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il pane e le rose

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Una risposta ai cabotaggi riformistici

(9 Maggio 2023)

di nuovo battaglia comunista

Che il quadro generale dell’economia sia allarmante, anche per la stessa borghesia, è evidente. Gli “economisti seri” (?) prevedono una preoccupante stagnazione economica, verso una recessione che avrebbe costi enormi e potrebbe portare ad una “pericolosa degenerazione” del tessuto sociale. Se ne discute fra i medici al capezzale del sofferente capitalismo sia nazionale sia internazionale; molti tornano persino a riscaldare la tisana dell’intervento statale che miracolosamente dovrebbe creare occupazione aiutando il mercato. Sempre con qualche colpo di bacchetta magica, come quella che in un secolo di storia si è abbattuta su di noi con tragiche conseguenze.

Da una fonte come quella della Banca d’Italia proveniva pochi anni fa uno studio dal quale si apprendeva che la nostra classe borghese deteneva portafogli ripieni di quasi 3 mila miliardi di euro: una ricchezza finanziaria costituita da depositi bancari per circa un 30%; il resto in titoli italiani o esteri. Una parte della piccola borghesia e tutta la massa del proletariato (un totale – dicono loro – di almeno l’80% del “popolo”) si gode le briciole di un tale baccanale, che in tutte le società capitaliste (comprese quelle che figurano in cammino verso il… socialismo con targa “XXI secolo”!) si celebra quotidianamente inneggiando alla pace, giustizia ed equità sociale, con un democratico riguardo al benessere delle singole persone… E mentre il boato delle esplosioni missilistiche si avvicina, oggi qualcuno ritorna ad avanzare l’idea di una imposta patrimoniale sulla ricchezza, fermo restando – e lo dicono a chiare lettere! – che tale fonte (cioè i patrimoni personali) resti “consistente e stabile”

Ai piani alti dei palazzi, i cervelloni al potere discettano su come meglio elargire le necessarie dosi di sacrifici - e sangue – da distribuire nel nome di una liberalizzazione dei mercati e di un ribasso dei costi del lavoro, quanto basta per offrire merci a prezzi appetibili e prodotte con le più alte tecnologie, poco sensibili alle sbandierate “riconversioni ecologiche e difese dei beni comuni…”.

L’importante è non disturbare quella mercificazione che – sempre in nome della sostenibilità - va ad intaccare la stessa vita umana e l’ambiente terrestre. L’obiettivo sarebbe quello di rincorrere la crescita dei valori monetari delle merci prodotte, con la speranza di venderle. Sviluppo e crescita: è il ritornello che tutti cantano (sia i governi che i sindacati) controllando gli indici delle Borse, i numeri (in ribasso) del Pil e gli sbalzi subiti da rating, spread e quant’altro.

L’aumento della produttività del lavoro, cioè della quantità di merci prodotte per unità di forza-lavoro impiegata, porta ai mercati una mole di prodotti (molti inutili…) i quali - anche se venduti - contengono una minore quantità di valore e plusvalore.

Questa tendenziale caduta del tasso medio di profitto è in atto fin dal primo dopoguerra (1); le reazioni americane sono state quelle che hanno visto gli Usa partecipi – diretti o indiretti – a manovre e contese internazionali che poi avrebbero pagato i proletari dei vari paesi.

Ma intanto quel denaro che doveva trasformarsi in capitale vero e proprio, ha cominciato a spostarsi dai settori produttivi a quelli finanziario-speculativi. Qui non si produce plusvalore e si possono avere momentanei guadagni, anche notevoli, solo rastrellando il plusvalore prodotto altrove. Dunque guadagni, per i settori finanziari, che derivano dalla creazione di debiti (crediti) e non da alcun nuovo valore. E cresce la bolla speculativa che quando esplode (e deve per forza esplodere) travolge l’intero castello creatosi al di fuori della sfera produttiva, dalla quale i capitali si sono allontanati per “sete” di maggiori profitti di quelli, in calo, che la produzione di merci può dare.

Col capitale produttivo sempre più in difficoltà, la crisi morde ora anche i settori finanziari. Aumenta così senza alcun possibile freno la diffusione di titoli di debito (obbligazioni, derivati, ecc.) e si innalzano artificiosamente i loro prezzi. L’espansione del fenomeno è inarrestabile, fino ad una esplosione finale quando, non potendo più essere rimunerati, si dissolverà l’illusione delle loro rendite speculative. E’ evidente, poiché il plusvalore si “produce” unicamente nella sfera della produzione, che quello che viene diffuso nella sfera finanziaria è una sottrazione di plusvalore “prodotto” dallo sfruttamento del lavoro nelle industrie. Arrivano i fallimenti, aggravati dalla interconnessione dei crediti che si bloccano verso le imprese produttive, molte delle quali hanno investito in attività finanziarie e ora sommano perdite su perdite.

L’incremento dei derivati – si parla di almeno 700 trilioni di dollari (al solo loro valore nominale) allarga in modo enorme la dilatazione di un già gigantesco capitale fittizio che non produce alcun plusvalore e quindi avvicina la sempre più probabile crisi del capitale reale, soprattutto in caso di fallimento di uno o più istituti finanziari/speculativi. In particolare pericolo sono le 4 maggiori Banche americane che hanno in mano, da sole, derivati per almeno 200 trilioni…

Disoccupazione e invendibilità delle merci continuano; i capitalisti più deboli soccombono e gli altri ne approfittano per ridurre i salari degli operai e aumentarne lo sfruttamento. In un certo senso il ciclo della produzione di plusvalore può riprendere soltanto sulla base di investimenti in più efficienti mezzi di produzione e avanzate tecnologie. Ma anche se può riprendere una fase ascendente, la sua temporaneità è in stretta correlazione con una forza-lavoro che nei fondamentali settori produttivi subisce un costante ridimensionamento verso il basso. Si continua a creare una catena di debiti con una moltiplicazione di “derivati” che, all’interruzione dei pagamenti, collassano su se stessi dando il via ad un vero e proprio effetto domino facendo crollare la piramide che si era costruita.

L’uscita da questi infernali gironi dipende dall’avviarsi di un processo rivoluzionario collettivo al quale guardiamo mentre risuonano, come il rintocco di campane a morte, le parole di Marx: «Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione». La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. «Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica.»

La civiltà borghese, mercantile e monetaria, sta minacciando apertamente gli equilibri vitali del pianeta. Superano il miliardo gli esseri umani che vivono nell'indigenza, e molti soffrono la fame. La povertà si sta diffondendo anche nei cosiddetti paesi ricchi e siamo, ogni giorno di più, minacciati dalla distruzione della vita sulla Terra, o – al meglio - di uno sprofondamento nella barbarie.

Le condizioni oggettive stanno indubbiamente preparando il maturare di situazioni insostenibili che potrebbero, finalmente, spingere le masse proletarie a quella aperta lotta di classe che – sola – potrà portarci al radicale cambiamento del presente stato di cose. Le contraddizioni presenti in questa società stanno diventando esplosive e soltanto una rivoluzione sociale potrà mutare il corso, altrimenti tragico, di questa fase storica.

Ma una rivoluzione non avverrà meccanicamente, spontaneamente, a seguito di uno sviluppo delle forze produttive. Già nel passato – a noi molto vicino – abbiamo conosciuto le più nefande fasi reazionarie con le quali il capitalismo e la borghesia hanno risposto al pericolo per loro rappresentato dal possibile svilupparsi di crisi economiche, sociali e politiche. E’ quindi indispensabile la presenza della organizzazione politica che dovrà guidare il proletariato alla conquista del potere. Non si tratta di un processo facile e breve; anche se riceve spinte molto determinanti, queste devono però incontrarsi con quel momento di “commozione rivoluzionaria” che Marx stesso riteneva necessario per cambiare il corso della storia.

La liberazione dalle tante alienazioni in cui è caduta la specie umana non potrà avvenire se non attraverso una prassi che coinvolga il proletariato, le masse sfruttate e oppresse, in un processo rivoluzionario collettivo senza il quale diventerebbe impossibile la trasformazione sia delle circostanze e sia della coscienza mistificata degli uomini. Entrambe – un assioma fondamentale per Marx e per noi – sono fra di loro coincidenti.

Occorre spezzare i vincoli che ci incatenano al presente stato di cose. E’ quindi necessario che si affermi la consapevolezza che “la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro” hanno raggiunto “un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico”. Un involucro che finirà con l’essere spezzato, e qui Marx parlava di un “processo naturale”, ma la sua “ineluttabilità” può avere tempi non brevi durante i quali esiste, sì, una “tendenza” ma questa dovrà essere sostenuta - affinché diventi una valida caratteristica storica - dal cosciente rifiuto della condizione di addomesticamento socio-politico nel quale le grandi masse sono state irretite. Il dominio non solo materiale ma anche spirituale della classe borghese, ha diffuso il desiderio di quei falsi bisogni che spingono molti al mantenimento e alla continua riproduzione di questo assurdo modo mercantile di produzione e consumo. Trascinare le masse fuori dal peso opprimente di insoddisfazioni e frustrazioni, è uno dei compiti che il partito dovrà svolgere.

Ed è per questo che la rivendicazione di salari più alti o egualitari, al fine di acquistare più merci, non basta: occorre lottare per un ben differente modo di produrre e far circolare prodotti e materie prime senza più la mediazione né del salario né del denaro. Proprio perché l’enorme sviluppo delle forze produttive può finalmente consentire un radicale superamento degli attuali rapporti di produzione.

La gravità delle condizioni di esistenza in cui versano centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, è tale da esigere una risposta rivoluzionaria dei proletari. Ma l’inizio di un così formidabile svolta storica nell’assetto sociale della vita umana non sarà un immediato rapporto di causa ed effetto. Potrebbero succedersi altri periodi di orribili e sanguinosi accadimenti, sofferenze, crudeltà e barbarie.

La stessa vita sulla Terra potrebbe essere in grave pericolo. Il tempo stringe: occorre rimboccarsi le maniche e a molte di quelle che si spacciano per avanguardie di classe, si chiede di volgere lo sguardo oltre il proprio ombelico…

NOTE

Secondo dati statisticamente elaborati da economisti, quali Roberts e Carchedi (The World in crisis, Zero Books), che si collocano quanto meno al di fuori dal coro ufficiale degli… “esperti”, il capitalismo non permette più vie d'uscita come in parte fu con la guerra del 1939-45, quando si è avuto l'ultimo sprazzo di vitalità, cioè di stimolo alla produzione e al consumo di merci. Va poi detto, come ripetiamo spesso, che l’attuale sistema economico-sociale a forza di autoregolarsi (sempre secondo le proprie logiche…) è entrato in una fase del tutto negativa. Dalle analisi dei due economisti, risulterebbe che un saggio medio di profitto, che ai primi del novecento si aggirava attorno al 30%, negli anni immediatamente successivi alla fine del primo conflitto imperialistico si abbassò fino al 15% (anni 30). Seguì poi – con il secondo conflitto imperialistico - una risalita fino ad oltre il 25%. Ma da allora, con qualche alterno periodo di “ripresa”, siamo scesi ad un 10% il quale mostra chiaramente come il capitalismo sia ormai caduto in una condizione di agonia senza possibilità di riprese. Una enorme quantità di capitale finanziario lo sta ora soffocando.

Tendenza Comunista Internazionalista

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