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(18 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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ALCUNE RIFLESSIONI SULLA GIORNATA DELLA MEMORIA

Ristabilire la verità storica

(21 Febbraio 2023)

Va stroncato sul nascere ogni tentativo di far risorgere in nazismo nel cuore dell’Europa

Walter Ulbricht

Walter Ulbricht

Ogni anno assistiamo alla celebrazione della giornata della memoria, istituita nel 2005 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ricordare le vittime dei campi di sterminio nazisti, in coincidenza del giorno in cui, nel 1945, precisamente il 27 gennaio, fu liberato il campo di Auschwitz. Non sempre, nelle commemorazioni ufficiali, così come sui mezzi di comunicazione di massa in mano al potere, si dice che fu l’Armata Rossa sovietica a procedere alla liberazione. Ma questa non è l’unica “dimenticanza”. Tante altre verità storiche sono “trascurate”, per cui è bene ritornare sull’argomento per chiarire alcuni aspetti fondamentali. Ma procediamo con ordine.
Il nazismo si afferma in Germania a conclusione della crisi della Repubblica di Weimar (1919-1933), che, dopo una prima fase propulsiva, in cui fu un esempio di democrazia, essendo fondata su principi come il riconoscimento del suffragio universale a uomini e donne e la responsabilità diretta del Governo nei confronti del Parlamento, eletto dal popolo, regredisce verso il parlamentarismo inconcludente, le liti tra i partiti, il burocratismo. E tutto ciò nell’ambito di una gravissima situazione economica, che vede accentuarsi i disagi provocati alla grande massa della popolazione dalla sconfitta del Paese nella prima guerra mondiale a causa degli effetti disastrosi, a livello mondiale, della crisi del 1929. Milioni di disoccupati si aggirano alla vana ricerca di una soluzione, il degrado sociale dilaga.
Adolf Hitler ha buon gioco nel presentarsi come l’«uomo forte», che, cacciando via i partiti rissosi ed incapaci, prende in mano le redini della situazione ed è in grado di ridare al popolo tedesco prosperità economica e prestigio a livello mondiale.
Egli instaura una feroce dittatura, che elimina tutte le libertà democratiche, si fonda sulla violenza generalizzata, sulla logica guerrafondaia, sul mito del primato della razza tedesca su tutte le altre. Questo mito porta, sin dagli anni Trenta, all’approvazione di leggi razziali che hanno l’obiettivo dichiarato di impedire l’«inquinamento» della razza ariana non solo da parte degli ebrei, ma anche di zingari, omosessuali, persone malate, nel fisico o nella mente, pur appartenenti alla popolazione tedesca, alle quali viene imposta, con la “Legge per la protezione dei caratteri ereditari” del 14 luglio 1933, la sterilizzazione. Altre leggi impediscono il matrimonio fra chi soffre di «debolezza mentale» e una persona considerata «normale». Questa normativa portò alla istituzione dei “Tribunali per l’immunità da tare ereditarie”.
Da qui alla creazione dei campi di concentramento il passo è breve. In essi vengono confinati, per l’appunto, ebrei, avversari politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, che vengono sterminati a milioni.
Il popolo tedesco porta in gran parte la responsabilità di non essersi opposto a tutto ciò, di aver prestato, se non il proprio consenso, il proprio assenso, assumendo, perlopiù, un atteggiamento passivo. Tanti altri si sono resi complici dei crimini del regime nazista, accecati dallo spirito di rivalsa nei confronti della comunità internazionale, dopo le sconfitte belliche subite, e dal mito della razza tedesca. C’è da chiedersi come nella patria del razionalismo, di Kant e di Hegel, prevalse l’irrazionalismo assoluto. Ha ragione Goya, laddove scrive in una sua acquaforte che «il sonno della ragione genera mostri». Carlo Levi ci ha spiegato, con estrema lucidità, in alcuni suoi saggi teorici raccolti nel volume “Coraggio dei miti”, che la logica concentrazionaria è, innanzitutto, una dimensione mentale, dipende dall’isolamento dell’uomo, nemico dell’uomo, dal suo regredire verso la «logica della separatezza», della «prigione mentale». E’ la logica della società capitalistica, secondo Carlo Levi, contrapposta a quella contadina, fondata, per converso, sulla relazione, sul superamento delle barriere artificiali tra uomini, tra mondo umano, mondo animale e mondo vegetale. Quello di Levi è un grave atto d’accusa contro il capitalismo nelle sue stesse fondamenta e nel suo procedere inesorabile verso approdi irrazionalisti. Hanno di che riflettere, ancor oggi, quei pensatori, pure “di sinistra”, che si fanno fautori di filosofie fondate sull’irrazionalismo e sul «pensiero negativo».
Vanno, però, corretti alcuni errori della storiografia, che continuano ad imperversare. Non è vero che il regime hitleriano non incontrò alcuna resistenza nell’ambito del popolo tedesco. Una minoranza coraggiosa si oppose ad esso anche in forme organizzate. Molti partigiani anti-nazisti si immolarono per contrastare la barbarie, furono incarcerati, internati nei campi di concentramento e sterminati. Alcuni sopravvissero per testimoniare col loro impegno le brutalità del nazismo.
Primo fra tutti Ernst Thälmann, dirigente del movimento operaio, già protagonista nei moti spartachisti che si proponevano di estendere alla Germania l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre e che vennero repressi nel sangue con la complicità dei socialdemocratici e con l’eliminazione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, dirigenti comunisti. Nel 1923 Thälmann è a capo dell’insurrezione di Amburgo, che coinvolge 18.000 operai. Nel 1925 viene nominato presidente del Comitato Centrale del Partito Comunista di Germania (KPD). Oratore travolgente, nel 1928 guida 100.000 manifestanti verso Berlino, tenendo a Lustgarten un comizio in cui invita soprattutto i giovani ad intraprendere la strada della rivoluzione. Nel 1930 il Partito Comunista dimostra tutta la sua vitalità ed i suoi legami profondi con le classi lavoratrici ottenendo alle elezioni 4.590.000 voti. Nelle elezioni presidenziale del 1932, Thälmann ottiene 3.700.000 voti, contro i 13.400.000 di Hitler, in una competizione impari caratterizzata da violenze e brogli. Arrestato l’anno dopo, viene portato nel campo di concentramento di Sonnenburg e in altri luoghi di prigionia, dove trascorre undici anni di reclusione, fino alla sua uccisione con un colpo alla nuca da parte delle SS, nel 1944, nel campo di concentramento di Buchenwald, quando la fine del regime nazista era ormai vicina. Thälman può essere considerato il Gramsci tedesco.
Va ricordata, inoltre, la fulgida figura di Walter Ulbricht. Anch’egli dirigente comunista, dal 1926 al 1929 deputato al Landtag della Sassonia e nel 1928 per la circoscrizione di Westfalen-Süd, diviene membro del Reichstag. Dopo la presa del potere da parte di Hitler, guida il partito comunista tedesco nella clandestinità, emigrando a Parigi, a Praga e nel 1938 a Mosca, dove diviene dirigente del Comintern. Partecipa a un programma tedesco di Radio Mosca e invita i soldati del suo Paese ad arrendersi nella battaglia di Stalingrado. E’ tra i fondatori, nel secondo dopoguerra, della Repubblica Democratica Tedesca (RDT), divenendone Presidente. Nel 1961 si assume la responsabilità della costruzione del Muro di Berlino, per impedire che venga portata avanti con mezzi subdoli la politica di sabotaggio dell’economia della RDT e di attentati, posta in essere dal governo della Germania Occidentale con la regia degli Stati Uniti.
Va, infine, ricordato Erich Honecher, membro del Partito Comunista di Germania dal 1930, dopo aver rivestito un ruolo di primo piano nell’organizzazione giovanile, sin dall’età di 14 anni. Impegnato in prima fila nella Resistenza al nazismo, viene arrestato dalla Gestapo nel dicembre del 1935, trattenuto nel carcere di Berlino Moabit fino al 1937, è condannato a tredici anni di reclusione nel penitenziario di Brandenburgo-Gorden. E’ protagonista di fughe rocambolesche dalle carceri in cui è recluso. Nel 1971 sostituisce Walter Ulbrich alla guida del Partito Socialista Unificato di Germania, che riunisce comunisti ed ex socialdemocratici. Nel 1976 diviene Presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca.
Un altro errore storiografico da correggere è quello secondo cui non si sapeva nulla o quasi nulla dei campi di concentramento nazisti, fino alla scoperta da parte dell’Armata Rossa sovietica nella sua avanzata travolgente verso Berlino. Mi limito a citare un solo caso. Nel 1939, la scrittrice tedesca Anna Seghers compose a Parigi, doveva viveva in esilio, il romanzo “La settima croce”, pubblicato inizialmente in lingua inglese negli Stati Uniti nel 1942, che prende spunto dalla fuga di sette detenuti dal campo di concentramento di Westhofen. Nella trama del romanzo, ripubblicato nel 1946 nella Berlino liberata dai sovietici, il comandante del campo, che si sente oltraggiato da questa fuga, che ferisce il suo orgoglio di ufficiale efficiente ed onnipotente, scrupoloso esecutore degli ordini del Führer, ordina di tagliare la chioma di sette platani e di inchiodare sui tronchi delle assi in senso longitudinale, in modo da creare sette croci (da qui il titolo dell’opera della Seghers), alle quali dovranno essere appesi, una volta catturati, gli evasi. Ma una croce rimarrà vuota: quella destinata al comunista Georg Heisler, il quale, aiutato da persone comuni, riuscirà a fuggire alla caccia all’uomo scatenata dai nazisti contro di lui e ad espatriare in Olanda.
Un terzo errore storiografico a cui bisogna rimediare è quello secondo cui all’interno dei campi di concentramento tedeschi i detenuti non erano organizzati in resistenza, in quanto il regime concentrazionario era riuscito ad annullare completamente la loro volontà e la loro umanità. L’impressione di un totale asservimento delle coscienze è stata tratta da molti dalla lettura di “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Ma lo stesso autore, in interventi successivi, ha riconosciuto l’esistenza di questa resistenza organizzata, alla quale diedero vita detenuti appartenenti a varie ideologie politiche: comunisti, socialdemocratici, cattolici.
Lo scrittore Mario Rigoni Stern è un testimone qualificato che è necessario citare per avere una visione completa di quel che accadeva nei campi di concentramento nazisti, nei quali anche lui fu internato. Nel volume “Tra due guerre e altre storie” ricorda che i soldati sovietici fatti prigionieri dai nazisti erano molto riottosi e non si lasciavano piegare dai metodi duri adottati dai loro carcerieri. Capitò a lui di trovarsi ad abitare in una baracca situata accanto a quelle dei militari sovietici, che dimostravano a tutti il loro spirito di solidarietà dividendo con gli altri il poco che avevano. I tedeschi pensarono bene di allontanare Rigoni Stern da quei soggetti pericolosi che davano il cattivo esempio. Mentre i soldati tedeschi stavano per trasferirlo altrove, i suoi vicini sovietici, con l’accompagnamento di una balalaika, intonarono a voce alta una canzone di commiato. Non fu possibile ai tedeschi farli tacere, in nessun modo, compresa la minaccia dei mitra. Gli aguzzini poterono solo tentare di oscurare quella canzone coraggiosa battendo forte il passo, affinché gli altri confinati non la sentissero.
Rigoni Stern, nel suo viaggio a ritroso nella storia, affidato a diversi libri, ricorda la battaglia di Nikolajevka, nel corso della quale l’esercito italiano riuscì affannosamente a liberarsi della morsa in cui l’aveva stretto l’Armata Rossa e a ritirarsi, abbandonando nella neve migliaia di soldati, morti o moribondi, vittime sacrificali di una campagna criminale lanciata da Mussolini nel suo delirio di onnipotenza, assieme al suo altrettanto folle alleato tedesco. In un momento di tregua, Rigoni Stern, che partecipò a questa battaglia come sergente degli alpini, entra in un’isba, in cui, assieme alla famiglia russa che vi abita, stanno pranzando alcuni soldati dell’Armata Rossa. Nessuno di loro accenna a prendere le armi, che pure sono a portata di mano. La padrona di casa serve al nuovo inaspettato ospite una zuppa uguale a quella offerta a tutti gli altri. Finito il frugale pranzo, lo accompagna alla porta e gli regala un favo di miele per i suoi compagni, anche se sono nemici che hanno invaso in armi il suo Paese, seminando morte e distruzione. Rigoni Stern capì in quel momento che avrebbero vinto i sovietici, perché superiori agli aggressori nazi-fascisti, oltre che sul piano militare, anche sul piano morale: la guerra, con la sua carica brutale e belluina, non era riuscita a trasformarli in animali; essi avevano conservato la loro umanità. Rigoni Stern rievoca come l’Armata Rossa, con grande slancio militare e morale, liberò Mosca, combatté e vinse a sessanta gradi sotto zero, grazie all’arrivo, all’ultimo momento, delle truppe scelte siberiane del generale «mugiko» Zhukov.
Giuliano Manacorda sostiene, nella sua “Storia della letteratura italiana contemporanea”, che il racconto di Rigoni Stern sulla battaglia di Nikolajevka è tra le pagine migliori della letteratura resistenziale italiana.
Un altro errore da evitare, in questa ricorrenza annuale della giornata della memoria, è quello di tacere le responsabilità che ebbe il regime fascista di Mussolini nella politica razziale. Nel 1938 furono varate in Italia le leggi razziali, che portarono all’allontanamento dai pubblici impieghi, dalle scuole e all’espulsione dalla vita civile dei cittadini di origine ebraica. Ma il regime fascista fece molto di più. Consegnò molti di questi cittadini agli alleati tedeschi, che li internarono nei campi di concentramento, dove in gran numero trovarono la morte. Primo Levi fu uno di essi. Partigiano antifascista, il 13 dicembre 1943 fu arrestato dai fascisti in Valle d’Aosta, inviato in un campo di raccolta a Fossoli e, nel febbraio 1944, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz in quanto di origini ebraiche.
Scampato al lager, egli tornò in Italia, dove si dedicò con impegno al compito di raccontare le atrocità compiute dai carnefici nazisti, in particolare nel volume, già citato, “Se questo è un uomo”. Primo Levi portò alle estreme conseguenze il suo ragionamento ne “I sommersi e i salvati”, in cui giunge all’amara conclusione che il meccanismo dei campi di concentramento, secondo il quale si salvano i peggiori e soccombono i migliori, opera anche nella società cosiddetta «normale».
La barbarie che abbiamo sin qui documentato ci deve insegnare che è necessario stroncare sul nascere ogni tentativo di far risorgere il nazismo nel cuore dell’Europa, evitando le sottovalutazioni, spesso di comodo, del fenomeno e il cinismo nel cercare di strumentalizzarlo contro i propri avversari, come fecero i Paesi capitalistici occidentali, rimanendo spettatori interessati di fronte l’aggressione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler. Questo atteggiamento cinico non venga ripetuto oggi.
Le leggi razziali del 1938 furono precedute di poche settimane dal “Manifesto degli scienziati razzisti” o “Manifesto della razza”, pubblicato su «Il Giornale d’Italia» il 14 luglio dello stesso anno e firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, asserviti al regime, che cercarono di dimostrare l’ esistenza delle razze e la superiorità di alcune, fra cui quella italica, sulle altre. Il loro fu un esempio di viltà e di disonestà intellettuale che pesò sulla cultura del nostro Paese e rimane ancora come una macchia indelebile. Molti uomini di cultura, inoltre, durante il ventennio, erano inseriti nel libro paga del Ministero della cultura popolare (Minculpop) e, in cambio di lauti compensi, fiancheggiavano il regime. Tanti altri tacquero per amore del quieto vivere. Cesare Pavese ha scritto che costoro si rifugiarono in una nicchia, attendendo ai loro affari, lamentandosi, ogni tanto, come si fa col maltempo, con la consolazione, però, che, tutto sommato, fa bene alla campagna.
La furia razziale del regime fascista non si scatenò solo contro gli ebrei, ma anche contro le popolazioni slave dell’area di confine fra l’Italia e la Jugoslavia, le cui associazioni furono sciolte e alle quali fu persino impedito l’uso della loro lingua. Durante l’occupazione della Jugoslavia, le truppe italiane trucidarono migliaia di persone, che furono recluse anch’esse in campi di concentramento uguali a quelli nazisti.
Queste responsabilità non vanno taciute, anzi vanno ricordate ai giovani come un cattivo esempio da non imitare.
Caduto il fascismo, la Costituzione italiana si è incaricata di cancellare la logica razzista che fu un elemento fondamentale del regime mussoliniano. Essa così recita all’art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
La legge 205/1993, cosiddetta «Legge Mancino», si propone di dettagliare, rubricare e punire i reati di tipo razziale. I suoi contenuti sono stati trasfusi negli artt. 604 bis e 604 ter del codice penale, che, riassuntivamente, puniscono con la reclusione e con multe: «chiunque propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico», ovvero «istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»; chiunque «promuove o dirige organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», nonché chiunque tenda a diffondere idee che si basano sulla «negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della “Shoah” o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra».
C’è da chiedersi se questa normativa sia stata applicata adeguatamente, se le pene ch’essa prevede siano congrue. Non si può ignorare che continuano a proliferare i gruppi neo-nazisti, con la loro propaganda e con le loro azioni razziste, e spesso rimangono impuniti. Si moltiplicano gli atti di squadrismo ai danni di giovani d’ispirazione democratica e progressista in ogni parte d’Italia.
Il fascismo può sempre risorgere in Italia, in nuove forme, perché, come ha ben evidenziato Piero Gobetti, fa parte dell’«autobiografia della nazione». Giuseppe Carlo Marino ha definito Gramsci e Gobetti i «dioscuri» della democrazia italiana, perché, nonostante la loro giovane età, capirono sin dall’inizio che il fascismo non era una breve parentesi, un’influenza stagionale, come ritennero, invece, commettendo un errore macroscopico, alcuni vecchi «maestri del pensiero» liberale, i quali, in attesa che il raffreddore finisse da solo, pensarono bene di non esporsi troppo alle correnti d’aria, puntellando addirittura, in alcune fasi, il regime fascista con il loro prestigioso appoggio.
Dobbiamo a Gramsci e a Gobetti un’analisi profonda del fenomeno fascista, ancora attuale, che ne individua le radici nella storia tormentata dell’Italia. Gramsci, in particolare, colse la fisionomia del fascismo come regime reazionario di massa, che si avvalse, oltre che di un apparato repressivo, di un apparato ideologico, volto a creare un sistema propagandistico capace di plagiare sia il cittadino comune che i ceti cosiddetti «acculturati». Da qui la necessità di una «riforma intellettuale e morale» del Paese, che non si è realizzata a tutt’oggi.
L’analisi di Gramsci e di Gobetti va rilanciata e aggiornata sulla base delle riflessioni di Pier Paolo Pasolini sul «tecnofascismo», vale a dire sull’evoluzione che il fascismo ha conosciuto nella società capitalistica cosiddetta «matura».
Infine, vorrei richiamare il monito di un grande giurista, Piero Calamandrei, il quale ha sottolineato che la libertà è come l’aria: la respiriamo in ogni momento della nostra vita e non ci accorgiamo del suo valore; lo comprendiamo quando comincia a mancarci e abbiamo il fiato grosso. Cerchiamo di non accorgercene troppo tardi.

Antonio Catalfamo

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