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Il declino costante dei salari in Italia

(28 Marzo 2023)

Dal n. 421 de "Il Partito Comunista"

il partito comunista

Nell’inserto economico del Corriere della Sera del 13 febbraio scorso, a corollario di un articolo titolato “I giovani in trappola. Pagati poco, fin dall’inizio” è stato pubblicato un grafico sulla serie storica dei salari dei lavoratori in Italia che prende in esame gli anni dal 1975 al 2018. Il grafico è interessante oltre che per il fatto di analizzare un arco di tempo abbastanza lungo, quasi 50 anni, perché divide i lavoratori in tre fasce di età: da 15 a 29 anni, da 30 a 49, sopra i 50.....

Nei mesi passati hanno suscitato clamore le statistiche dell’OCSE secondo cui il salario medio in Italia sarebbe inferiore del 2,9% rispetto il 1990. I dati del grafico confermano il quadro arricchendolo di elementi importanti.

Per la fascia dei giovani lavoratori, dai 15 ai 29 anni, il salario medio dal 1975 al 2018 non è mai cresciuto, anzi è sceso costantemente! Se nel 1975 il salario medio era a un indice 80, nel 2018 era all’incirca a 58, cioè oltre un quarto in meno. Quindi per i giovani proletari, il salario medio non è sceso del 2,9% dal 1990, bensì di oltre il 27,5% dal 1975!

Una tipica azione padronale, avallata dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), è quella di introdurre un doppio regime contrattuale, di dividere i lavoratori permettendo alle aziende di introdurre peggioramenti per i neoassunti.

Questo è avvenuto e continua ad avvenire con accordi aziendali e, sul piano generale, con l’introduzione di forme contrattuali flessibili, che hanno fatto dilagare la precarietà lavorativa. Sicché oggi i giovani ricevono salari autenticamente da fame e subiscono in massimo grado il ricatto del licenziamento.

Questa condizione del proletariato giovanile è inoltre mistificata con l’infame propaganda ideologica che dipinge i giovani, naturalmente considerati come un gruppo sociale omogeneo al di sopra della divisione in classi, senza voglia di lavorare: così in tanti, sgobbano ancora di più e i padroni possono sfruttarli meglio.

Passiamo alla fascia d’età da 30 a 49 anni. Per questi lavoratori si osserva che il salario medio è restato sostanzialmente invariato dal 1975 al 1990: indice 124, circa. È dal 1990 che inizia un calo, fino che nel 2018 si ha un indice 108, circa. Quindi, anche per questi lavoratori il salario medio nel 2018 è inferiore a quello del 1975, grosso modo di poco più del 15%! E oggi, dopo 4 anni, sarà certamente peggio, con l’aumento dell’inflazione.

Terza fascia d’età, cioè i lavoratori sopra i 50 anni. Questa frazione della classe lavoratrice è l’unica che ha visto il salario medio crescere in modo sensibile dopo il 1975, allorquando l’indice era pari a 120. La crescita si ha fino al 2000, quando si raggiunge l’indice 148: un aumento del 23,3%. Dal 2000 inizia un calo che porta il salario medio per i lavoratori sopra i 50 anni nel 2018 a un indice 122. Appena sopra all’indice del 1975, ma possiamo supporre ormai – nel 2023 – uguale o inferiore a quello.

Il grafico conferma quanto affermato dal nostro partito: con la crisi economica 1973-’74 si è chiuso il ciclo di crescita dell’accumulazione del capitale per i paesi capitalisticamente maturi – cosiddetti occidentali – e si è aperto il ciclo di crisi di sovrapproduzione, che si manifesta attraverso l’esplosione di periodiche crisi recessive.

Ciò si è riflesso sul piano delle condizioni della classe proletaria, in un arresto del loro progresso e nell’inizio del loro arretramento, prima graduale e poi sempre più accentuato.

I giovani proletari, che fino al 2000, potevano sperare, col passare degli anni, di porre rimedio ai primi duri tempi di magri salari d’ingresso con salari crescenti col maturare dell’anzianità lavorativa, oggi vedono progressivamente svanire anche questa labile speranza e si ritrovano con la prospettiva di salari sempre più vicini alla pura sussistenza, per di più per tutta la vita.

Si vede bene il risultato a lungo termine dell’azione padronale di divisione dei lavoratori: prima hanno colpito i giovani lasciando indenni gli adulti e gli anziani. Dopo 15 anni, nel 1990, quei giovani, divenuti adulti, abituati a salari in calo, hanno continuato a ricevere salari decrescenti rispetto a quanto prima ricevevano i lavoratori di quella fascia d’età. Dal 2000 la discesa ha iniziato a interessare anche gli ultra cinquantenni che oggi raggiungono le altre due fasce d’età nello scendere a livelli salariali precedenti il 1975.

In questa situazione e nella aspettativa che essa non si invertirà affatto, essendo determinata dall’avanzare della crisi economica mondiale del capitalismo, è certo il ritorno della classe lavoratrice alla lotta in difesa del salario. Questo naturalmente, essendo il capitalismo una società internazionale, fin dalle sue remote origini nel mercantilismo del XV secolo, sarà un fenomeno internazionale, del quale già registriamo i primi evidenti sintomi, con le lotte in Francia, nel Regno Unito, in Turchia, negli Stati Uniti, per fare gli esempi più vistosi.

Sorge naturalmente la domanda del perché in Italia, con salari al di sotto della media europea, la classe lavoratrice permanga ancora in uno stato di passività.

Non è un quesito semplice e i fattori sono sicuramente vari. Uno può essere la forte propensione al risparmio delle famiglie italiane, che ha permesso loro di accumulare una certa riserva che temporaneamente mette al riparo almeno una parte della classe lavoratrice dalla miseria avanzante. Questo si accompagna con una riduzione dei consumi, con i giovani che “scelgono” di non sposarsi, non riprodursi e vivere in famiglia fino a 30 anni e oltre.

Un altro fattore che spiega questo stato di passività della classe operaia italiana può essere la persistenza di un ampio strato di piccola borghesia, che smorza i contrasti fra proletariato e borghesia, coi suoi mille legami che danno all’ambiente sociale un’apparenza interclassista. Il tessuto di piccole imprese, la maggioranza in difficoltà a sopravvivere alla crisi, assicura da un lato salari bassi e precari, dall’altro – finché non riesploderà la lotta di classe – la sudditanza dei dipendenti al paternalismo padronale, e difficoltà ad organizzarsi e a lottare.

Vi è un terzo fattore su cui è da riflettere. In Francia e in parte anche in Gran Bretagna, le categorie che più sono scese in sciopero in questi ultimi mesi e anni sono i lavoratori della scuola, della sanità, dei trasporti, dei porti e, per la sola Francia, del settore petrolchimico. Per ottenere aumenti salariali, i petrolchimici francesi a novembre hanno scioperato per 20 giorni consecutivi, guidati da una delle federazioni di categoria combattive della CGT, che è invece a maggioranza collaborazionista.

Tutte le categorie succitate in Italia sono sottoposte alla legge anti-sciopero, la 146 del 1990, modificata nel 2000 dal governo D’Alema. Questa legge fu invocata dai sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) per fermare in quelle categorie – e non solo – l’avanzata del sindacalismo di base, che giustamente si distingueva per la promozione di numerosi scioperi.

In virtù di quella legge, col tempo modificata in senso ulteriormente restrittivo, una vasta parte della classe lavoratrice – le stesse categorie protagoniste delle lotte in corso in Francia – può compiere scioperi non più lunghi di 24 ore, e in rare eccezioni di 48 ore. Oltre a ciò, lo sciopero deve essere annunciato con largo anticipo. Non può essere deciso, per esempio, da una assemblea sul posto di lavoro. Inoltre, fra uno sciopero e l’altro, deve passare un certo intervallo di tempo, in media due settimane.

Questa legge non riguarda solo i dipendenti statali, come erroneamente si crede, ma tutti i lavoratori, anche dipendenti di aziende private, che si trovano ad operare in un settore rientrante nei cosiddetti “servizi pubblici essenziali”. Ad esempio le inservienti alla mensa, addetti alle pulizie, alla manutenzione, giardinieri, magari dipendenti di una cooperativa, operante all’interno di un ospedale.

Di fatto in Italia la libertà di sciopero per una parte consistente dei lavoratori è negata da una legge fascista approvata in regime democratico, guidato da un governo di sinistra, voluta dai sindacati di regime.

Quindi, a ben vedere, Landini, invitando la Meloni al Congresso Cgil, compie un atto in piena consonanza col percorso politico sindacale della Cgil ricostituita “dall’alto” sul finire della seconda guerra mondiale. Per giustificarsi s’è richiamato all’opera di Bruno Trentin segretario generale della Cgil dal 1988 al 1994 e in precedenza segretario generale della Fiom, dal 1962 al 1977. Colui che, due anni dopo aver incassato la legge contro lo sciopero e contro i sindacati di base, siglava l’accordo per finire di smantellare la scala mobile e avviare la cosiddetta “politica dei redditi”. Per questo, a Firenze, prima si prese un cazzotto in faccia da un lavoratore, poi dovette farsi proteggere dalle forze dell’ordine mentre cercava di parlare dal palco, sotto una pioggia di bulloni.

Landini è una lugubre e slavata comparsa a guida del barroccio che trasporta il feretro del sindacalismo di regime verso il suo mesto destino. Infatti noi sappiamo che la classe lavoratrice, spinta dalle condizioni materiali, tornerà alla lotta spezzando ogni vincolo, anche legislativo, contro ogni repressione. Ne scriveremo nel prossimo numero, sull’esempio degli scioperi del marzo del 1943, in pieno fascismo.

Partito Comunista Internazionale

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