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L. Trotsky – UN NUOVO GRANDE SCRITTORE: JEAN MALAQUAIS

(5 Maggio 2023)

jean malaquais

Jean Malaquais

Un nouveau grand écrivain: Jean Malaquais. Traduzione dal francese di Rostrum (marzo 2023) tratta da L. Trotsky Littérature et révolution, Les Editions de la Passion, Paris, 2000, pp. 192-198 e pubblicata nel n. 111 di Prospettiva Marxista (maggio 2023).

Nato nel 1908 a Varsavia da una famiglia ebraica, Wladimir Jan Pavel Malacki abbandonò giovanissimo la Polonia per diventare un “apolide per convinzione”, viaggiando in diversi paesi e facendo i lavori più svariati. Sbarcato in Francia, visse in ristrettezze coltivando la sua passione per la letteratura e studiando disperatamente per raggiungere una perfetta conoscenza dell’amata lingua francese. Entrato in corrispondenza con lo scrittore André Gide, che lo consigliò e lo sostenne ai suoi esordi letterari, pubblicò i romanzi I giavanesi (1939), Pianeta senza visto (1947) e La città senza cielo (1953), prima di dedicarsi agli studi filosofici. Mobilitato nel 1939 nell’esercito francese, venne fatto prigioniero dai tedeschi nel 1940. Riuscito ad evadere e a raggiungere Marsiglia, all’epoca sotto il regime di Vichy, rientrò in contatto con un gruppo della Sinistra comunista in Francia, mantenendo fino alla fine dei suoi giorni le proprie convinzioni internazionaliste[1]. Riuscito a partire per il Messico a ridosso dell’occupazione nazista della città, si trasferì per alcuni anni negli Stati Uniti e poi in Svizzera, dove si spense nel 1998.

L’articolo che segue è stato scritto nell’agosto del 1939, come recensione de I giavanesi,
il primo romanzo di Jean Malaquais, una copia del quale era stata inviata dall’autore stesso a Trotsky. L’articolo, inviato a diverse riviste borghesi, all’epoca venne rifiutato. Quando per il suo romanzo a Malaquais fu assegnato il premio Renaudot, portandolo alla notorietà e ovviando alla necessità di richiamare l’attenzione del pubblico sul nuovo scrittore, Trotsky chiese al suo agente letterario di ritirare l’articolo, che venne pubblicato per la prima volta in traduzione inglese su Fourth International, New York, Volume II, n. 1, nel febbraio 1941. Qui appare nella nostra traduzione in italiano.

Malaquais accennò a questa recensione in una lettera ad André Gide del 29 agosto 1939:

Ricevute due lettere di Trotsky, estremamente lusinghiere, sul mio libro, la seconda delle quali accompagnata da un articolo molto lungo (undici pagine) che vuole far pubblicare sulla stampa americana sui miei giavanesi. Aggiunge che farà degli sforzi affinché io possa ottenere il permesso di andare in Messico.[2]

Ed effettivamente la recensione di Trotsky è degna del bellissimo romanzo di Malaquais, capace di restituire senza orpelli e abbellimenti una realtà, quella dei lavoratori migranti fra le due guerre mondiali, diversa per cause e dimensioni da quella che viviamo oggi ma accomunata a quest’ultima dall’utilizzo strumentale del nazionalismo, del razzismo, del populismo da parte di politicanti al servizio di una borghesia mai stanca di dividere la classe operaia fra ultimi e penultimi, trovando sponda nelle mezze classi e purtroppo anche tra gli elementi peggiori della nostra stessa classe, maggiormente inclini a perseguire la più facile via di minor resistenza.

Oggi che ritornano in voga espressioni come “pericolo di sostituzione etnica” – sostituzione che sarebbe persino auspicabile se simili affermazioni potessero essere attribuite a caratteristiche etniche di chi le pronuncia – il romanzo di Malaquais e le inerenti riflessioni di Trotsky ci richiamano urgentemente alla necessità per il proletariato di ritrovare il coraggio di unirsi, per ricostruire una coscienza organizzata, per difendere i propri autentici interessi, che non conoscono confini di etnia, di credo o di nazionalità; per ristabilire un principio che è al tempo stesso una forza reale e un ideale infinitamente più pulito di quanto potrà mai essere qualsiasi cupido e ristretto nazionalismo: il principio dell’internazionalismo proletario.
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Coyoacan, 7 agosto 1939

È un bene che sulla terra non esista solamente la politica, ma anche l’arte. È un bene che l’arte sia inesauribile nelle sue potenzialità, come la vita stessa. In un certo senso, l’arte è più ricca della vita, perché può ingrandire o rimpicciolire, dipingere a colori vivaci o, al contrario, limitarsi al carboncino, può presentare uno stesso oggetto da diverse angolazioni e illuminarlo in modi differenti. Napoleone fu unico. Le sue rappresentazioni nell’arte sono molteplici.

La fortezza di Pietro e Paolo e le altre prigioni zariste mi hanno avvicinato al romanzo francese, tanto che per più di tre decenni ho seguito, più o meno bene, i notevoli sviluppi della letteratura francese. Anche durante gli anni della guerra civile, nella carrozza del mio treno militare, lessi un romanzo francese recente. Dopo il mio esilio a Costantinopoli, raccolsi una piccola biblioteca di opere francesi contemporanee, che bruciò con tutti i miei libri nel marzo del 1931. Negli ultimi anni, tuttavia, il mio interesse per il romanzo si è affievolito, se non è scomparso del tutto. Troppi eventi importanti sono passati sopra la nostra terra, in parte anche sopra la mia testa. La finzione romanzesca ha cominciato a sembrarmi insipida, quasi banale. Ho letto con interesse i primi volumi dell’epopea di Jules Romains[3]. Gli ultimi, dedicati principalmente alla guerra, mi sono sembrati un pallido reportage. La guerra, ovviamente, non trova generalmente spazio nell’arte. Il più delle volte, la pittura delle battaglie è semplicemente ingenua. Ma questo non è l’unico problema. Così come un cibo troppo piccante anestetizza il palato, anche l’accumularsi di catastrofi storiche spegne l’interesse per la letteratura. Tuttavia, negli ultimi giorni ho avuto modo di ripetere: è un bene che esista l’arte sulla terra.

Un autore che non conoscevo, Jean Malaquais, mi ha inviato il suo libro, dal titolo enigmatico: I giavanesi. Il romanzo è dedicato ad André Gide, il che mi ha reso un po’ diffidente. Gide è troppo lontano da noi, così come l’epoca a cui si accordano le sue ricerche lente e confortevoli. Anche le sue opere recenti si leggono – seppur con interesse – più come documenti umani di un passato che è definitivamente passato. Tuttavia, fin dalle prime pagine mi è apparso chiaro che Malaquais non è stato in alcun modo influenzato da Gide. L’autore è in tutto e per tutto indipendente; questa è la sua forza, una forza particolarmente preziosa nel nostro tempo, in cui la dipendenza letteraria in tutti i suoi aspetti è diventata la regola. Il nome Malaquais non mi ricordava nulla, se non una strada di Parigi. I giavanesi è il primo romanzo dell’autore; altri titoli lo accompagnano, ma si tratta di libri ancora “in preparazione”[4]. Tuttavia, leggendo questa prima opera, un pensiero viene subito alla mente: il nome Malaquais deve essere ricordato.

L’autore è giovane e ama la vita con passione. Ma sa già come stabilire tra sé e la vita la distanza artistica necessaria per non annegare nel proprio soggettivismo.

Amare la vita con l’amore superficiale del dilettante – esistono dilettanti della vita così come esistono dilettanti dell’arte – non è un gran merito. Amare la vita con gli occhi aperti, senza mettere a tacere la propria critica, senza illusioni, senza abbellirla, amarla così com’è, per quello che in essa c’è e ancor più per quello che essa può diventare, è in un certo senso una conquista. Dare espressione artistica a questo amore per la vita, quando si dipinge lo strato sociale più basso, è un grande merito artistico.

Nel sud della Francia, duecento uomini estraggono piombo e argento da una miniera fatiscente; il proprietario, un inglese, non vuole spendere soldi per rinnovare le attrezzature. Nella regione ci sono diversi stranieri espulsi dai loro Paesi, senza visti, senza documenti, malvisti dalla polizia. Sono poco esigenti in termini di alloggio e condizioni di sicurezza, e sono disposti a lavorare per qualsiasi salario. La miniera, con la sua popolazione emarginata, forma un piccolo mondo chiuso, come un’isola, a cui è stato affibbiato il nome di un’altra isola: Giava, molto probabilmente scelto perché i francesi usano la parola “giavanese” per descrivere ciò che è incomprensibile ed esotico.

Quasi tutte le nazionalità europee, e non solo, sono rappresentate a “Giava”. Russi bianchi, polacchi, italiani, spagnoli, greci, cechi, slovacchi, tedeschi, austriaci, arabi, un armeno, un giapponese, un nero, un ebreo ucraino, un finlandese… Tra tutti questi meteci c’è solo un francese, un pietoso sventurato che sventola la bandiera della Terza Repubblica. Nella baracca addossata al muro di una fabbrica bruciata da tempo, vivono tre dozzine di scapoli, che imprecano ognuno in una lingua che è di tutti e di nessuno. Poi ci sono le donne, che provengono da ogni angolo della terra, e che aumentano ulteriormente l’imbroglio linguistico.

Dozzine di giavanesi sfilano dinanzi a noi; su ciascuno rimane un riflesso della propria patria perduta, ciascuno possiede una personalità convincente e si regge senza l’aiuto dell’autore, o almeno senza il suo aiuto visibile. L’austriaco Karl Müller, che ha nostalgia di Vienna e recita le coniugazioni dei tempi inglesi; Hans, figlio del viceammiraglio tedesco Ulrich[5] von Taupfen, ex ufficiale di marina che ha partecipato alla rivolta dei marinai a Kiel; l’armeno Albudizian, che per la prima volta a “Giava” mangia a sazietà e si ubriaca persino; l’agronomo russo Belsky, la cui moglie non è del tutto in sé e la cui figlia è pazza; il vecchio minatore Ponzoni, che ha perso i figli in miniera in Italia e che chiacchiera volentieri tanto con il muro, quanto con il vicino di lavoro, o con un sasso sulla strada; il “dottor Magnus”, che ha rinunciato agli studi universitari in Ucraina poco prima di completarli, per non vivere come gli altri; il nero americano Hilary Hodge, che ogni domenica pulisce i suoi scarpini di vernice, ricordo del passato, senza mai indossarli; l’ex commerciante russo Blutov, che si finge un ex generale per attirare clienti nel suo futuro ristorante. Blutov muore prima dell’inizio del romanzo, lasciando alla vedova il compito di raccontare la sua avventura.

Sopravvissuti di famiglie distrutte, avventurieri, partecipanti occasionali a rivoluzioni o a controrivoluzioni, detriti di movimenti nazionali e di disastri nazionali, esuli di ogni tipo, sognatori e ladri, codardi e mezzi eroi, sradicati, figliol prodighi del nostro tempo: questa è la popolazione di “Giava”, “un’isola galleggiante”, “aggrappata alla coda del diavolo”. “Non c’è un solo centimetro quadrato su tutta la superficie del globo”, dice Hans von Taupfen, “su cui mettere il tuo grazioso piedino; eccetto questo si è liberi, purché entro il confine, entro tutti i confini”. Il brigadiere della gendarmeria Carboni, amante dei buoni sigari e dei vini pregiati, chiude un occhio sugli isolani. Temporaneamente, in effetti, essi si trovano “oltre ogni confine”. Ma questo non gli impedisce di vivere a modo loro. Gli uomini dormono su sacchi di paglia, spesso senza spogliarsi, fumano molto e bevono moltissimo, mangiano pane e formaggio per risparmiare per il vino, si lavano raramente e puzzano di sudore, tabacco e alcool.

Non c’è un personaggio centrale nel romanzo, né una trama unica. In un certo senso, l’eroe principale è l’autore stesso, ma egli non compare. La storia copre un periodo di pochi mesi e, come la vita stessa, è composta da episodi. Nonostante l’esotismo del soggetto, il libro è lontano da qualsiasi folklore, come dall’etnografia o dalla sociologia. È nel vero senso della parola un romanzo, un pezzo di vita trasformato in arte. Si può pensare che l’autore abbia scelto di proposito un'”isola” isolata per rappresentare più accuratamente i caratteri e le passioni umane, che qui giocano un ruolo non meno importante che in qualsiasi altro strato della società. La gente ama, odia, piange, ricorda, digrigna i denti. C’è la nascita di un bambino nella famiglia del polacco Warski, il suo battesimo solenne; altrove, la morte, la disperazione delle donne, la sepoltura; e infine, l’amore della prostituta per il dottor Magnus, che finora non aveva conosciuto donne. Questo episodio delicato sfiora il melodramma, ma l’autore se la cava con onore in questa prova autoinflitta.

La storia di due arabi, cugini di primo grado, Elahacine ben Kalifa e Daud Halima, attraversa la narrazione. Trasgredendo una volta alla settimana la legge di Maometto, la domenica bevono vino, ma di misura, solo tre litri, per non compromettere l’accumulo dei cinquemila franchi che permetteranno loro di tornare a casa, nel dipartimento di Costantina[6]. Non sono veri giavanesi, sono qui temporaneamente. Ma Elahacine rimane ucciso nella miniera durante una frana. La storia dei tentativi di Daud di ottenere i propri soldi dalla cassa di risparmio rimane impressa nella memoria per sempre. L’arabo aspetta per ore, chiede, spera, aspetta ancora pazientemente. Alla fine, il suo libretto viene confiscato perché è intestato a Elahacine, l’unico dei due a saper firmare con il proprio nome. Questa tragedia in miniatura è raccontata in modo perfetto!

Madame Michel, la proprietaria dell’osteria, si arricchisce a poco a poco sulle spalle di queste persone, per cui non prova simpatia e che disprezza. Non solo perché non capisce le loro conversazioni rumorose, ma anche perché sono troppo generose con le mance, perché spariscono troppo spesso per chissà dove: persone frivole che non meritano fiducia. Insieme all’osteria, il bordello, che si trova nelle vicinanze, occupa ovviamente un posto importante nella vita di Giava. Malaquais li ritrae entrambi nei dettagli, in modo spietato e al tempo stesso straordinariamente umano.

I giavanesi vedono il mondo dal basso: gettati nei bassifondi della società, sono costretti a sdraiarsi supini sul fondo della miniera, per tagliare o scavare la pietra che li sovrasta. È una prospettiva particolare. Malaquais ne conosce bene le leggi e sa come usarle. Il lavoro in miniera è evocato con economia, senza dettagli inutili, ma con una forza notevole. Un artista, un semplice osservatore, non scrive in questo modo, anche se è sceso dieci volte nel pozzo per cercare quei dettagli tecnici che Jules Romains, per esempio, ama tanto ostentare. Solo un ex minatore, che si è rivelato un grande artista, può scrivere in questo modo.

Pur avendo una dimensione sociale, il romanzo non è assolutamente tendenzioso. Non vuole dimostrare nulla e non fa propaganda di nulla, a differenza di tante opere del nostro tempo che, in troppi casi, si sottomettono agli ordini, anche nel campo dell’arte. Il romanzo di Malaquais è “soltanto” un’opera artistica. E allo stesso tempo sentiamo ad ogni passo le convulsioni del nostro tempo, il più grandioso e mostruoso, il più cruciale e dispotico, che la storia umana abbia finora conosciuto. L’unione di un lirismo personale refrattario e di una violenta poesia epica, quella del suo tempo, è forse il fascino principale di quest’opera.

La situazione di illegalità dura da anni. Nei momenti difficili, il direttore inglese, sempre ubriaco, privo di un occhio e di una mano, allietava il brigadiere della gendarmeria con vino e sigari. I giavanesi continuavano a lavorare senza documenti, nelle pericolose gallerie delle miniere, si ubriacavano da Madame Michel, si nascondevano dietro gli alberi quando incontravano i gendarmi. Ma tutto ha una fine.

Il meccanico Karl, figlio di un fornaio viennese, ha lasciato il suo lavoro nel capannone senza permesso; vaga al sole sulla riva sabbiosa, ascolta il rumore delle onde e interpella gli alberi che incontra. Nel villaggio vicino alla fabbrica lavorano dei francesi. Hanno le loro casette, con acqua ed elettricità, le loro galline, i loro conigli, le loro insalate. Karl, come la maggior parte dei giavanesi, guarda a questo mondo sedentario senza invidia, anzi con una sfumatura di disprezzo. Hanno “perso il senso dello spazio, ma hanno acquisito il senso della proprietà”. Karl fende l’aria con un gambo di canna che ha raccolto, vorrebbe cantare, ma non avendo voce, fischia.

Nel frattempo, c’è una frana nella miniera e due uomini vengono uccisi: il russo Malinoff, che, a suo dire, ha riconquistato da solo Nižnij Novgorod dai bolscevichi, e l’arabo Elahacine ben Kalifa. Il gentiluomo Yakovlev, ex primo studente del Conservatorio di Mosca, depreda l’anziana russa Sofia Fedorovna, vedova di un generale immaginario, una strega che ha accumulato qualche migliaio di franchi. Karl si affaccia per sbaglio alla finestra aperta e Yakovlev lo colpisce alla testa con un ciocco. È così che la catastrofe si abbatte su “Giava”, una serie di catastrofi. La disperazione senza limiti della vecchia è orrenda: essa volta le spalle al mondo, risponde alle domande del gendarme con insulti, rimane a terra senza mangiare né dormire per un giorno, due o tre, ondeggiando da una parte all’altra in mezzo alla sua sporcizia, con il ronzio delle mosche.

Il furto suscita una nota sul giornale. Dove sono le autorità consolari? Perché non vigilano? Il gendarme Carboni riceve una circolare sulla necessità di un rigido controllo degli stranieri. Questa volta i liquori e i sigari di John Kerrigan non hanno effetto. “Siamo in Francia, Monsieur le Directeur, e dobbiamo rispettare le leggi francesi”. Il direttore è costretto a telegrafare a Londra. La risposta è: chiudere la miniera.

L’esistenza di Giava finisce. I giavanesi si disperdono, per nascondersi in altre fessure.

Il tono ampolloso è estraneo a Malaquais; egli non evita né parole forti né scene crude. La letteratura attuale, in particolare quella francese, si concede in questo senso molto di più di quanto si permettesse il vecchio naturalismo dell’epoca di Zola, condannato dai rigoristi. Sarebbe comicamente pedante filosofeggiare sul tema: è un bene, è un male? La vita è diventata più nuda, più spietata, soprattutto dopo la guerra mondiale, che ha distrutto non solo molte cattedrali, ma anche molte convenzioni; alla letteratura non resta che adeguarsi alla vita. Ma quanta differenza tra Malaquais e un altro scrittore francese, che si è reso famoso qualche anno fa con un libro di eccezionale crudezza! Sto parlando di Céline[7]. Nessuno prima di lui aveva parlato dei bisogni e delle funzioni del misero corpo umano con tanta insistenza fisiologica. Ma la mano di Céline è guidata da un risentimento amaro, che mira a sminuire l’uomo. L’artista, medico di professione, sembra voler suggerire che la creatura umana, costretta com’è a svolgere funzioni così vili, non è diversa dal cane o dall’asino, se non per una maggiore astuzia e spirito di vendetta. Questo atteggiamento odioso nei confronti della vita ha tarpato le ali all’arte di Céline: egli non è andato oltre il primo libro. Quasi contemporaneamente a Céline divenne rapidamente famoso un altro scettico, Malraux, che cercava giustificazioni al suo pessimismo non in basso, nella fisiologia, ma in alto, nelle manifestazioni dell’eroismo umano. Malraux ha scritto uno o due libri importanti. Ma gli manca un fulcro interiore, si sforza in modo organico di affidarsi ad una forza esterna, ad un’autorità stabilita.

L’assenza di indipendenza creativa diffonde il veleno dell’insincerità nelle sue opere successive e le rende vane.

Malaquais non ha paura di ciò che di vile e di volgare c’è nella nostra natura, perché, ciononostante, l’uomo è capace di creazione, di slancio, di eroismo – non c’è nulla di sterile in questo. Come tutti gli autentici ottimisti, Malaquais ama l’uomo per le possibilità che esistono in lui. Gor’kij disse una volta: “L’uomo, questo suona fieramente!” Malaquais forse non direbbe cose così didascaliche. Ma è proprio un atteggiamento simile nei confronti dell’uomo che attraversa il suo romanzo. Il talento di Malaquais ha due alleati sicuri: l’ottimismo e l’indipendenza.

Abbiamo appena nominato Maksim Gor’kij, un altro campione degli scalzi. Il parallelo s’impone da sé. Ricordo molto bene lo shock che il primo grande racconto di Gor’kij, Čelkaš (1895), produsse sul pubblico. Un giovane vagabondo proveniente dai bassifondi della società faceva la sua magistrale apparizione nell’arena della letteratura. Nelle sue opere successive, Gor’kij non superò il livello del suo primo racconto. Malaquais non è meno sorprendente per la sicurezza della sua prima manifestazione. È impossibile dire di lui: è pieno di aspettative. Egli è già un artista consumato. Nelle scuole dell’antichità, i neofiti venivano sottoposti a prove crudeli, percosse, intimidazioni, derisioni, per temprarli in breve tempo. È questa tempra che la vita ha dato a Malaquais, come a Gor’kij prima di lui. Li ha sballottati da una parte all’altra, li ha buttati a terra, li ha colpiti da dietro e da davanti e, dopo questo trattamento, li ha gettati nell’arena degli scrittori come maestri fatti e finiti.

Ma allo stesso tempo che enorme differenza tra i loro tempi, tra i loro eroi, tra i loro mezzi letterari! Gli scalzi di Gor’kij non sono i sedimenti della vecchia cultura cittadina, ma i contadini di ieri, non ancora assorbiti dalla nuova città industriale. Vagabondi della primavera del capitalismo, portano l’impronta della vita patriarcale e una sorta di ingenuità. La Russia, ancora giovane politicamente, era in preda alla sua prima rivoluzione. La letteratura viveva di attese inquiete e di entusiasmi esagerati. Gli scalzi di Gor’kij sono colorati da un romanticismo prerivoluzionario. Non per niente è passato mezzo secolo. La Russia e l’Europa hanno vissuto una serie di sconvolgimenti politici e la più terribile delle guerre. I grandi eventi hanno portato con sé un bagaglio di esperienze, in genere l’amara esperienza della sconfitta e della disillusione. Gli scalzi di Malaquais sono il prodotto di una civiltà matura. Guardano il mondo con occhi meno stupiti e più esperti. Non appartengono ad una nazione, sono cosmopoliti. Gli scalzi di Gor’kij hanno vagato dal Baltico al Mar Nero o a Sakhalin. I giavanesi non conoscono confini di Stato; sono ugualmente a casa e ugualmente stranieri nelle miniere di Algeri, nelle foreste del Canada o nelle piantagioni di caffè del Brasile. Il lirismo di Gor’kij è lieve, quasi sentimentale, spesso declamatorio. Non meno intenso nei contenuti, il lirismo di Malaquais è molto più contenuto nella forma: l’ironia lo disciplina.

La letteratura francese, conservatrice ed esclusiva come tutta la cultura francese, è lenta ad assimilare parole nuove, mentre ne crea per tutto il mondo; rimane piuttosto chiusa alle influenze straniere. È vero che dal dopoguerra una corrente di cosmopolitismo è entrata nella vita francese. I francesi hanno iniziato a viaggiare di più, a conoscere meglio la geografia e le lingue straniere. Maurois[8] ha introdotto nella letteratura una forma stilizzata di inglese, Paul Morand i locali notturni di tutte le parti del mondo. Tuttavia, questo cosmopolitismo conserva l’impronta indelebile del turismo. Con Malaquais è molto diverso. Egli non è un turista. Si è spostato da un Paese all’altro, di solito con mezzi non approvati né dalle ferrovie né dalla polizia. Ha dormito a tutte le latitudini, ha lavorato dove ha potuto, è stato perseguitato, ha sofferto la fame ed ha ricevuto, dal nostro pianeta, una massa di impressioni mentre si impregnava dell’atmosfera delle miniere, delle piantagioni e dei locali a buon mercato, dove i reietti internazionali spendono senza lesinare i loro magri salari.

Malaquais è un autentico scrittore francese; possiede la tecnica francese del romanzo, la più alta al mondo, per non parlare della perfezione della lingua. Ma non è un francese. Lo sospettavo quando ho letto il romanzo. Non perché il tono della narrazione rivelasse lo straniero, l’osservatore esterno; non è così: nelle pagine del libro in cui compaiono dei francesi, questi sono autentici francesi. Ma nell’approccio dell’autore non solo alla Francia, ma alla vita in generale, si percepisce il “giavanese”, che si è elevato al di sopra di Giava. Questo potere non è dato ai francesi. Nonostante tutti gli sconvolgimenti dell’ultimo quarto di secolo, sono troppo legati al loro modo di vivere, troppo costanti nelle loro abitudini, nelle loro tradizioni, per vedere il mondo con gli occhi di un vagabondo. L’autore mi ha risposto, quando gliel’ho chiesto per lettera, che era di origine polacca. Avrei dovuto immaginarlo. Il capitolo iniziale del romanzo è incentrato su un giovane polacco, quasi un bambino, con i capelli di lino e gli occhi azzurri avidi di impressioni; ha lo stomaco contratto dalla fame e la cattiva abitudine di soffiarsi il naso con le dita. È Maniek Bryla. Ha lasciato Varsavia sotto il pavimento di un vagone ristorante, sognando Timbuctù. Se non è Malaquais, è suo fratello di sangue e di spirito. Maniek ha trascorso più di dieci anni sulla strada, ha imparato molto, è diventato un uomo; ma non ha perso la sua freschezza d’animo, anzi, l’inestinguibile sete di vita è aumentata in lui, come testimonia perentoriamente il suo primo libro. Aspettiamo il secondo. Sembra che il passaporto di Malaquais non sia ancora perfettamente in regola. Ma la letteratura gli ha già conferito pieno diritto di cittadinanza.

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NOTE

[1] In un’intervista rilasciata nel 1996 a François de Massot per il giornale Informations Ouvrieres Jean Malaquais scrisse: «Credo che Trotsky sia rimasto colpito dal fatto che nel libro Stalin appare come l’incarnazione del male. A questo proposito, vorrei raccontare un aneddoto. Il mio libro è stato tradotto in ungherese. In questa traduzione, il nome di Trotsky compare ripetutamente. In realtà, il nome di Trotsky non compare mai nel mio romanzo: è stato inserito al posto di quello di Stalin dagli editori che erano sotto il controllo degli stalinisti. Non sono mai stato membro di un’organizzazione trotskista. Ma c’è un punto su cui non ho dubbi. Per me lo stalinismo è la forma suprema di controrivoluzione, il vomito della terra […] i crimini dello stalinismo sono abominevoli. La cosa peggiore è che lo stalinismo ha screditato per lungo tempo – forse per un secolo – l’idea stessa di una società senza classi».

[2] André Gide – Jean Malaquais, Correspondance, 1935-1950, Phébus, Paris, 2000, p. 88.

[3]
Jules Romains, Les Hommes de Bonne Volonté.

[4] Nella prima edizione de I giavanesi, erano annunciati come lavori di prossima pubblicazione dello stesso autore la raccolta di racconti Coups de barre e il romanzo La Fuite en avant, che non fu mai pubblicato, almeno non con questo titolo.

[5] Svista dell’autore, nel romanzo di Malaquais il padre di Hans risponde al nome di Hugo von Taupfen.

[6] In Algeria, allora colonia francese.

[7] Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte.

[8] Émile Herzog, noto come André Maurois (1885-1967), autore de “I silenzi del colonnello Bramble“, durante la guerra era stato ufficiale di collegamento con l’esercito britannico.

Circolo internazionalista "coalizione operaia"

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