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(26 Marzo 2023)
Una svolta nel “canone” del Novecento letterario italiano
Maria Teresa Liuzzo rinnova il suo impegno letterario con un altro romanzo: “La luce del ritorno” (A.G.A.R. Editrice, Reggio Calabria, 2022, s.i.p.). Non siamo in presenza di una scrittrice che si possa liquidare, come spesso avviene con tante altre che transitano nel campo delle lettere, con il classico «medaglione», vale a dire con alcuni dati biografici, un elenco di opere e di premi, un riassunto del contenuto e qualche estrapolazione di brani. Fare ciò significherebbe sminuire la Liuzzo, il suo spessore artistico e la portata della svolta che ha introdotto in questo nostro secondo Novecento così affollato di «minori», che sgomitano per trovare spazio, con l’ausilio di critici compiacenti, i quali cercano di dimostrare come tutti costoro abbiano portato un contributo, seppur minimo, al «canone» della letteratura contemporanea. Un’operazione di tal genere, fra l’altro, sarebbe sbagliata, perché la Liuzzo non rientra in nessun presunto «canone», costruito artificialmente ed artificiosamente dalla critica, né, per converso, cerca di affermarsi, come fanno altri ancora, ostentando un «anticanone», fintamente contestativo del «canone». C’è chi, infatti, per farsi largo, urla il proprio «impegno», contrapposto al «disimpegno» per così dire «canonico», piagnucola per essere stato «oscurato», tenuto ai margini. Ma il sogno proibito degli «anticanonici» per autoproclamazione è quello di essere “cooptati”, inseriti nell’esercito dei “questuanti”, dei “clientes”, per essere “tacitati” e gratificati con qualche piccolo riconoscimento.
Maria Teresa Liuzzo non fa parte dell’Italietta attuale, votata all’accattonaggio politico e letterario. Non chiede di essere “intruppata”, anzi trasforma la sua originalità, per noi indiscutibile, in una bandiera da far garrire al vento da sola, senza “spinte” e “puntelli”, senza sostegni che non siano quelli derivanti dalle doti artistiche che la natura le ha conferito e che lei ha saputo affinare lavorando non tanto di lima, come gli orafi, ma con l’energia del fabbro che forgia e modella il ferro con il martello, mentre è ancora incandescente, sopra l’incudine, con una maestria che rimonta nei secoli, anzi nei millenni. Forza vitale e maestria artistica convivono nella sua opera, che solo i veri critici, come il suo conterraneo Antonio Piromalli, hanno saputo valorizzare, inserendola in quella letteratura meridionale, alla quale Gramsci, riferendosi a Pirandello, riconosceva, nell’ambito del panorama nazionale, una sua specificità e, addirittura, per certi aspetti, un primato.
Mi preme, allora, fissare su carta alcune novità che la scrittrice, a mio avviso, ha introdotto nel panorama letterario contemporaneo, che si presenta esangue, ripetitivo, privo di succhi vitali e di rapporto fecondativo con la realtà vera. Novità che, però, hanno lontane scaturigini, radici profonde nella migliore tradizione letteraria del passato. Da tempo medito su di esse ed ora trovo in questo romanzo importanti conferme.
Innanzitutto, questo nuovo romanzo di Maria Teresa Liuzzo, così come i precedenti, che con esso costituiscono una serie, non è imprigionato dentro una trama, dentro gli orizzonti della “fabula”, dell’ “intreccio”, fissati dalle teorie narratologiche “consolidate”. Non siamo, dall’altro lato, di fronte ad uno sperimentalismo fine a se stesso, come se ne trovano tanti nella letteratura “togata”.
Si ripone, invece, una grande questione teorica e pratica: quella dell’unità di un’opera letteraria. Cesare Pavese se l’è posta a proposito dei poemi omerici e della propria opera, in versi e in prosa, ed ha trovato, sia nelle note che accompagnano l’edizione einaudiana del 1943 di “Lavorare stanca” sia nelle pagine così dense del suo diario, “Il mestiere di vivere”, soluzioni ch’egli stesso ha considerato provvisorie, destinate ad essere messe continuamente in discussione, ad essere superate e, nel contempo, ricomprese dialetticamente, ad un livello superiore, in altre. Pavese attribuisce centralità e funzione unificante ai «rapporti fantastici» sottesi alla realtà, che il poeta (e lo scrittore) deve cogliere e recepire nella sua opera. Siamo in presenza, per certi aspetti, della riproposizione di teorie estetiche simboliste, che lo scrittore langarolo negli anni successivi supererà di slancio, pervenendo, nelle opere narrative e negli scritti teorici della piena maturità (si pensi al saggio “Poesia è libertà”), a un «realismo simbolico» di matrice dantesca, fondato su un giusto equilibrio tra realtà e simbolo.
Ma io credo che il caso della Liuzzo sia più simile a quello dell’ “Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto. Lanfranco Caretti ha sottolineato la «struttura aperta» del poema ariostesco, tutta «percorsa da una energia dinamica», conferita dal convergere in esso della realtà in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue passioni, tanto da poter affermare che il “Furioso” racchiude in sé «il senso libero, estroso, incalcolabile e inesauribile della vita». Nel romanzo della Liuzzo che stiamo qui esaminando si intrecciano vari eventi, che al lettore superficiale potrebbero sembrare slegati: si passa dalla realtà drammatica e, in certi momenti, brutale alla componente fiabesca, dall’amore vissuto con grande intensità all’odio viscerale che caratterizza determinati personaggi. Ma a conferire unità è la figura di Mary, che è con tutta evidenza proiezione autobiografica dell’autrice, la cui vita viene ripercorsa attraverso l’angolo visuale di una bambola, ch’ella ebbe da bambina e conservò per tutta l’esistenza come una confidente, ma pure un “alter ego”. Si noti qui l’originalità dell’ “espediente” narrativo, la sua suggestività, la tenerezza e il “pathos” ch’esso conferisce al racconto. Ma la scrittrice va oltre con la sua creatività narrativa. La vita di Mary viene ricostruita dopo la morte, anzi, diremmo, dall’angolo visuale della morte. E qui Maria Teresa Liuzzo si pone in linea di continuità con la migliore letteratura novecentesca, anch’essa estranea al «canone». Era, ad esempio, Cesare Pavese a voler raccontare e raccontarsi «come dopo morto», da una prospettiva che garantisce il necessario distacco per un’analisi razionale, talvolta impietosa. Ed è, per l’appunto, “impietosa” l’analisi che viene offerta, in questo romanzo, della travagliata esistenza di Mary, degli odi che permangono anche dopo la sua morte in capo alla madre e alle zie, degli amori che conservano, da un lato, la loro dolcezza e la loro passionalità, e, dall’altro, la loro contraddittorietà e, addirittura, la loro violenza.
Dicevamo della componente fiabesca che permette di accostare il romanzo della Liuzzo al “Furioso”. La critica più avveduta ha individuato il «nucleo genetico», il «centro ideologico», del poema ariostesco nel castello di Atlante e nel viaggio di Astolfo sulla luna. Nel “Furioso” chi si avvicina al castello di Atlante crede di vedere tutto ciò che ama ed agogna, ma l’illusione dura poco e la realtà si ripresenta in tutta la sua tragicità. Nel romanzo della Liuzzo lo stesso ruolo del castello di Atlante è rappresentato dal castello del Principe, popolato di elfi e di fate, «tra arcate di muschio, aiuole di corniola, smeraldo d’erba, e serpeggiare di ruscelli» (p. 120). Mia, da bambola di pezza, viene trasformata in una «bellissima bambina in carne ed ossa» (ibidem). Ma il romanzo si conclude con alcuni interrogativi inquietanti, che non trovano risposta: «Quale sarà il potere dell’energia della vita che muove i nostri gesti? Quale la giusta frequenza da intercettare? Rinascerà l’amore tra Raf e Mary nell’universo? Quale magica trama, seppur sotto sotto nascosta, attraversa le metamorfosi dell’infinito? Nell’eterno gioco della vita, sarà Raf più umano e più onesto? O rimarrà prigioniero degli orrori e delle afflizioni mentali?» (p. 121).
Dopo l’incantesimo, il mondo si ripresenta «grande e terribile», secondo l’ineguagliabile definizione di Gramsci. A dispetto dell’immagine «pessimistica» che è stata data da tanta parte della critica, pur autorevole, del Leopardi, nello “Zibaldone” egli rappresenta la natura nella sua «varietà», comprensiva delle sue contraddizioni, che coesistono: la gioia e il dolore, l’amore e l’odio, il razionale e l’irrazionale, il caldo e il freddo, il grande e il piccolo, il finito e l’infinito, il ponderabile e l’imponderabile. Così è la vita quale emerge da questo romanzo di Maria Teresa Liuzzo, lungo il solco segnato dai grandi della letteratura, come il Leopardi stesso e l’Ariosto. Un ponte teso, dunque, tra passato e presente.
Il viaggio di Astolfo sulla luna, in sella all’Ippogrifo, per recuperare il senno di Orlando, rappresenta il tentativo di rimediare alla follia che domina la società cinquecentesca in cui vive l’Ariosto. Anche questo profilo riveste grande attualità nel mondo nostro contemporaneo e trova concretizzazione nel romanzo di Maria Teresa Liuzzo in molte pagine dedicate all’odio viscerale che, senza motivazione razionale, anzi in maniera irrazionale, si scatena contro Mary, figura di donna violata e pura.
Antonio Catalfamo
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