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LA “BANDIERA PULITA” E I “CONTI COL NEMICO”

Dall’introduzione al testo di Zheng Chaolin Il capitalismo di Stato

(8 Febbraio 2023)

Zheng Chaolin 2

Zheng Chaolin

Mi consigliate gentilmente di seguire l’esempio degli altri.

Anche se mi piacerebbe scendere a compromessi,

c’è un abisso che non posso superare.

Apparentemente largo pochi pollici,

si stende in realtà per migliaia di miglia.

È la distanza che separa l’umano dalla bestia.

Dovrei bere la dolce coppa e non l’amara,

ma disonorerei mio padre e mia madre!

E anche se attraversassi questo abisso,

la mia mente rimarrebbe per sempre dissidente.

Non vedete alcuni miei vecchi conoscenti

chinare il capo

e dire di sì quando è richiesto,

ma senza alcun risultato?

Come me, hanno passato questi tredici anni in prigione,

guardando affamati verso l’alto il cigno

che si fa strada nel cielo con le ali.

dov’è la clemenza?


Zheng Chaolin, Per sempre dissidente[*]

Quella che presentiamo in questo volume è, a quanto ci consta, la prima traduzione in lingua italiana di un qualsiasi scritto del rivoluzionario marxista cinese Zheng Chaolin. Nato nel 1901, nel 1922 Zheng Chaolin fu tra i fondatori in Francia della sezione giovanile del Partito Comunista Cinese. Sopravvissuto al massacro di Shanghai dopo l’insurrezione operaia dell’aprile 1927, nel 1929 entrò a far parte della minoranza trotskista nel PCC fino all’espulsione, avvenuta nel novembre dello stesso anno insieme allo storico dirigente del partito: Chen Duxiu. Arrestato dal Guomindang nel 1931 e condannato a 15 anni di prigione, venne rilasciato nel 1937 con lo scoppio della Seconda guerra sino-giapponese. Completamente isolato, già nel 1937 si schierò su posizioni internazionaliste nei confronti della guerra, considerandola un’articolazione dell’imminente guerra inter-imperialistica mondiale e difendendo la linea del “disfattismo rivoluzionario” contro la maggioranza del movimento trotskista cinese e internazionale. Dalla fine del 1941 fino alla sconfitta del Giappone, curò la pubblicazione della rivista clandestina trotskista L’internazionalista. Membro insieme a Wang Fanxi del piccolo raggruppamento denominato Partito Operaio Internazionalista di Cina, tradusse la Storia della Rivoluzione russa di Trotsky e scrisse numerosi libri, tra i quali L’ABC della rivoluzione permanente, le proprie memorie e una biografia incompiuta di Chen Duxiu. Trotskista “eretico” in quanto marxista “ortodosso”, si impegnò nell’analisi della natura sociale dell’URSS e della Cina di Mao, nonché nella ricerca delle cause della controrivoluzione stalinista e pubblicò le proprie conclusioni nel 1950, nell’opuscolo clandestino Il capitalismo di Stato[1], nel quale maturava la sua sostanziale, se non formale, rottura teorica con i capisaldi del trotskismo e con la tesi dello “Stato operaio degenerato”. Arrestato dal regime maoista nel 1952 in una retata antitrotskista[2] e imprigionato per altri 27 anni (eguagliando il triste primato di 34 anni passati in carcere di Blanqui), è morto a Shanghai nel 1998 dopo una lunga malattia, rimanendo fino alla fine fedele alle proprie convinzioni marxiste e internazionaliste.
Zheng Chaolin, 1984

Probabilmente in Italia l’unico studioso che si sia occupato – seppure soltanto di sfuggita – di Zheng Chaolin è Arturo Peregalli, che nel suo pregevole studio del 1976 Introduzione alla storia della Cina scriveva:

… le pochissime avanguardie rimaste più o meno fedeli ai principi del marxismo vengono tolte dalla circolazione. La polizia maoista, fra il dicembre del 1952 ed il gennaio del ’53, arresta nelle varie retate molti comunisti. Tra gli arrestati vi sono: Zheng Chaolin, vecchio compagno che aveva partecipato alla fondazione del PCC, che aveva lavorato a Parigi con Zhou Enlai e Chen Yi verso la fine della I Guerra Mondiale e che aveva diretto la classe operaia a Wuhan nel periodo 1926-27. Dopo essere stato arrestato dalla polizia del Guomindang e condannato a 15 anni di carcere (ma non scontati) viene ora arrestato dalla polizia di Mao. […] Questi compagni e molti altri vengono deportati in campi di concentramento o condannati ai lavori forzati. Della loro sorte non si è saputo più nulla. La loro unica colpa era di non credere nel socialismo maoista.
[3]

A dire il vero la cortina di disinteresse attorno alle riflessioni teoriche delle minoranze internazionaliste cinesi e al nome stesso di Zheng non deve suscitare troppa meraviglia. In Italia, almeno a partire dalla fine degli anni ’60, una forma di stalinismo apparentemente più radicale dei tradizionali paludamenti del PCI trovò nel “maoismo” e nelle sue raccolte di massime e proverbi – banali quando non ridicoli – il “verbo” della contestazione. La “rivoluzione culturale” era di gran moda. D’altro canto la figura di Zheng Chaolin, la sua impostazione marxista, era difficilmente inquadrabile – per i pochissimi che la conoscevano – all’interno delle varie tendenze che pure si opponevano da diverse angolazioni allo stalinismo: si trattava di un rivoluzionario che rifiutava la tesi dello “Stato operaio degenerato”, che assumeva una posizione internazionalista nel corso di una guerra considerata dal trotskismo “di liberazione nazionale” e che definiva la natura sociale dell’URSS e della Cina “capitalismo di Stato”, ma che, cionondimeno, non aveva mai cessato di definirsi “trotskista”. Ed è probabilmente questa sua rivendicazione di appartenenza, insieme al fatto di essere sempre stato politicamente un “isolato”, a fare sì che venisse “accettato” – seppure con molte “riserve” – nel mondo trotskista (soprattutto anglosassone).

Eppure, è proprio ciò che rende l’elaborazione di Zheng difficilmente “collocabile” per molte forme di epigonismo, feticisticamente abbarbicate ai limiti di alcuni grandi teorici marxisti, ad averci indirizzato sulle tracce di questo importante rappresentante del marxismo in Cina e ad averci spinto a proporne la lettura al militante e allo studioso in Italia.

Il percorso di Zheng Chaolin non è inedito, soprattutto se lo confrontiamo con quello di figure come Raya Dunayevskaya e C.L.R. James, Tony Cliff e Grandizo Munis[4], i quali più o meno negli stessi anni[5] (nel corso o poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale), e provenendo dagli stessi ambiti politici, giungono a conclusioni a proposito del capitalismo di Stato a cui quelle del rivoluzionario cinese sono ampiamente assimilabili. E non riteniamo casuale il fatto che all’interno del movimento operaio internazionale le esigue minoranze approdate alla teoria del capitalismo di Stato si siano contraddistinte anche per una posizione coerentemente internazionalista nel corso della guerra imperialista mondiale, riconoscendo quest’ultima come tale su “tutti i fronti” e rifiutando in varia misura il “difesismo” dell’URSS.

Il saggio Il capitalismo di Stato di Zheng Chaolin non rappresenta certamente l’ultima parola pronunciata su questo tema all’interno del dibattito marxista, e non è in questo senso che ne abbiamo inteso la pubblicazione. Zheng aveva da poco iniziato i propri studi su questa fondamentale questione quando 27 anni di galera impediscono alla sua riflessione di giovarsi della possibilità di fruire dei risultati del dibattito teorico internazionale. Tuttavia, se elaborazioni coeve o di poco successive in altre parti del mondo hanno espresso per certi versi una maggiore chiarezza e compiutezza dal punto di vista marxista – basti pensare agli scritti di Amadeo Bordiga e in generale della Sinistra comunista italiana – riteniamo che i limiti della riflessione di Zheng Chaolin non superino i suoi innegabili pregi, soprattutto in considerazione dell’epoca della stesura dell’opuscolo e del contesto di estremo isolamento delle minoranze internazionaliste cinesi[6]. Minoranze sottoposte ad una tensione inimmaginabile dalla pressione della repressione borghese, che fosse di segno nazionalista o maoista: il terrore di Stato sistematico del Guomindang distruggeva i gruppi trotskisti nelle città, mentre il PCC li assassinava nelle campagne[7] e li diffamava a livello nazionale come “agenti del Giappone”. I rivoluzionari cinesi si trovarono tra l’incudine del governo nazionalista e il martello di un’“opposizione” organizzata come un para-Stato e con i propri organi repressivi. Fu in queste precarie condizioni che Zheng Chaolin maturò la propria riflessione.

Tra gli innegabili pregi del pur breve testo di Zheng, che consentono a tutti gli effetti di collocarlo se non tra le prime file quantomeno lungo la stessa direttrice dei più validi teorici marxisti del capitalismo di Stato del calibro di un Bordiga, di una Dunayevskaya o di un Tony Cliff, c’è senza dubbio il riconoscimento della natura proletaria della Rivoluzione d’Ottobre e il rifiuto di indulgere nelle semplicistiche e apparentemente radicali valutazioni di questa rivoluzione come “borghese”, che considerano esclusivamente i risultati della sua sconfitta e che privano il marxismo della capacità di comprendere quella stessa sconfitta, di «intendere la reazione» per «continuare l’opera della rivoluzione»[8].

Ma l’importanza del breve saggio di Zheng Chaolin risiede soprattutto nella sua demistificazione dall’interno del mito del “socialismo” cinese, ancor prima che tale mito assurgesse al rango di articolo di fede tra gli stalinisti, mentre nell’ambito del trotskismo si vaneggiava di “Stati operai burocraticamente deformati”. Una demistificazione, quella di Zheng, che malauguratamente non ha perso nulla della sua importanza nemmeno oggi, se c’è ancora chi sostiene che in Cina vige un regime “comunista” in virtù del fatto che il suo governo è retto da un partito che si definisce “comunista” – come se il comunismo non fosse altro che una qualsiasi politica governativa.

D’altronde, l’analisi di Zheng dovrebbe far riflettere anche coloro che ancora nel 2023 ritengono che in Cina il capitalismo sia stato “introdotto” in seguito alle riforme economiche della fine degli anni ’70, che sia “ritornato” con l’introduzione delle “zone economiche speciali” o che sia “emerso” in seguito al crollo dell’URSS nel 1991.

Per Zheng Chaolin – e per il marxismo – in Cina il capitalismo non è mai “uscito”, non si è mai “assentato” e non si è mai “nascosto” in non meglio precisate profondità sociali. I rapporti capitalistici, sorti in parte per via endogena sulle spoglie di modi di produzione antecedenti e in gran parte introdotti in Cina tramite violente “collisioni storiche” dalle potenze capitalisticamente sviluppate, non sono stati “distrutti” dalla presa del potere maoista del 1949, al contrario hanno visto accelerare la loro diffusione al punto da trasformare l’arretrata Cina in una grande potenza imperialista.

Nel “socialismo” di Mao Zedong le classi sociali invece di essere eliminate si moltiplicano (le famose “quattro classi”: operai, contadini, piccola borghesia, borghesia nazionale) e addirittura contribuiscono in egual misura alla sua “edificazione”, e oggi, dopo il recente XX Congresso del PCC nel quale Xi Jinping ha promesso di lavorare alla «costruzione di un moderno Paese socialista», la Cina compete sul mercato mondiale nell’esportazione di merci e di capitali “socialisti” e manifesta una crescente assertività politica “socialista” nella contesa imperialista.

Sgomberiamo il campo dagli equivoci: quando parliamo di imperialismo cinese non intendiamo – come fanno in molti – l’imperialismo come un club esclusivo al quale si acceda per ammissione una volta raggiunto un certo status definito dai famosi e spesso mal compresi “cinque contrassegni” di Lenin; il club è semmai quello delle potenze imperialiste in un mondo capitalista che è imperialista nel suo complesso. L’imperialismo è un modo di essere del capitalismo in quanto modo di produzione mondiale ad un certo grado della sua maturazione, determinata dalla legge dell’accumulazione.

Solo affrontando la questione da questo punto di vista è possibile comprendere la posizione internazionalista di Zheng Chaolin durante la guerra di “resistenza anti-giapponese” e, già a partire dagli anni ’50, fornire un’adeguata spiegazione in termini marxisti degli scambi commerciali della Cina di Mao con i Paesi occidentali; della strategia cinese di prestiti finanziari ai Paesi del “terzo mondo” a tassi d’interesse bassissimi o nulli[9]; della proiezione economica e politica della Cina maoista lungo le direttrici coreana e indocinese e in generale verso il Sudest asiatico ben prima di assurgere al rango di “grande potenza” mondiale.

Il breve saggio di Zheng Chaolin fornisce sufficienti elementi per comprendere la successiva evoluzione del capitalismo cinese, un capitalismo nel quale negli ultimi 40 anni il settore statale è andato gradualmente – ma non inaspettatamente – riducendosi o trasformandosi in partecipazione dello Stato con “quote di controllo” nei settori economici ritenuti strategici.

La pubblicazione dello scritto Il capitalismo di Stato – e degli altri due articoli di Zheng degli anni ‘80-‘90 che proponiamo in appendice a questo volume – ha anche il senso di ribadire la necessità di riconoscere nello stalinismo un nemico di classe e di saldare i conti teorici e politici con esso; di ravvivare un dibattito che oggi rischia di cadere preda della superficialità, della faciloneria o dell’aperta mistificazione di intellettuali di dubbio corso – estranei alla sinistra comunista sia in senso stretto che in senso lato – impegnati nel costruirsi carriere “autoriali” e politiche intestandosi una “riscoperta” – a dire il vero alquanto tardiva – dell’analisi di Amadeo Bordiga (oggi che i libri sull’argomento sembrano avere un certo “mercato”), cercando di renderla compatibile con impostazioni radical-riformiste e con un internazionalismo nella migliore delle ipotesi “stentato”.

Non sono questi elementi a poter veramente fare “i conti col nemico”, soprattutto se mentre proclamano la solenne “chiusura” di questi conti sono indaffarati ad aprire per basse operazioni di bottega politica nuove linee di credito a questo stesso nemico – rappresentato dai residuati politici dello stalinismo orfani dello Stato-guida –, specialmente se dotato di una certa dimensione e presenza organizzata. Un nemico che, identificando proditoriamente socialismo e “proprietà pubblica”, con l’innescarsi di nuove ondate di lotte operaie generalizzate può tornare a rappresentare un forte pericolo opportunista – quale non siamo più abituati a concepire dopo decenni di ciclo liberista – e contro il quale le acquisizioni del marxismo andranno difese con le unghie e con i denti.

Solo chi fa veramente i conti col nemico, chi riconosce che lo stalinismo, in quanto fenomeno politico, non è parte del movimento operaio e non è recuperabile in alcun modo ad una politica di classe rivoluzionaria, solo chi è in grado di comprendere che per i comunisti internazionalisti non c’è dialogo con la controrivoluzione può sperare di interloquire con un minimo di credibilità con la classe operaia cinese.

Una classe operaia che, dopo la catastrofe del 1927 e la sua completa estromissione in quanto soggetto politico – durata più di un ventennio – dalle vicende cinesi, rialza la testa una prima volta nel 1953-54, ad appena 4 anni dalla presa del potere maoista. Inizialmente con lotte spontanee nelle fabbriche dello “Stato operaio”, sotto forma di assenteismo, ritardi, uscite anticipate, pause arbitrarie e permessi malattia, in seguito con scioperi bianchi e ritorsioni contro gli stachanovisti. Una classe operaia che nel 1956-57 scende nelle strade in grandi manifestazioni nelle quali rivendica aumenti salariali e il miglioramento delle proprie condizioni di vita, arrivando a scontrarsi direttamente con il feroce apparato repressivo capital-statale a Shanghai e nel Guangdong, mentre

Due regioni operaie, quella di Pechino e la Manciuria iniziano a loro volta la lotta. Nelle miniere del Nordest operai picchiano dei medici che si rifiutano di rilasciare certificati di malattia compiacenti ed i minatori rimangono in fondo ai pozzi rifiutandosi di lavorare. Gli scioperanti reclamano miglioramenti, prendono a pretesto rivendicazioni semplici come installazioni di lavabi per fermare il lavoro, protestano contro i prezzi troppo alti dei trasporti ecc.[10]

Una classe operaia che nel biennio 1966-67, approfittando dello scontro tra frazioni borghesi che ha preso il nome di “rivoluzione culturale” riprende la propria lotta. A Shanghai, i portuali scioperano per primi, seguiti a breve da tutte le fabbriche cittadine, che gli operai arrivano ad occupare e presidiare, insieme ad altri edifici pubblici e privati, rivendicando aumenti salariali, riduzione dell’orario lavorativo, case popolari e retribuzione degli arretrati. La risposta del governo del Partito “comunista” è l’invio in città di circa 250 drappelli dell’“esercito popolare” per sgomberare le fabbriche e ristabilire violentemente l’ordine “socialista” nei sobborghi operai. Il tutto mentre le cosiddette “guardie rosse” che tanto hanno stordito i maoisti nostrani, fanno opera di crumiraggio sostituendo gli operai in sciopero. Sull’onda di queste lotte operaie nascono piccoli gruppi dal contenuto classista e anticapitalista, come ad esempio lo Sheng Wu-lien (abbreviazione di Comitato della grande alleanza proletaria rivoluzionaria della provincia dell’Hunan), il quale, malgrado ingenuità politiche e limiti teorici, ritiene necessario che la classe operaia cinese fondi un nuovo partito comunista rivoluzionario, che abbatta «il potere politico della borghesia burocratica» e che distrugga «fino alle fondamenta la vecchia macchina dello Stato» dei “capitalisti rossi”[11].

Questi cicli di lotta, passando per la componente operaia delle manifestazioni del 1989, si ricollegano alle recenti lotte del proletariato cinese, l’ultimo episodio delle quali si è verificato nel novembre 2022[12], a dimostrazione che in Cina la lotta classe non ha mai smesso e non smette di manifestarsi.

Nel 1950 Zheng Chaolin prevedeva che in Cina

… i contadini gradualmente si proletarizzeranno e man mano che il proletariato urbano aumenterà di numero, che la qualità della sua vita migliorerà e che si concentrerà, la sua coscienza si farà più definita. Allora saremo in grado di porre la questione della rivoluzione su di un piano storico superiore. Le contraddizioni saranno allora più acute e più difficili da attenuare.

Oggi, parte della sua previsione è diventata un fatto e la classe operaia cinese si conta a centinaia di milioni. È un proletariato che in molti casi oggi esprime le proprie rivendicazioni di classe – spesso frammiste alle istanze “democratiche” di strati sociali borghesi – innalzando ritratti del “grande timoniere”, la cui eredità sarebbe stata “tradita” dall’attuale nomenklatura del PCC, così come gli operai russi fino al gennaio 1905 inoltravano petizioni innalzando i ritratti del “piccolo padre”. Non è una novità né un motivo di scoraggiamento. Tutt’altro.

Il proletariato cinese può trovare nelle proprie tradizioni di lotta e nell’elaborazione di rivoluzionari marxisti come Zheng Chaolin la leva per una ricostruzione della propria coscienza organizzata. Le giovani generazioni di internazionalisti in Cina non devono partire da zero. Esiste un filo rosso che può essere riannodato.

Per ritrovare una “bandiera pulita” non hanno bisogno di passare nuovamente per il comunismo libertario, come qualcuno ha ventilato – presumendo implicitamente che il percorso specifico della realtà politica che rappresenta costituisca un “modello” virtuoso universale, quando invece il suo approdo è tutto fuorché esemplare. No. I giovani internazionalisti in Cina devono impugnare saldamente la bandiera che il movimento operaio innalza da quasi 200 anni, dai tempi della rivolta operaia di Merthyr Tydfil[13]; devono mondare il rosso di questa bandiera dalle “cinque stelle” che simboleggiano un falso partito comunista e l’“armoniosa unione” di tutte le classi sociali… nello sfruttamento di una soltanto: quella operaia.

Non è un compito facile, ma gli internazionalisti cinesi potranno contare sulla solidarietà e sulla collaborazione di quelle minoranze internazionaliste coscienti di tutto il mondo che si riveleranno capaci di raccordarsi con le migliori espressioni del marxismo in Cina. Soprattutto nella prospettiva della lotta politica, teorica e organizzativa contro le profonde divisioni che la crisi del capitalismo e la competizione tra le potenze imperialiste alimenteranno all’interno della nostra classe nelle prossime, immancabili, conflagrazioni mondiali.

Circolo internazionalista “coalizione operaia”


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NOTE

[*] Poesia che Zheng Chaolin scrisse nelle carceri maoiste nel 1965, dopo una visita della moglie alla quale era stato ordinato di convincerlo ad ammettere le proprie “colpe” ed a sottomettersi alla “rieducazione”. Dal volume antologico Poets of the Chinese revolution, a cura di Gregor Benton e Feng Chongyi, Verso, London, 2019, p. 102.

[1] O, secondo un’altra possibile traduzione Sul capitalismo di Stato. L’opuscolo, per anni ritenuto perduto, venne pubblicato a Hong Kong sotto falso nome, a cura di una probabilmente fittizia “Società per gli studi storici e letterari”.

[2] La retata avvenne nella notte del 22 dicembre 1952. Era stata coordinata a livello nazionale e condotta più o meno simultaneamente in diverse città. I trotskisti arrestati furono circa un migliaio, insieme ai loro parenti e simpatizzanti. I parenti arrestati furono presto rilasciati, e alcuni degli altri prigionieri furono liberati dopo una breve “rieducazione” che prevedeva l’obbligo di rivelare i “crimini” degli altri arrestati (e di altre persone).

[3] A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, Ceidem, Pistoia, 1976, pp. 54-55.

[4] «Un passo avanti è stato compiuto, e bisogna renderne atto, dalla sezione spagnola al Messico della IV Internazionale […]. Munis ha perfettamente capito l’insostenibilità della tesi antimarxista di un regime sociale economicamente progressivo e politicamente reazionario, e l’inconsistenza di un’analisi che vede nello stalinismo una specie di bubbone transitorio nato sul tronco di una base produttiva “socialista”: la sua critica tagliente della pianificazione sovietica esclude senza possibilità di appello che possa considerarsi “socialista” un’accumulazione allargata fondata sull’appropriazione di plusvalore da parte di una classe, sulla separazione fra produttore e mezzi di produzione, sulla legge del salario, sulla compressione anziché sullo sviluppo della coscienza e della cultura dell’operaio […]». B. Maffi, Il trotskismo si aggiorna ma…, da Prometeo (Serie I), n. 7 del giugno 1947.

[5] Cfr. R. Dunayevskaya, The Union of Soviet Socialist Republics is a Capitalist Society, pubblicato nell’Internal Discussion Bulletin del Workers Party nel marzo 1941; G. Munis, Los revolucionarios ante Rusia y el stalinismo mundial, del 1946; T. Cliff, The Nature of Stalinist Russia, giugno del 1948; C.L.R. James, State capitalism and World revolution, del 1950.

[6] Quando i trotskisti cinesi non erano in prigione, erano solitamente tagliati fuori dal mondo esterno, a causa della guerra o delle scarse comunicazioni.

[7]
Nello Shandong e nella contea di Zhongshan, nel Guangdong, piccoli gruppi di trotskisti dell’ala maggioritaria, a causa della guerra isolati dalla centrale politica a Shanghai, organizzarono piccoli distaccamenti guerriglieri. Quelli dello Shandong furono massacrati dal PCC mentre i giapponesi si “occuparono” di quelli di Zhongshan.

[8] Cfr. A. Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti, in Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, Bompiani, Milano, 2014, edizione digitale, p. 1078. «Pur nelle loro profonde intuizioni l’analisi dei comunisti dei consigli […] era viziata alla base. La lettura che essi facevano della Rivoluzione russa era condizionata da ciò che la Russia era divenuta successivamente. Per loro era impossibile pensare alla degenerazione di una rivoluzione proletaria e questo deriva dal fatto che a volte è molto più semplice concludere che una rivoluzione sconfitta non è mai esistita piuttosto che cercare il perché e il come questa rivoluzione è venuta meno. Insomma, essi gettavano via il bambino con l’acqua sporca.» R. Tacchinardi – A. Peregalli, L’URSS e i teorici del capitalismo di Stato, Piero Lacaita editore, Bari-Roma, 1990, p. 78.

[9] La “scoperta dell’Africa” da parte della Cina non è cosa recente se pensiamo che fra il 1959 e il 1965 la Cina ha concesso a diversi Paesi africani prestiti per un totale di 340 milioni di dollari. Cfr. A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, Ceidem, Pistoia, 1976, p. 209.

[10] Ibidem, pp. 65-66.

[11] Ibidem, pp. 156-159.

[12] «A inizio ottobre, la fabbrica di Foxconn di Zhengzhou (che ad oggi si piazza al primo posto al mondo per numero di iPhone assemblati) ha risposto all’aumento dei contagi [di Covid-19] in città […] chiudendo i cancelli e confinando tutta la forza lavoro all’interno dello stabilimento-bolla. Nelle ore successive, per evitare il lockdown, molti lavoratori sono stati visti fuggire di nascosto, per campi e con valigie al seguito. In seguito, sono emersi nuovi problemi. I nuovi operai assunti in via temporanea per scongiurare il blocco della produzione hanno lamentato la crescente mole di lavoro e il peggioramento delle condizioni igieniche. Il malcontento è cresciuto fino a esplodere il 23 novembre scorso, quando centinaia di dipendenti si sono scontrati con il personale di sicurezza. “L’evoluzione della situazione”, si legge in un’analisi della ONG di Hong Kong, China Labour Bullettin, “rivela che […] i lavoratori hanno come obiettivo principale condizioni di lavoro sicure e dignitose”. Ciò indica che le proteste non sono state indirizzare tanto alla politica Zero Covid in sé, quanto al fatto che sono venute a mancare le garanzie di sicurezza promesse dalla strategia nazionale». https://www.valigiablu.it/cina-proteste-lavoratori-foxconn.

[13] Piccola cittadina del Galles dove nel 1831, nel corso di una rivolta di operai, si ritiene che sia stata innalzata per la prima volta la bandiera rossa.

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