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I salariati in massa contro Macron

Mentre i sindacati italiani dormono un sonno profondo, un grande scontro sociale è iniziato in Francia contro l’aumento dell’età pensionabile

(25 Gennaio 2023)

Una cartina di tornasole, nel cuore della lotta di massa, del confronto fra riformisti e rivoluzionari

en chiffres

Lo scontro sociale si allarga in Francia. Il 19 gennaio otto organizzazioni sindacali hanno promosso una giornata di sciopero generale con manifestazioni in tutta la Francia. Il 31 gennaio è convocata un’altra giornata di sciopero. L’oggetto delle scontro è il progetto di riforma delle pensioni del governo Macron in discussione oggi in Parlamento, che eleva l’età pensionabile da 62 a 64 anni.

Lo scontro sulle pensioni (e non solo) ha una lunga tradizione in Francia.
Nel 1995 il governo Juppé fu costretto a revocare la “riforma” pensionistica e a dimettersi dopo tre settimane di sciopero prolungato e di battaglie di piazza. I lavoratori imposero con la propria forza il diritto ad andare in pensione a 60 anni. Nel 2010 il duro conflitto tra movimento operaio e il presidente Sarkozy si risolse al contrario in un relativo successo del governo che elevò l’età pensionabile a 62 anni. Macron ha presentato nella precedente legislatura un progetto di ulteriore innalzamento dell’età pensionabile attraverso un sistema “a punti”. Ma l’irruzione del Covid lo ha costretto a sospendere l’attacco. Ora ritiene giunto il momento di rilanciarlo.

Non si tratta di semplice puntiglio, ma delle ragioni di competitività del capitalismo francese su scala globale e nella stessa Europa. In una fase in cui tutti i governi capitalisti fronteggiano l’aumento massiccio dei costi energetici e aumentano i propri bilanci militari in misura esponenziale, la Francia borghese non può permettersi di mantenere l’età pensionabile a 62 anni. Il suo innalzamento a 64 anni garantirebbe al governo un “risparmio” di quasi 20 miliardi da qui al 2030, che potrebbero essere girati in varie forme ai capitalisti e alle spese di guerra. Da qui la determinazione del governo. La stessa che ha recentemente mostrato nel tagliare del 40% l’indennità di disoccupazione.

La prova di forza si annuncia impegnativa. Lo sciopero del 19 gennaio ha avuto successo. I dati di partecipazione non sono omogenei tra i diversi settori, con un livello più alto nel settore pubblico, nei trasporti, nei servizi, e più differenziato nell’industria. Ma complessivamente un livello di partecipazione superiore a quello registrato nel 2019, all’apertura dello scontro prima del Covid. Lo stesso livello di adesione allo sciopero nell’industria automobilistica è indicativo. Significativo soprattutto il successo delle manifestazioni, a partire da quella oceanica di Parigi. Se il Ministero degli Interni, al di sopra di ogni sospetto, parla di un milione e centomila manifestanti a livello nazionale (due milioni secondo i sindacati) vuol dire che la mobilitazione è stata davvero molto ampia. Circa sei volte tanto le manifestazioni più partecipate dei famosi gilet gialli del 2018.

Sicuramente ha avuto un ruolo il fronte unico delle otto principali centrali sindacali, da Solidaires alla CFDT, passando per la CGT. Un fronte più esteso che nel 2019, e negli scioperi del 2016 contro la Legge El Khomri (il Jobs Act francese), dove la CFDT aveva fatto da sponda al governo. Ma soprattutto incide il sentimento di massa ostile alla riforma nella larga maggioranza dei salariati e nella maggioranza della società francese, come testimoniano tutti i sondaggi. Il successo delle manifestazioni del 19 gennaio è anche questo: non solo hanno coinvolto, secondo diverse testimonianze, settori nuovi di salariati, precedentemente restii a manifestare, ma hanno catalizzato la simpatia di una più ampia massa popolare, colpita dal carovita, dai tagli sociali alla sanità e all’istruzione, ed anche per questo ostile al governo. Il quale peraltro nella nuova legislatura non ha più una maggioranza parlamentare organica su cui basarsi, stretto tra l’estrema destra di Le Pen e la sinistra a guida Mélenchon, e dunque è costretto sulle pensioni a negoziare i voti dei gollisti.

Molto dipende ora dalla direzione della lotta. A differenza delle immobili burocrazie sindacali di casa nostra, le direzioni sindacali in Francia si caratterizzano per una postura relativamente “combattiva”. Ma è bene non farsi illusioni. Come già in occasione degli scioperi contro la legge El Khomri del 2016, le direzioni sindacali temono l’esplosione sociale di un movimento di lotta fuori controllo. Per questo hanno rinunciato a promuovere “scioperi riconducibili”, cioè prolungabili dalle assemblee dei lavoratori interessati. La CGT fa sapere alla propria base che li avrebbe voluti ma che la mediazione unitaria con la CFDT lo ha impedito. La verità è che la stessa burocrazia CGT teme una dinamica di scavalco in cui di fatto la direzione del movimento passa sotto il controllo degli scioperanti. Per questo si è scelta la modalità di giornate nazionali di sciopero distanziate nel tempo, come nel 2016. Una modalità che non massimizza la forza d’urto dello sciopero ma in compenso garantisce il controllo della burocrazia.

La preoccupazione di una dinamica di scavalco ha un fondamento. Gli scioperi e le manifestazioni del 19 gennaio sono state preceduti da un autunno inquieto. A ottobre una ondata di scioperi nelle raffinerie ha paralizzato larga parte della Francia. A novembre si sono moltiplicate lotte aziendali per forti aumenti salariali. A dicembre si è sviluppato uno sciopero a oltranza fuori controllo del personale viaggiante delle ferrovie (i controllori), promosso da strutture di base autorganizzate. Oggi la grande stampa francese teme che lo scontro sulle pensioni possa trascinare con sé una ribellione di massa che sfugga di mano alle burocrazie. È il richiamo del grande sciopero del ’95, ma anche del 2005, quando la mobilitazione di massa prolungata e radicale di lavoratori e di giovani costrinse il governo Villepin a ritirare una legge di precarizzazione del lavoro già presentata in parlamento (Cpe). Inutile dire che le preoccupazioni della borghesia sono le speranze della parte più avanzata della classe operaia francese.

La sinistra politica partecipa naturalmente allo scontro sulle pensioni, secondo l’impostazione dei suoi diversi soggetti. Il blocco riformista della NUPES (la France Insoumise di Mélenchon, il PCF, il Partito Socialista, i Verdi) è impegnato sul piano parlamentare in opposizione al governo, ma con obiettivi differenziati. Il Partito Socialista, spaccato a metà circa il rapporto con NUPES, si oppone alla rivendicazione dell’età pensionabile a 60 anni avanzata dalla CGT, attestandosi sui 62 anni. Il PCF e i Verdi si accodano in questo al Partito Socialista. Sia il PS che il PCF si affidano in ogni caso alla direzione delle burocrazie sindacali cui si limitano ad offrire una sponda parlamentare.

Mélenchon ha una postura parzialmente diversa. Sostiene la rivendicazione sindacale dei “60 anni” ma sviluppa proprie manifestazioni di partito, con un proprio calendario parallelo e in parte concorrenziale con il calendario sindacale. La logica è quella della propria autopromozione elettorale. France Insoumise non avanza alcuna parola d’ordine alternativa all’interno del movimento di sciopero circa l’autorganizzazione della lotta. La sua competizione con la burocrazia CGT è esclusivamente di immagine e richiamo mediatico. La stessa rivendicazione di “un referendum” sulla riforma, in sé accettabile, è concepita come diversivo rispetto alla radicalizzazione della lotta, alla sua organizzazione, al suo sbocco.

Peraltro, il partito di Mélenchon attraversa un durissimo scontro interno al proprio gruppo dirigente e parlamentare tra i fedelissimi del Capo e chi gli contesta una gestione del partito plebiscitaria, estranea ad ogni confronto democratico. Oggi Mélenchon cerca di nascondere e riassorbire questa linea di faglia dietro al sostegno allo sciopero, ma non sarà semplice e non durerà per molto. Nei fatti proprio lo scontro sociale evidenzia una volta di più la natura elettoralistica e istituzionale di FI.

I marxisti rivoluzionari francesi sono in prima fila nella lotta con una propria proposta indipendente. Sul piano rivendicativo intrecciano la contrapposizione alla riforma delle pensioni (e la rivendicazione dei 60 anni di età pensionabile) con la rivendicazione generale di un forte aumento salariale di 400 euro e della scala mobile dei salari. Sul piano della lotta avanzano la proposta delle assemblee generali dei lavoratori quali sedi decisionali, del loro sviluppo intercategoriale e territoriale, del loro coordinamento nazionale. È la parola d’ordine dello sciopero generale sotto il controllo dei lavoratori stessi. Esattamente ciò che temono i padroni e il loro governo, ma anche le burocrazie del sindacato.

Mentre una parte del NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste) ha scelto di scindere il proprio partito per accodarsi a Mélenchon e puntare a un blocco elettorale con i riformisti di NUPES, larga parte del NPA, il grosso dei suoi militanti sindacali, la quasi totalità dei suoi giovani, hanno scelto di preservare la propria indipendenza politica dal riformismo e di battersi per una alternativa rivoluzionaria. All’interno del movimento di massa, a sostegno della sua unità, ma con la propria proposta anticapitalista. Sono i compagni raccolti attorno all’appello “Per la necessità e l’urgenza della rivoluzione”.

Auguriamo a questi compagni di sviluppare una politica di raggruppamento rivoluzionario delle forze dell’avanguardia della classe operaia e della gioventù: per la costruzione di quel partito rivoluzionario di cui ha bisogno, oggi più che mai, il proletariato francese... E non solo.

Partito Comunista dei Lavoratori

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