">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Stato e istituzioni    (Visualizza la Mappa del sito )

Storie

Storie

(17 Ottobre 2010) Enzo Apicella
Ancora un libro di Giampaolo Pansa: "I vinti non dimenticano".

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Ora e sempre Resistenza)

Ascesa globale della destra fascista e capitalismo

(7 Dicembre 2022)

di Ugo Palheta (da MPS-TI)

la nuovelle internationale fasciste

L’ascesa dell’estrema destra è un’ondata globale, radicata nelle crisi e nelle contraddizioni del capitalismo del nostro tempo. Questa è almeno la tesi difesa da Ugo Palheta nel suo ultimo libro, La Nouvelle Internationale fasciste (Textuel), in cui insiste sul fatto che le estreme destre – per quanto nazionaliste possano essere – non solo si ispirano l’una all’altra, ma si organizzano anche su scala internazionale, costruendo un significato comune al di là delle frontiere che si basa essenzialmente sull’odio per l’uguaglianza.
Il nostro momento storico sarebbe quindi quello della nascita e dell’ascesa di una “nuova internazionale fascista”, che solo la costruzione di un’Internazionale degli oppressi, radicata nelle lotte già presenti, potrebbe fermare.
Proponiamo qui la lettura di un capitolo del libro, che si interroga sulle condizioni in cui possono prosperare questi nazionalismi di purificazione che sono i neofascismi.


Il neofascismo è già una forza globale. Si è formato un “campo magnetico” dei neofascismi [1], che permette loro di attrarre sia ampi settori della popolazione sia interi settori delle élite politiche e mediatiche, alla ricerca di una nuova egemonia. Questa forza di attrazione varia di intensità da un Paese all’altro, a seconda della loro storia, della resistenza che il neofascismo incontra, della disponibilità delle classi dominanti al nazionalismo radicale, della penetrazione di idee razziste e autoritarie nella popolazione, ecc. Ma la dinamica neofascista è globale perché deriva da un fenomeno che si è dispiegato su questa scala: l’avvento del capitalismo neoliberale e la sua successiva crisi. Una crisi dalle mille sfaccettature: sociale, economica, ambientale e naturalmente politica.

La crisi politica non è legata alla personalità di questo o quel leader nazionale, a scandali di corruzione qui o là, a scelte sbagliate di alcune persone o ad altri aspetti situazionali e contingenti della politica dominante. Si riferisce agli effetti a lungo termine delle politiche di privatizzazione, precarizzazione ed espropriazione imposte per decenni dalle classi dominanti in tutto il mondo (a ritmi diversi a seconda della resistenza che hanno incontrato). Una simile crisi politica ha l’ampiezza, o la profondità, di una crisi di egemonia: una crisi della rappresentanza politica, nel senso che la maggior parte dei partiti politici che si sono imbarcati nella grande distruzione neoliberale hanno perso una parte considerevole della loro legittimità e della loro base sociale o, addirittura, sono completamente crollati; una crisi di fiducia nelle istituzioni politiche, segnata da tassi di astensione crescenti ovunque; crisi di tutte le mediazioni tra le classi dominanti e il resto della popolazione (di cui la crisi della stampa e dei media dominanti non è che l’ultima); ma anche crisi del progetto portato avanti da queste classi dalla fine degli anni Settanta, ovvero il progetto neoliberista.

Questo progetto prometteva di liberare gli individui da tutti i vincoli che avrebbero impedito loro di realizzare appieno il proprio potenziale, di essere “creativi” e “innovativi”, di dimostrare il proprio talento o merito, in breve, di diventare imprenditori di se stessi in grado di far fruttare il proprio capitale (piccolo o grande, materiale o umano). Tassare meno (i ricchi e le imprese) avrebbe dovuto stimolare la produzione di ricchezza, che sarebbe poi “percolata” dall’alto verso il basso della “piramide sociale“; tutti avrebbero così beneficiato di una nuova crescita. Invece che a queste fantasmagorie che formano un intero immaginario individualista, produttivista e commerciale, abbiamo vissuto una nuova fase di accumulazione del capitale, privatizzazione (o degrado) dei servizi pubblici, distruzione dell’ambiente e arricchimento dei più ricchi. In particolare, ciò ha significato sottoporre i lavoratori alla concorrenza più spietata e mettere lo Stato al totale servizio della logica del massimo profitto a breve termine, a scapito della maggioranza, della natura, ma anche degli investimenti produttivi (soprattutto in infrastrutture utili a tutta la popolazione).

Il progetto neoliberale aveva l’obiettivo di essere egemonico, di plasmare il consenso all’ordine sociale creando un nuovo senso comune e suscitando nuovi affetti, dopo il periodo storico che gli economisti avevano definito “fordista” e che si era basato su un compromesso sociale tra le classi, su sindacati forti, su un aumento dei diritti sociali, su una distribuzione della ricchezza meno sfavorevole ai lavoratori, ecc. Se il progetto neoliberista ha innegabilmente avuto successo (dal suo punto di vista), minando tutto ciò che era collettivo e pubblico, ora è a pezzi perché la sua doppia promessa di abbondanza e liberazione generalizzata non è mai stata mantenuta. Al contrario, è alla precarietà e all’alienazione che le popolazioni, soprattutto i giovani, le donne e le minoranze razziali, devono far fronte in modo massiccio. Questo ha portato a una crisi di egemonia che si è aggravata con l’attuazione delle politiche neoliberiste, con l’aumento delle disuguaglianze, con i segni sempre più evidenti di una ricchezza indecente per una piccola minoranza, con l’impossibilità per intere fasce della popolazione di arrivare a fine mese e con i governi che sono diventati sempre più evidenti procuratori delle classi possidenti.

È a questo punto che entra in scena il neofascismo, come forza politica chiamata a sostituirsi al neoliberismo in un’ottica egemonica. Ciò che non si capisce quando si riduce il fascismo a bande armate o alla militarizzazione della politica è che non si tratta semplicemente di un insieme di tecniche repressive o di metodi di intimidazione, ma di un progetto politico a vocazione egemonica. Il fascismo non si limita a randellare, ma seduce. Da questo punto di vista, la sua forza sta nel fatto che può rivolgersi a tutte le classi:

– per una parte delle élite, che comprendono che il neoliberismo ha fatto il suo corso (non come dottrina economica ma come progetto politico);

– per le classi medie e medio-basse, che hanno paura di essere declassate e odiano la diversità (per sé o per i propri figli);

– e per frange delle classi lavoratrici, sottoposte a una concorrenza sempre più intensa e orfane di un’alternativa politica credibile.

La forza ideologica del fascismo e del neofascismo consiste quindi nella capacità di intervenire su un doppio livello: come difesa dell’ordine sociale costituito, potenzialmente per tutti coloro che hanno – o credono di avere – qualcosa da difendere; ma anche come promessa di un nuovo ordine per coloro che sono – o si considerano – espropriati, o minacciati di espropriazione. Prendere sul serio questa dimensione egemonica ci permette di capire perché il fascismo storico, quando è arrivato al potere, è riuscito a rimanervi molto più a lungo di quanto i suoi avversari si aspettassero. L’avvento del fascismo non è il passaggio da un ordine basato sul consenso a un ordine basato sulla violenza, in altre parole, la nascita di un potere basato interamente sulla repressione; ma il passaggio a una nuova modalità di produzione del consenso. In quanto tale, il fascismo consente il mantenimento o la solidificazione dell’ordine sociale, in altre parole assicura un rinnovamento egemonico del capitalismo, in un momento storico in cui i suoi rappresentanti politici tradizionali vedono ridursi la loro base sociale.

Oltre all’intensificazione dell’uso della forza (ma nessuna forma di potere si regge solo sul consenso), l’egemonia fascista implica nuove forme di inquadramento ideologico e l’emergere di un asse politico-culturale che non è più quello del pluralismo politico e dello Stato di diritto, della “convivenza” e del “dialogo sociale”, della libertà e della crescita. Ovunque questo nuovo asse è il seguente: la salvaguardia con tutti i mezzi di una “comunità nazionale” concepita in termini etno-razziali più o meno espliciti e più o meno ristretti (a seconda dei tempi e dei Paesi), ma sempre rivolta contro i nemici che devono essere puniti perché formano un “partito dello straniero” (“anti-Francia”, “antiamericani”, “antinazionali”, ecc.). Chi sono questi nemici? Le minoranze, la cui sola presenza visibile impedirebbe alla nazione di essere fedele alla sua “identità”; i movimenti sociali, perché aspirano a dissolvere tutte le gerarchie “naturali”; l’immigrazione, che metterebbe a repentaglio la sicurezza delle “persone oneste”, occuperebbe i posti di lavoro dei “veri nazionali” e minaccerebbe i conti sociali; e infine le élite, che aprirebbero la nazione a tutti i venti del “globalismo”.

[1] L’espressione “campo magnetico dei fascismi” è qui ripresa dallo storico Philippe Burrin, autore di numerose opere sul fascismo storico, in particolare nelle sue varietà francesi.

anticapitalista.org

3155