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(22 Maggio 2023)
Non sono tempi entusiasmanti, questo è sicuro. Ma, per certi versi, l’assemblea di ieri a Mestre è stata entusiasmante. Il numero era modesto, 80 partecipanti circa: non è con numeri del genere che si cambia il corso delle cose, l’abbiamo presente. Tuttavia la densità e la limpidezza di classe, internazionalista, dei contenuti, il calore e la convergenza degli interventi, l’attenzione dei presenti, in larga parte giovani, lungo le tre ore e passa dei lavori, sono state speciali. E hanno lasciato in tutte/i un sentimento di profonda soddisfazione, premessa di altre iniziative che possono lasciare il segno.
L’assemblea aveva un titolo inequivoco: “La sorte delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati è la sorte di tutti”. Si è aperta con un filmato centrato sui misfatti del colonialismo e del neo-colonialismo, due grandi fonti permanenti delle migrazioni internazionali, sistematicamente cancellate dal pensiero di stato dominante, ma anche dagli approcci paternalistici, romantici o piagnoni a questo drammatico fenomeno che coinvolge nel mondo una massa di centinaia di milioni di sfruttate/i.
Nella sua quanto mai stringata introduzione Pietro Basso (Tir) ha ridicolizzato la tesi dell’immigrazione come emergenza, o come complotto, e la bufala accademica, cara ai cosiddetti disobbedienti, del “libero migrante”, per ribadire il carattere essenzialmente forzato delle migrazioni, delle emigrazioni. Ha ricordato le parole-chiave da tenere presenti, illustrate a dovere nel n. 3 del Cuneo rosso: colonialismo, neo-colonialismo, disuguaglianza di sviluppo, debito estero, land grabbing, l’agribusiness che distrugge l’agricoltura tradizionale, guerre, guerre, ancora guerre, catastrofi ecologiche. E ha spiegato che questo inquadramento non è affatto in contraddizione con il riconoscimento del “fattore soggettivo”, collettivo e anche individuale, sempre storicamente e socialmente determinato, che spinge le/gli emigranti fuori dalla loro terra di nascita alla ricerca di una nuova terra in cui conquistare una vita degna di essere vissuta per sé e i propri cari.
Sennonché in questa ricerca vanno ad impattare in discriminazioni di ogni tipo, super-sfruttamento, umiliazioni, razzismo, violenze a cui hanno dimostrato ampiamente, nella storia del movimento operaio, di voler e saper reagire – a cominciare dalla lotta per la giornata lavorativa di otto ore, che vide proprio gli emigranti in prima fila. In Italia negli ultimi vent’anni due sono state le esperienze di lotta che hanno espresso questa reazione: nei primi anni duemila, il movimento organizzato intorno al Comitato immigrati in Italia, protagonista della lotta per la regolarizzazione e il permesso di soggiorno a tutti gli immigrati (e di molto altro); negli ultimi dieci anni il ciclo di lotte dei facchini e dei driver della logistica organizzati, nella loro espressione più combattiva, nel SI Cobas, che ha prodotto un cambiamento radicale delle condizioni di lavoro e di salario in molti magazzini delle più grandi multinazionali del settore.
La contro-reazione padronale e statale all’uno e all’altro ciclo di lotte è passata e passa attraverso la semina sistematica di razzismo (razzismo di stato) e una molteplicità di prassi e di normative che dentro i luoghi di lavoro e nei più vari momenti della vita sociale puntano a creare gerarchie, spaccature, odi, innaturali antagonismi tra italiani ed immigrati, facendo di questi ultimi il capro espiatorio di tutti i mali sociali. Di qui la necessità, per i lavoratori italiani coscienti di sé, di non restare inerti, passivi davanti a questa azione del binomio stato-padroni, e attivarsi in solidarietà con i fratelli e le sorelle di classe immigrati perché “la sorte delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati è la sorte di tutti” – in quanto questi sono diventati, definitivamente, una parte integrante della composizione di classe, sulla quale vengono sperimentate le forme più estreme di torchiatura e di oppressione.
A conclusione dell’introduzione, Pietro Basso ha ricordato le principali rivendicazioni immediate messe a punto da anni dagli internazionalisti: regolarizzazione immediata e incondizionata di tutti gli immigrati e le immigrate con un permesso di soggiorno europeo a tempo indeterminato; abrogazione dei decreti Piantedosi, Salvini, Minniti e di tutta la legislazione speciale contro gli immigrati; completa parità effettiva di trattamento sul lavoro e di diritti tra autoctoni e immigrati; jus soli; demolizione di tutti i centri di detenzione amministrativa; denuncia della politica UE di chiusura e di esternalizzazione delle frontiere. E ha collocato queste rivendicazioni immediate di lotta in una prospettiva di azione politica che faccia scendere dal cielo stellato dei principi alla realtà il “proletari di tutti i paesi unitevi, non avete nulla da perdere, solo un mondo nuovo da conquistare”. Dopotutto, la nascita su larghissima scala di un proletariato immediatamente multinazionale è un’ottima premessa per liberarsi dalla più fatale di tutte le illusioni che hanno funestato la vita e la lotta dei proletari: il nazionalismo, la possibilità – rilanciata in Italia dalla squallida propaganda del governo Meloni – di stare meglio accettando di fare gli schiavi tricolore della borghesia ‘nazionale’.
Purtroppo il coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani non ha potuto partecipare di persona all’assemblea, ma ha inviato egualmente in viva voce l’augurio di buon lavoro, con un riferimento particolare alla situazione della Fincantieri di Marghera, all’interno della quale lavorano in condizioni non di rado indegne, se non proibitive, migliaia di proletari immigrati da ogni parte del mondo (alcuni di loro, di nazionalità bengalese, erano presenti in sala).
Al saluto di Aldo Milani è seguito l’intervento (da Roma) di Miriam Jaramillo, storica portavoce femminile del Comitato immigrati in Italia che ha presentato, giustamente, le lotte dei primi anni duemila a Brescia, a Roma e in altre città come il terreno su cui si è impiantato ed è fiorito anche il ciclo di lotte della logistica. Perché avere conquistato per milioni di immigrati il permesso di soggiorno, e via via il permesso di soggiorno di lunga durata, ha tolto dalle mani dei singoli padroni e dello stato – almeno in parte, nulla è definitivo nello scontro di classe – un fondamentale potere di ricatto. Miriam Jaramillo ha poi rivendicato con orgoglio che l’attività del Comitato immigrati in Italia non si è limitata alla battaglia contro la legge Bossi-Fini (e la Turco-Napolitano), perché ha portato sulla scena sociale e politica italiana i temi del neo-colonialismo e della guerra, esprimendo per anni e anni la propria solidarietà a tanti momenti di lotta che non riguardavano in prima istanza le popolazioni immigrate. Infine ha rivolto a tutti l’invito a partecipare all’incontro europeo dell’IMA che si terrà a Roma nel prossimo fine settimana.
Il lucidissimo intervento di Markol Malocaj (Fgc) è partito ricordando un lontano articolo su una questione apparentemente solo linguistica, “non chiamateli migranti” (bensì emigranti e immigrati), per spiegare come le politiche borghesi e governative – anche sul piano della propaganda – abbiano un elemento di scientificità da tenere ben presente: le lavoratrici e i lavoratori immigrati debbono essere manodopera a basso costo, e l’intera trafila dell’immigrazione si presenta come una vera e propria “tratta degli schiavi”. Il governo Meloni personifica al meglio questa politica di guerra agli immigrati sul piano politico e ideologico, agitando addirittura il tema della “sostituzione etnica” per aizzare il massimo di contrapposizione possibile tra proletari italiani e immigrati. La personifica – ha tenuto a precisare contro ogni forma di social-nazionalismo, di “sovranismo” – non in quanto schiavo di interessi altrui (secondo il motivetto stonato dell’Italia colonia…), ma semplicemente perché persegue con le sue politiche gli interessi dell’imperialismo italiano, all’interno, è ovvio, del quadro di alleanze dato. Dopo aver ricordato il ruolo di avanguardia svolto in più circostanze, anche in Italia, dai proletari immigrati, Markol Malocaj ha sottolineato con forza che la ricomposizione complessiva della classe e la riconquista della sua autonomia passano di necessità attraverso il loro protagonismo. E ha dato appuntamento all’importante assemblea contro la guerra in Ucraina dell’11 giugno a Milano, nella quale, concentrandoci contro il nemico “in casa nostra”, non si faranno però sconti a Russia e Cina come presunti capitalismi buoni…
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Il moderatore ha fatto fatica a contenere nei tempi previsti (non riuscendoci affatto) il trascinante intervento di Asmeron Zemenfes, delegato del SI Cobas di Milano che ha raccontato la sua esperienza di emigrazione dall’Eritrea, un paese in guerra quasi permanente grazie ai vecchi e ai nuovi colonialismi. Un’esperienza durata tre anni (2004-2007) attraverso peripezie, sacrifici, dolori, incertezze (4 tentativi per mare), proseguita nei primi anni di permanenza in Italia senza nessuna forma di stabilizzazione, lottando con le unghie e con i denti per sottrarsi al degrado della marginalità e alle insidie delle attività illegali, per approdare infine ad una ‘normale’ condizione lavorativa fatta anche di 17-18 ore di fatica con un salario che difficilmente superava, nei primi anni, i 600 euro. E poi la prima, timida ribellione al ‘caporale’, l’avvicinamento iniziale alla Cgil, l’esperienza deludente di arrendevolezza di questo sindacato davanti all’arroganza padronale, quindi l’approdo al SI Cobas e ad una compiuta prassi di auto-organizzazione e di lotta solidale (“chi tocca uno, tocca tutti”). Una prassi rinnovata nelle ultime settimane davanti alla Coop di Pieve Emanuele nei quindici giorni di sciopero contro il consorzio CLO, in cui si è resistito agli attacchi della polizia, e che hanno portato ai primi cedimenti padronali – domani, lunedì 22, si svolgerà la prima assemblea generale dentro il magazzino tenuta dall’organizzazione sindacale finora bandita dal padrone. La particolare energia di questo intervento proviene dalla sua sottotraccia politica: la ricostruzione della propria esperienza migratoria da un lato, il cammino all’organizzazione sindacale combattiva dall’altro, e dall’altro ancora una presa di coscienza di classe che travalica di molto, sempre più, la semplice lotta immediata per arrivare a mettere a fuoco da che parte sta lo stato con le sue ‘forze dell’ordine’, quanto sia devastante la presenza dell’imperialismo in Africa, quanto sia necessario muoversi contro la guerra… Un racconto in chiave “personale”, con una valenza collettiva esplicita.
Alessio La China (Fc) ha denunciato il tentativo di dividere il proletariato secondo linee etniche, razziali, nazionali con una speciale attenzione rivolta dalla propaganda contro gli immigrati agli strati piccolo-borghesi e ai settori più fragili ed esposti della classe lavoratrice autoctona, cercando di deviare in senso reazionario il malessere sociale attraverso le metodiche consolidate della “distrazione di massa”. Ha poi sottolineato come il fenomeno migratorio sia funzionale al funzionamento del capitalismo in quanto fornisce masse di forza-lavoro per l’esercito di riserva. E ha concluso richiamando alcune rivendicazioni della propria organizzazione in questa materia, tra le quali l’abolizione del trattato di Dublino e degli accordi con la Libia.
L’assemblea ha conosciuto un momento di speciale intensità con l’intervento di Karim Bekkal, del SI Cobas di Bologna, che si è concentrato sul significato profondo di quanto si era detto fino ad allora, mettendo a confronto (lui l’ha chiamata “immaginazione”) l’epoca passata, nella quale le catene degli schiavi erano visibili e materiali, e l’epoca presente nella quale le catene esteriori sono quasi sempre scomparse, ma il potere degli sfruttatori ha costruito catene interiori non meno pesanti, che vanno assolutamente spezzate. Spezzate dai proletari immigrati, spezzate dai proletari autoctoni. Ha illustrato questo passaggio del suo discorso con l’ammettere che ai suoi stessi occhi inizialmente non era chiaro il carattere forzato delle migrazioni, della sua stessa emigrazione – a comprendere la cosa l’hanno aiutato la lotta e lo studio (guai a contrapporre queste due dimensioni!). E ha notato come ancora oggi tanti, troppi lavoratori immigrati provino come un senso di riconoscenza verso chi gli “dà lavoro”, mentre non c’è assolutamente nulla di cui ringraziare chi s’arricchisce sul tuo lavoro, o il paese che ti ha costretto a lasciare la tua terra di nascita. Subito dopo ha aggiunto che questo deficit di coscienza di classe non riguarda solo tanti lavoratori immigrati, riguarda anche troppi lavoratori e lavoratrici italiani, ed è proprio nella sostanziale comunanza di interessi e di prospettive degli uni e degli altri a scrollarsi di dosso questa mentalità da subordinati, nella loro lotta unitaria, che sta la soluzione da afferrare e mettere in atto.
Il dibattito non è stato certo meno vivace e teso degli interventi programmati, benché sia stato oggettivamente sacrificato dalle rigide scadenze dei tempi. Due compagni senegalesi, Mbai e Ibhra (da ora in poi daremo solo i nomi), il primo, delegato della Filcams, il secondo attivista e giovane scrittore, hanno portato la voce degli immigrati dall’Africa occidentale. Il primo ha parlato anche di un’iniziativa in corso alla Biennale sulle migrazioni, mentre Ibhra ha esposto con profonda emozione, ed emozionando, la sua tragica esperienza di ragazzo sedicenne che vede assassinare a sangue freddo nei campi libici, senza nessuna ragione, altri emigranti, e ha ripreso con una rabbia che non piace ai paternalisti (chiesastici o meno che siano) il tema del ‘ringraziamento’ toccato da Karim. Di che cosa ringraziare gli occidentali? Del loro saccheggio dell’Africa? delle interminabili guerre? di cosa? Non meno significativo è stato il successivo intervento di Rabi O., nato in Tunisia, che ha messo in luce come in questo stato di cose non ci si riesca a sentire “a casa” né in Italia, né in Tunisia, denunciando quanto il sentire comune, dall’una ma anche dall’altra parte del Mediterraneo, tenda a mettere in difficoltà gli emigranti-immigrati, e quanto ancora pesi – tra la gente comune – quell’appartenenza nazionale che oggettivamente le migrazioni stanno relativizzando e destabilizzando. Per dire insomma, anche senza dirlo, che è tempo di far cadere, anche dentro di noi, le barriere nazionali. Karina Q., una militante brasiliana del Forum internazionale Fontié ki Kwaze-Fronteiras Cruzadas, ha illustrato le molteplici attività e campagne della sua organizzazione di solidarietà e sostegno agli e alle emigranti-immigranti non solo in Brasile, e alle popolazioni indie, sottolineando con grande semplicità ed efficacia quanto siano fondamentali i rapporti internazionali di conoscenza e collaborazione reciproca per chi, come noi, crede profondamente nell’internazionalismo e nel destino comune, nel riscatto comune di tutti gli oppressi. Ha voluto ricordare, in particolare, la partecipazione alle mobilitazioni contro il governo reazionario di Jair Bolsonaro e al recente movimento di protesta a Brasilia, San Paolo, Belo Horizonte e altre città per l’assassinio di Moise Kabagambe, un giovane rifugiato congolese picchiato a morte.
Marco, del Comitato permanente contro le guerre e il razzismo, ha saputo richiamare in pochissimi minuti alcuni temi distintivi dell’attività di questo Comitato: l’apporto decisivo che il razzismo di stato ha dato e dà alla diffusione di comportamenti razzisti nella popolazione, misurabile dall’incremento della violenza diffusa contro le popolazioni immigrate in concomitanza con l’intensificarsi della propaganda di stato anti-immigrazione; l’orrenda violenza perpetrata dalla nostra società nel suo complesso sulle donne immigrate, sui loro corpi e sulla loro interiorità, tanto nei campi e nelle case, quanto sulle strade (là dove si realizza un vero e proprio stupro etnico); l’inconsistenza, ai fini di uno stabile miglioramento della condizione della massa dei lavoratori immigrati, anzi l’ipocrisia, di una posizione, molto diffusa in una certa “sinistra” e negli ambienti cattolici, che si concentra sull’“accoglienza” e poi di tutto il resto chi-se-ne-frega, una posizione che non riesce più a dissimulare gli interessi materiali in ballo, i soldi da intascare nel gestire questa “accoglienza”, sempre all’insegna del paternalismo e della subordinazione degli immigrati; la necessità dei lavoratori italiani di scuotersi dalla passività che li attanaglia, accettando di avere da imparare, e quanto!, dai più combattivi tra i lavoratori immigrati.
Le conclusioni di Tiziano Loreti sono state improntate al richiamo alla centralità della lotta, della lotta immediata e della lotta politica, tra loro strettamente unite, all’apporto dato alla dinamica delle lotte dai proletari immigrati. Ricordando l’impegno, anche personale, per la chiusura di un Cpr a Bologna (e la dura condanna che gliene è derivata), ha invitato tutti a rivendicare collettivamente, davanti ad una repressione padronal-statale che si va facendo sempre più dura con i governi di qualsiasi colore, il diritto alla resistenza organizzata. E ha indicato come orizzonte ultimo per cui battersi la conquista di quell’“altro mondo possibile”, e sempre più necessario, che l’intero sviluppo dell’assemblea ha evocato con un sentimento e in un’ottica che più internazionalista di così non poteva essere.
L’assemblea è nata dall’idea dei compagni e compagne della Tir (Tendenza internazionalista rivoluzionaria), del nostro blog e del Comitato permanente contro le guerre e il razzismo di Marghera di riportare con forza sulla scena locale e nazionale la denuncia di classe di 25 anni di leggi e di prassi sull’immigrazione (dal varo della Turco-Napolitano nel 1998) che sono stati 25 anni di leggi e di prassi contro le lavoratrici immigrate e i lavoratori immigrati. Un’idea che è stata subito fatta propria dal Fgc (Fronte della gioventù comunista) e dal Fc (Fronte comunista), che hanno contribuito in pieno all’organizzazione e alla riuscita di questa iniziativa.
Su tutta questa tematica abbiamo iniziato la pubblicazione a puntate di un saggio sulle cause permanenti delle migrazioni internazionali, contenuto nel n. 3 del Cuneo rosso. Ecco i link:
https://pungolorosso.wordpress.com/2023/05/16/perche-si-emigra-verso-litalia-e-leuropa-7-punti-e-due-precisazioni-i/
https://pungolorosso.wordpress.com/2023/05/19/perche-si-emigra-verso-litalia-e-leuropa-il-peso-del-colonialismo-e-del-debito-estero-ii/
Il pungolo rosso
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