">

IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
La pagina originale è all'indirizzo: http://www.pane-rose.it/index.php?c3:o55931

 

Zheng Chaolin, l'imperialismo e la rivoluzione cinese

(15 Marzo 2023)

Dalle conclusioni della postfazione al testo di Zheng Chaolin Il capitalismo di Stato

Zheng chaolin

Zheng Chaolin

Per quanto riguarda sua specifica valutazione della situazione cinese, Zheng Chaolin rifiuta, almeno a partire dalla fine degli anni ’30, di considerare la Cina una “semi-colonia”.

Per Zheng dopo il 1945 la Cina continentale, che era, almeno dal punto di vista formale, politicamente unita, indipendente e libera dalla presenza sul suo territorio di aree controllate militarmente da potenze straniere – sia sotto il Guomindang di Chiang Kai-shek che sotto il PCC di Mao Zedong –, non poteva essere considerata una semi-colonia, per quanto fosse economicamente e politicamente “dipendente” prima dagli USA e poi dall’URSS. Almeno non più di quanto Paesi imperialisti come Francia, Italia, Olanda e Belgio potessero essere considerati semi-colonie degli USA.

In posizione addirittura isolata all’interno della stessa ala sinistra del trotskismo cinese, Zheng Chaolin si era opposto, già in occasione dello scoppio della Seconda guerra sino-giapponese, al sostegno alla Resistenza anti-giapponese, sostenendo che il conflitto si inseriva pienamente nello scontro inter-imperialistico che di lì a poco sarebbe deflagrato nella Seconda guerra mondiale.


Dopo l’inizio delle ostilità, nel luglio 1937 il pericolo di una occupazione della Cina da parte del Giappone, che aveva già creato uno Stato fantoccio in Manciuria e che premeva sui confini orientali dell’URSS, spinse quest’ultima a fare pressioni sul PC cinese per consolidare la debole tregua che era stata stipulata un anno prima da quest’ultimo con il Guomindang, dopo circa un decennio di aspra guerra civile. Il Governo nazionalista cinese, d’altro canto, dopo l’avvicinamento dell’alleato tedesco al Giappone, si percepiva sempre più isolato ed era alla ricerca di una più favorevole posizione negoziale per scendere a compromessi con l’impero del Sol Levante. All’inizio della guerra, dunque, il rinnovato appoggio russo a Chiang Kai-shek si realizzò nel segno della cooperazione tra nazionalisti e maoisti[1]; ben presto, tuttavia, si rivelò impossibile – in virtù dell’andamento delle operazioni militari, dei fragili equilibri interni e delle relazioni della Cina con altri Paesi – scendere a patti con il Giappone, e la guerra proseguì. Nel 1939, quando i segni dell’imminente scoppio del conflitto mondiale si resero maggiormente evidenti, il governo del Guomindang optò per l’alleanza con le potenze “democratiche” occidentali e in particolare con gli USA, il più potente fra i rivali imperialistici del Giappone in Asia orientale. Ovviamente questa svolta implicava la rottura con l’URSS e quindi il venir meno della necessità di un “fronte comune” con il PCC, almeno fino alla fine del 1941, quando gli USA entrarono in guerra in alleanza con l’URSS. La guerra della Cina contro il Giappone non era che un settore dello scontro inter-imperialistico mondiale, il quale se inizialmente era rimasto militarmente circoscritto all’Asia orientale, nel giro di pochi anni si era allargato al resto del mondo. I piani e le operazioni militari del Guomindang non potevano che essere subordinati alla strategia della potenza statunitense e in misura minore a quella degli altri alleati imperialistici, così come le prospettive nazionali cinesi del dopoguerra sarebbero state inevitabilmente subordinate agli interessi delle potenze imperialiste che dal conflitto fossero uscite predominanti in Asia orientale.

Secondo Zheng, infatti, almeno dalla Seconda guerra mondiale in avanti, per quanto formalmente indipendente, la Cina non poteva liberarsi dalla concreta dipendenza nei confronti dei blocchi imperialisti vittoriosi se non per mezzo di una rivoluzione proletaria socialista. Una piena indipendenza della Cina dall’imperialismo americano e poi russo “su basi capitalistiche” non era per Zheng possibile, in quanto la borghesia cinese, che si trattasse delle frazioni che supportavano il Guomindang o di quelle dietro il PCC, non era in grado di realizzarla. Al massimo, le varie frazioni che si fossero avvicendate al governo potevano passare da una dipendenza all’altra, da una sfera d’influenza all’altra[2]. Tuttavia, Zheng Chaolin riteneva che la borghesia statale cinese (rappresentata politicamente dal PCC), fosse in grado di realizzare alcuni dei compiti della rivoluzione democratico borghese, segnatamente la riforma agraria e lo sviluppo della produzione industriale, pur non riconoscendole ciononostante alcun ruolo “progressivo”.

Per Zheng Chaolin l’imperialismo rappresenta una fase della maturazione del capitalismo, un livello raggiunto dalla dinamica dell’accumulazione capitalistica che permea la totalità dei nessi che intrecciano indissolubilmente tra di loro le aree del mercato mondiale, da quelle maggiormente sviluppate sino alle più arretrate. Per il marxista cinese se l’imperialismo è mondiale i compiti del proletariato lo sono altrettanto, quale che sia il livello di sviluppo del paese o dell’area in cui i singoli settori del proletariato si trovano a lottare. Se nella fase imperialista lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive alla scala mondiale consente il passaggio al socialismo, questo implica che il capitalismo e la classe borghese, in virtù dell’interdipendenza del mercato mondiale, sono ormai reazionari ovunque, anche nelle aree arretrate. Di conseguenza, la classe operaia, ovunque essa si trovi e quale che sia il livello di sviluppo locale del capitalismo, deve assumersi la direzione della rivoluzione, anche laddove i compiti economici di quest’ultima non possono consistere nell’immediato perseguimento della distruzione dei rapporti capitalistici di produzione, in stretto collegamento con il movimento rivoluzionario socialista della classe operaia mondiale. Soprattutto dal punto di vista di questo collegamento, una rivoluzione proletaria in un Paese arretrato – che per Zheng è l’unico modo di portare a termine anche i compiti di una rivoluzione democratico-borghese nazionale – colpendo una o più potenze imperialiste alla periferia del loro dominio, può avvantaggiare la lotta rivoluzionaria del proletariato nelle metropoli capitalisticamente mature, nei gangli vitali dell’imperialismo.

Prescindendo dal fatto che sia dal punto di vista della riforma agraria che da quello dell’industrializzazione il capitalismo di Stato cinese ha arrancato per più di un decennio, le valutazioni generali di Zheng Chaolin sono in larga misura condivisibili. Per quanto la borghesia nazionalista delle aree arretrate potesse, in particolari circostanze, possedere ancora la forza potenziale di portare avanti un processo rivoluzionario democratico-borghese, essa era, già all’epoca in cui l’internazionalista cinese scriveva il suo opuscolo, totalmente reazionaria nei confronti del movimento politico indipendente del proletariato, dal momento che quest’ultimo poteva storicamente sollevarla dalle proprie incombenze. Il passaggio della forza rivoluzionaria di questa borghesia dallo stato potenziale al suo dispiegamento effettivo, e il suo dispiegarsi in forme più o meno contraddittorie, esitanti e al limite tendenti al compromesso con le potenze imperialiste, era dunque subordinato al manifestarsi o meno dell’indipendenza del proletariato. La soluzione del problema dell’alleanza con le forze nazional-borghesi da parte di un movimento proletario indipendente era resa sempre più difficile dalla circostanza che quanto più è indipendente questo movimento tanto meno la borghesia nazionalista può assolvere i suoi compiti rivoluzionari in maniera conseguente e tanto più rivolgerà la propria violenza contro la classe operaia. Dunque, il prezzo di un’alleanza durevole con la borghesia nazionalista per il movimento operaio rivoluzionario corrispondeva sempre più alla completa rinuncia alla propria indipendenza politica, e persino all’obbligo di svolgere un ruolo di freno nei confronti delle rivendicazioni della propria classe, ovvero alla sua autonegazione in quanto movimento operaio rivoluzionario. Tale era il prezzo della “progressività” borghese che Zheng Chaolin riteneva inaccettabile.

Dal canto loro, le potenze imperialistiche, da quando esistono in quanto tali, hanno sempre impugnato e strumentalizzato le lotte di indipendenza nazionale dei Paesi coloniali e semi-coloniali, tuttavia, almeno fino ad un certo periodo, le borghesie nazionali dei Paesi oppressi erano perlopiù espressione di un effettivo sviluppo capitalistico endogeno, dotato di una certa forza propulsiva interna. L’appoggio esterno fornito a questi movimenti nazionali da parte delle diverse potenze imperialistiche, in funzione della loro reciproca contesa sui mercati mondiali, non creava questi stessi movimenti, e non poteva dunque manovrarli a proprio completo arbitrio sulla base degli interessi di queste potenze, come di fatto avviene al giorno d’oggi.

Effettivamente, il PCC di Mao Zedong, a differenza del Guomindang, si rivelò una forza borghese relativamente autonoma dalla centrale imperialistica a cui faceva riferimento: l’URSS. Dopo la disfatta della rivoluzione cinese del 1925-’27, ciò che rimaneva del PC – i pochi dirigenti del partito sopravvissuti e attivi perché scampati nelle campagne ai massacri urbani – erano legati allo stalinismo russo più ideologicamente che organizzativamente e materialmente. L’ideologia del “blocco delle quattro classi”, la glorificazione dei “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen e la concezione della rivoluzione “in due tempi” figlia degli interessi nazionali del capitalismo di Stato sovietico, che erano stati i capisaldi del condizionamento della Terza Internazionale stalinizzata nei confronti del giovane Partito Comunista Cinese, dopo il 1927 non incontrarono nessuna seria opposizione all’interno di un partito ormai isolato nelle immense campagne del Continente di mezzo. La teoria del socialismo in un solo Paese, l’identificazione del socialismo con la nazionalizzazione e con l’industrializzazione completarono il quadro, trasformando un partito che in precedenza possedeva un solido radicamento nella classe operaia cinese in un movimento con una base di massa contadina, che peraltro mutava persino la propria linea di politica agraria sulla base dei vari strati del contadiname sui quali alternativamente si appoggiava.

Le “circostanze particolari” che hanno permesso al maoismo di ottenere dei risultati notevoli (per quanto incompleti[3]) dal punto di vista democratico-borghese e nazionale sono state la sua vasta base di massa contadina; l’estrema inadeguatezza del marcio governo nazionalista del Guomindang, incapace di suscitare rispetto o partecipazione da parte delle masse contadine cinesi; l’alleanza militare con le potenze imperialiste occidentali nella guerra contro il Giappone (senza le quali difficilmente la guerra di liberazione avrebbe potuto essere vinta) e l’aver giocato efficacemente sui contrasti tra le varie potenze imperialiste, avvantaggiandosi maggiormente della perdita di sostegno americano a Chiang Kai-shek che dell’esiguo sostegno russo alle forze del PCC. Tuttavia, l’elemento fondamentale che ha permesso al maoismo di rappresentare una forza oggettivamente rivoluzionaria in senso borghese è rappresentato dalla totale assenza di qualsiasi ruolo attivo del movimento operaio cinese. Dal 1927 il proletariato urbano cinese era stato politicamente e fisicamente decapitato, organizzativamente disarticolato e completamente estromesso dalla vita politica del Paese. Il PCC non ha dovuto rapportarsi con un movimento di massa proletario che poteva autonomizzarsi, come è capitato ad altre borghesie nel corso di rivoluzioni nazionali nell’era dell’imperialismo, costrette dal timore dell’ascesa del proletariato in quanto soggetto sociale e politico al compromesso con l’imperialismo e all’abbandono di qualsiasi coerente obiettivo nazional-rivoluzionario; al contrario, il PCC di Mao poteva contare su una base di massa contadina che, pur con tutte le sue oscillazioni, non poteva uscire dal quadro delle rivendicazioni borghesi.

Per quanto l’ideologia maoista non rappresenti che una versione locale di quella stalinista, la presa del potere da parte del PCC in Cina non ha rappresentato una controrivoluzione – come lo stalinismo –, non è stata il risultato della degenerazione di una rivoluzione proletaria vittoriosa, bensì un’effettiva rivoluzione borghese. Tuttavia, l’esito borghese della rivoluzione cinese fu il prodotto diretto – e non solo ideologicamente – della controrivoluzione russa.

E quella russa è stata una controrivoluzione non perché abbia rappresentato un ritorno verso rapporti di produzione capitalistici da parte di un Paese che li avesse già superati o che avesse avviato il processo per superarli, ma perché esprimendo lo sviluppo di quegli stessi rapporti capitalistici in Russia, sotto le mentite spoglie della “costruzione del socialismo”, doveva necessariamente sabotare la rivoluzione internazionale, doveva rappresentare un nemico in più – e il più subdolo – per la classe operaia mondiale. Da questo punto di vista, il fatto che lo stalinismo abbia sviluppato le forze produttive dell’arretrata economia russa è del tutto secondario rispetto al prezzo che di quella controrivoluzione il movimento operaio internazionale ha pagato e continua ancora oggi a pagare. Depotenziare il ruolo reazionario dello stalinismo in virtù dello sviluppo economico russo significa concepire la portata della controrivoluzione dal più ristretto angolo visuale nazionale e non alla scala mondiale[4].

Purtroppo, il grandioso movimento del proletariato cinese raggiunse il suo apice, sotto la spinta dell’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre, quando nel rifluire della crisi rivoluzionaria nelle metropoli imperialiste si era già avviato e sostanzialmente concluso il processo controrivoluzionario in Russia. Ciò implica non soltanto che un’eventuale dittatura del proletariato cinese non avrebbe potuto saldarsi con un potere rivoluzionario russo, che ormai non esisteva più, ma anche che l’URSS, tramite il Comintern, avrebbe avuto un ruolo attivo – come in effetti ebbe – nell’impedire che la rivoluzione cinese trascendesse gli obiettivi borghesi.

La classe operaia cinese, nonostante la sua esiguità numerica rispetto alla popolazione complessiva, era molto concentrata ed era persino maggioritaria in alcune fondamentali aree industriali del Paese, come Shanghai, Wuhan, Canton, Hong Kong, Tianjin. Si trattava di un proletariato estremamente combattivo che non ebbe il tempo di forgiare un’adeguata coscienza teorica organizzata nel fuoco delle gigantesche lotte che affrontò eroicamente nell’arco di pochissimi anni.

Una rivoluzione proletaria vittoriosa in Cina non poteva prescindere dall’esistenza di un partito comunista all’altezza dei propri compiti – e l’influenza del Comintern stalinizzato non era certamente esercitata in questa direzione –, ad ogni modo molto difficilmente questa ipotetica vittoria rivoluzionaria avrebbe potuto, nel biennio 1925-’27, invertire il processo di stabilizzazione del capitalismo in Occidente dopo la crisi culminata nella Prima guerra mondiale e nel biennio post-bellico. Altrettanto difficilmente avrebbe potuto rappresentare un’occasione di rilancio per le forze rivoluzionarie in Russia, che, seppure ancora attive nel Partito Comunista Russo, erano ormai definitivamente sconfitte e marginalizzate dal punto di vista politico e sociale, per quanto poco ne fossero all’epoca consapevoli. Una vittoria del proletariato cinese avrebbe potuto realizzarsi solo come risultato della coerente politica internazionalista di un autentico partito rivoluzionario nei confronti dei soviet operai e nei confronti delle rivendicazioni delle masse contadine; ma questo partito avrebbe dovuto rompere con il Comintern e denunciarne l’asservimento agli interessi del capitalismo di Stato russo e instaurare una comune rivoluzionaria di dimensioni continentali, la cui dinamica avrebbe quantomeno permesso alle minoranze rivoluzionarie russe e internazionali di accelerare il processo di chiarificazione del ruolo controrivoluzionario della Russia staliniana. Un risultato decisamente più importante della stessa sopravvivenza della “comune cinese” in un contesto di isolamento internazionale.

Questo partito rivoluzionario, che allora non esisteva, avrebbe dovuto essere l’obiettivo primario delle minoranze internazionaliste cinesi nel corso delle lotte degli anni ‘20. Il fatto che questo non sia avvenuto, che in Cina la rivoluzione borghese e lo sviluppo capitalistico si siano “tinti di socialismo” a spese della rivoluzione socialista proletaria e che questo sviluppo sia giunto oggi a far emergere una potenza imperialista cinese, nulla toglie all’importanza dell’elaborazione – nonostante i pur presenti limiti – di un lucido, coraggioso e troppo poco noto esponente di queste minoranze quale è stato Zheng Chaolin.

Circolo internazionalista «coalizione operaia»

NOTE

[1] «… quando, nel dicembre del 1937, Chiang Kai-shek decretò la pena di morte per gli operai che avessero scioperato durante la guerra, un portavoce del PCC dichiarò ad un giornalista che era “intimamente soddisfatto” della posizione del governo del Guomindang al riguardo della guerra». A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, Ceidem, Pistoia, 1976, pp. 18-19.

[2] Il costante dissidio russo-cinese – determinato essenzialmente dal drenaggio di risorse operato dall’URSS nei confronti della Cina per mezzo degli “scambi ineguali”, dalla difficoltà economica dell’imperialismo russo di esportare capitali in Cina e dalla scarsa volontà di rafforzare un potenziale concorrente – una volta conclamato, spingerà in effetti la Repubblica Popolare a cercare “nuovi investitori” tra le altre potenze imperialiste.

[3] Ci riferiamo principalmente alla riforma agraria esitante e alla mancata unificazione di Formosa al continente.

[4] «Questa conclusione a proposito del carattere reazionario del capitalismo di Stato russo, nonostante il rapido sviluppo delle sue forze produttive, può essere confutata solo potendo dimostrare che il capitalismo mondiale non abbia preparato le condizioni materiali essenziali per l’instaurazione del socialismo […]». T. Cliff, Capitalismo di Stato in Russia, Prospettiva edizioni, 1999, p. 136.

Circolo Internazionalista "Coalizione Operaia"

4560