza con l’esigenza capitalistica di fornire all’operaio quel livello minimo di competenze necessarie ad ottenere una produttività accettabile – senza far rientrare il costo di tali competenze nella determinazione del valore della sua forza-lavoro, cioè del suo salario – a spingere la borghesia ad aprire delle scuole per i figli degli operai.

Ma ogni concessione della borghesia ha il suo prezzo.

Dovendo fare di necessità virtù, la classe dominante ha integrato la dieta a base di superstizione con la sua “cultura”, religiosa o laica che fosse. E in effetti la cultura borghese non è altro che il soverchiante condimento dell’ideologia della classe dominante con il quale quest’ultima inquina quell’istruzione che non può più – e non è più suo interesse – negare ai lavoratori, per togliere loro il gusto di piatti proibiti il cui consumo potrebbe minare la stabilità sociale[5].

Quando coltissimi intellettuali, spesso allattati dalle alme mammelle delle migliori accademie borghesi, spacciano per “marxismo ortodosso” e per “anticulturismo[6]” le più triviali assurdità mutuate da certo anarchismo e vengono a magnificare agli operai le virtù dell’ignoranza[7], non distinguendo – o fingendo di non saper distinguere – tra istruzione e «interessata sapienza» della classe dominante, istintivamente siamo indotti a pensare che questo radicalissimo compiacimento “ignorantista” abbia in comune con il suo apparente “nemico”, il mito del sapere fine a sé stesso che dovrebbe elevare l’individuo nella società divisa in classi, molto più – quantomeno nei risultati – di quanto si sia disposti a confessare e che, consapevolmente o meno, si tratti solamente dell’ennesimo sottoprodotto di una cultura borghese con la quale non si sono definitivamente tagliati i ponti. Siamo indotti a pensare che non è nemmeno una grande novità vedere chi in questo mondo possiede qualcosa – ad esempio l’istruzione – far mostra di disprezzarla per convincere coloro che non la possiedono che non è poi un gran sopruso doverne fare a meno e che, in fondo, stanno meglio così… che lo vogliano o meno.

Ci pare di sentirli, questi “colti ignorantisti”, con il loro “marxismo” di terza mano lasciato impolverare da decenni, apostrofare i membri della nostra classe: “Noi, che abbiamo la sventura d’essere istruiti vi confessiamo: siete più saggi di noi, perché non siete istruiti. Dunque, non perdete tempo ad educarvi. L’educazione è borghese! Non ne avete bisogno! L’unica scuola è la vostra condizione sociale”.

Tuttavia, ci sembra di sentire anche la risposta che darebbero operai come il nostro corrispondente: “Grazie, apprezziamo molto la vostra premura, ma non vi offenderete se non vi crediamo sulla fiducia e se preferiamo non seguire le indicazioni che, pur essendo a vostro dire meno saggi di noi, non vi esimete dall’elargirci, e se, consapevoli della nostra condizione sociale, preferiamo non restituire i nostri figli alla scuola dello sfruttamento minorile”.

Il materialista premarxista Carlo Pisacane – spesso citato ad effetto da fieri spregiatori dell’“educazionismo borghese” – aveva ragione, a patto di saperlo leggere per intero e di saper intendere ciò che si legge: è vero che il proletariato non sarà libero quando avrà maggiore istruzione e che avrà maggiore e migliore istruzione quando sarà libero. Per i comunisti, che pur apprezzando il rivoluzionario Pisacane preferiscono tuttavia rifarsi a Marx, non sarà certamente l’istruzione in sé e meno che mai la cultura borghese ad emancipare il proletariato, ma ciò non implica che quei proletari costretti dalla lotta ad educarsi per lottare meglio debbano rinunciare a quel poco di istruzione concessa dalla borghesia per risparmiarsi la fatica di forgiarsi teoricamente, in ossequio alla consolante fantasia secondo la quale allo “Sten’ka Razin impersonale e collettivo”[8], alle apocalittiche masse primigenie, la coscienza o “non serve” (perché la spinta del bisogno materiale è sufficiente a sé stessa mentre le “tavole” della teoria sono amorevolmente custodite da logge esclusive di “supremi salvatori”) oppure… “verrà da sé” automaticamente nel giorno del giudizio.

La coscienza di classe è quanto di più importante una minoranza del proletariato possa conquistare, con immensi sforzi, rimanendo all’interno dei rapporti capitalistici di produzione – non certo qualche “isola di socialismo” economica, ideale o d’altro genere – ed è l’unica cosa che può separare l’inevitabile lotta di classe rivoluzionaria dall’altrettanto inevitabile sconfitta che si profilerebbe qualora venisse a mancare o si rivelasse insufficiente.

Il compito della minoranza di operai coscienti, il compito dei comunisti, non è quello di predicare la diserzione dagli esami di licenza elementare, media o superiore e nemmeno quello di impartire lezioncine di marxismo sui banchi di scuolette domenicali per educare alla coscienza di classe il proletariato nel suo complesso – cosa impossibile all’interno degli attuali rapporti sociali – ma quello di difendere con le unghie e con i denti il grado di coscienza teorica che sono riusciti a conquistare, di elevarlo per quanto possibile, di intercettare quegli elementi che anche nei suoi momenti meno critici la società capitalistica sollecita a lottare e ad interrogarsi, di organizzare la loro educazione rivoluzionaria per metterla a disposizione di chi ne è sprovvisto, ora e nel momento in cui più ne avrà bisogno; nel momento in cui la classe, istruita o meno, sarà costretta a lottare per la propria emancipazione; nel momento in cui sarà vitale per il raggiungimento di questa emancipazione raccordare il movimento spontaneo dell’insieme della classe con il livello più elevato di coscienza che parte di essa avrà già raggiunto[9]; nel momento in cui, contro tutti gli inganni e le illusioni seminate dalla borghesia e dai suoi luogotenenti, occorrerà dare «forma a’ suoi desideri, additargli il nemico»[10].

L’ignoranza non ci garantisce maggiore immunità dall’ideologia della classe dominante di quanto faccia l’istruzione borghese: una più raffinata ideologia borghese trova nell’istruzione un terreno fertile per attecchire, ma la sua versione più grossolana mette radici non meno solide nella mancanza di istruzione. Se la “cultura” borghese plasma i luogotenenti della borghesia in seno alla nostra classe, l’ignoranza le fornisce la manovalanza; solo la coscienza forgia i rivoluzionari. I rischi dell’istruzione non si esorcizzano con l’ignoranza, si combattono con la consapevolezza teorica.

La “cultura” che ci offre la borghesia è ignoranza. È ignoranza dei rapporti sociali e del ruolo della nostra classe in essi. La “cultura” che ci offre la borghesia è un condimento fatto con gli “avanzi” del suo pensiero – non quello dei suoi tempi “eroici” ma quello figlio della paura e del tornaconto –, avanzi freddi, lasciati ad ammuffire sulle nostre tavole avvolti in luccicante carta stagnola. Il proletariato rivoluzionario non desidera l’ignoranza più di quanto non desideri gli avanzi della borghesia.



NOTE

[1] «È appunto questa coscienza collettiva, con le teorie, gli istituti, la disciplina e i valori comunitari, ad essa corrispondenti, che distingue la classe operaia ottocentesca dal mob del Settecento». Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano, 1969, Vol I, p. 427.

[2] «L’uomo di cui l’intera vita è spesa nel compiere un piccolo numero di operazioni semplici… non ha occasione di esercitare la propria intelligenza… e in generale diventa stupido ed ignorante come a creatura umana è possibile». A. Smith, Wealth of Nations, cit. in K. Marx, Il capitale, UTET, Torino, 2009, p. 400 [versione digitale].

[3] Ibidem, p. 501.

[4] Ibidem, p. 400.

[5] «… tutta l’istruzione è addomesticata, malleabile, servile verso la politica e la religione dominanti […]. Ma che gli operai sappiano apprezzare anche una “solida cultura”, quando sia loro offerta non mescolata alla interessata sapienza della borghesia, lo dimostrano le frequenti conferenze su argomenti di scienze naturali, di estetica e di economia che vengono tenute spesso, e con larga affluenza di pubblico, in tutte le istituzioni proletarie, particolarmente in quelle socialiste». F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Lotta comunista, Milano, 2011, p. 317.

[6] Riferimento alla battaglia condotta nel 1912-13 dalla sinistra rivoluzionaria del PSI animata da Amadeo Bordiga contro il tentativo di relegare l’attività della federazione giovanile del partito a compiti puramente “culturali”.

[7] «…adesso possiamo agire. E cosa faremo? Educheremo il popolo? Sarebbe stupido. Il popolo sa da sé e meglio di noi ciò di cui ha bisogno. […] Noi non dobbiamo educare il popolo, ma sollevarlo». M. Bakunin, cit. in K. Marx, L’Alleanza della democrazia socialista e l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Opere complete, Lotta comunista, Milano, 2019, Vol. 23, p. 544.

[8]
«… noi […] vediamo qui per la prima volta [Bakunin] celebrare il brigante russo come il tipo del vero rivoluzionario, predicare alla gioventù russa il culto dell’ignoranza, col pretesto che la scienza attuale non è che una scienza ufficiale (si possono immaginare una matematica, una fisica, una chimica ufficiali?), e che questa è l’opinione dei migliori uomini dell’occidente». K. Marx, Ibidem, p. 543.

[9] «Noi abbiamo dunque il diritto di dire che se non tutto, una parte del proletariato può essere oggi cosciente della trasformazione che esso prepara». A. Bordiga, La nostra missione, L’Avanguardia, 2 febbraio 1913.

[10] C. Pisacane, La Rivoluzione, Einaudi, Torino, 1970, p. 187. Il Pisacane assai meno citato aggiunge: «Le condizioni indispensabili ad un popolo per conquistare una libertà duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide, determinato dai mali presenti; e per evitarli in avvenire la piena conoscenza della causa di questi mali, ricercati dalla scienza» (Ibidem, p. 83). Oppure: «I riformatori [leggasi rivoluzionari] sono la manifestazione della ragion collettiva, dal dolore costretta all’esame de’ mali sociali; sono piloti, che non determinano la meta del viaggio già stabilita, ma indicano i scogli contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano, registrano le sanguinose esperienze fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le presentano ad esso dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrire i medesimi mali» (Ibidem, p. 93). O ancora: «Quale è in questo svolgersi delle umane vicende l’opera ed il dovere del rivoluzionario? Con la penna trattare tutte le questioni che conducono al fine bramato; con la congiura far cospirare l’azione al medesimo fine; e cercare di legare strettamente il pensiero e l’azione. Dire fucili e non libri è un errore, come il dire libri e non fucili» (Ibidem, p. 165).

Pubblicato nel n. 108 di Prospettiva Marxista, novembre 2022

6493