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(14 Maggio 2024)
I “Punti di Sintesi” che di seguito esponiamo si pongono, seppur su di un piano diverso, in stretta continuità con i nostri precedenti documenti a cui rimandiamo: “Il Dossier sulla questione di classe in Israele-Palestina” e “L’autointervista” sugli sviluppi degli scenari di guerra alimentati dai noti eventi del 7 ottobre. Testi con cui esponevamo da un punto di vista pratico e politico la nostra veduta sui processi di guerra imperialista in generale e nei loro caratteri specifici, agganciandosi strettamente all’individuazione di una serie di nodi politici, strategici e d’analisi da affrontare e sciogliere in riferimento ai contenuti caratterizzanti le forme di opposizione alla guerra imperialista in generale – e a riferimento della guerra in Palestina in particolare – per affermare il punto di vista rivoluzionario ed internazionalista in merito.
Su questa lunghezza d’onda, come nostro costume, i “Punti” odierni pur rivestendo una forma di carattere più “teorico”, prendono il via ugualmente da quella somma di questioni , quantomeno le principali, con cui ci siamo dovuti confrontare nei diversi ambiti e momenti che hanno caratterizzato la nostra partecipazione e intervento politico nelle diverse occasioni su cui si è espressa l’opposizione alla guerra.
Questione dell’Imperialismo, questione nazionale, questione di classe o di popolo, sono solo alcuni e fra i principali nodi su cui abbiamo potuto misurare alla meglio l’incomprensione della realtà della guerra da parte di larghi strati di oppositori della guerra stessa e, alla peggio, l’allineamento e l’appoggio a uno dei fronti in guerra, fuori e contro comunque i reali interessi di classe proletaria. Dedichiamo gli ultimi punti a noi come Internazionalisti, alla nostra condizione, ma anche alla necessità di fissare una linea d’intervento per quanto difficile sia, fuori dai limiti e dalle retoriche di un “internazionalismo di maniera”, per misurarsi con quanto pone sul tappeto la situazione.
1. L’imperialismo non è la politica di uno Stato particolare ma lo stadio contemporaneo, monopolistico, del capitalismo stesso. Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio… L’imperialismo è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, il mondo è stato spartito tra i trust internazionali ed è compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalisti… L’imperialismo significa, in generale, tendenza alla violenza e alla reazione. (Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, 1914).
2. Viviamo nell’epoca dell’imperialismo maturo. Questo significa che, passati oltre 100 anni dai tempi di Lenin, il capitalismo è oggi il modo di produzione esclusivo che ha saturato ogni angolo del pianeta. Le grandi potenze imperialiste si sono già da tempo spartite l’intera superficie terrestre e sono perennemente impegnate nella contesa per accaparrarsi posizioni di vantaggio ed extraprofitti, all’interno di un’economia sempre più asfittica. La speculazione e il parassitismo finanziari sono ormai elementi strutturali dell’economia, volti a tentare di bilanciare la caduta del saggio di profitto che da tendenziale si è fatta sempre più reale, trascinando da decenni l’economia globale in una crisi strutturale, irrisolta e irrisolvibile di durata inedita. Se il capitalismo moderno, maturo, imperialista, domina in ogni singola nazione del mondo questo significa che ogni singola nazione partecipa all’imperialismo, ne è parte. Le grandi potenze si dividono il pianeta in sfere di influenza, le potenze intermedie e i piccoli stati, dalle economie più o meno sviluppate o arretrate, giocano il ruolo di subordinati, tentando talvolta di ritagliarsi margini di autonomia o di cambiare schieramento nello scacchiere della contesa geo-politica mondiale. È la legge dello sviluppo ineguale e combinato: anche le aree in apparenza più arretrate sono inserite a pieno titolo nei meccanismi del capitalismo più maturo. Non vi sono eccezioni. Ad oggi le due principali potenze polari sono gli USA e la Cina, seguite dagli altri imperialismi maggiori del mondo. Tra questi possiamo citare, in ordine di PIL, il Giappone, la Germania, il Regno Unito, l’India, la Francia, il Canada, la Corea del Sud, la Russia, il Brasile, l’Iran, l’Indonesia, l’Arabia Saudita, la Turchia, Israele… Scorrendo questo elenco, pur incompleto, troviamo non solo i primi Stati mondiali per spesa militare, ma potenze imperialiste che giocano su piani differenti: dal primato globale agli scontri per il predominio regionale in ambiti quali il controllo delle materie prime, dei mercati della forza-lavoro a basso costo, l’occupazione di posizioni geo-strategicamente rilevanti, la conquista di posizioni favorevoli all’esportazione e alla valorizzazione dei propri capitali industriali, commerciali, finanziari, speculativi e parassitari… Chi afferma che l’imperialismo è solo quello USA o occidentale, semplicemente, non ha capito nulla del mondo reale nel quale vive. La visione che auspica un mondo multipolare è reazionaria ed antiproletaria.
3. L’epoca delle lotte nazionali progressive è tramontata per sempre. Dal momento in cui il capitalismo è assurto a modo di produzione incontrastato in ogni angolo del pianeta, trasformandosi così in imperialismo, la democrazia politica ha smesso di svolgere qualsiasi funzione di sviluppo progressivo, quale aveva rivestito invece in precedenza, nella fase dell’affermazione del capitalismo nel mondo (1789-1945/71). Allora i comunisti avevano il problema (da principio in Europa, poi via via nelle aree sempre più periferiche del capitalismo) di zone del pianeta semi-feudali o colonizzate nelle quali il capitalismo si sarebbe potuto affermare solo attraverso rivoluzioni nazionali democratico-borghesi (sul modello di quelle europee del XIX secolo). Oggi, nell’epoca dell’imperialismo maturo, dominando già ovunque, il modo di produzione capitalista e la sua sovrastruttura democratica hanno perso ogni carattere storicamente progressivo. Per questo a) per quanto riguarda la forma dello Stato, democrazia e autoritarismo (fascismo), si completano e si interscambiano a vicenda, in base alle diverse condizioni della lotta di classe, della stabilità del potere statale, delle minacce provenienti dall’interno e/o dall’esterno; b) ogni nuova borghesia nazionale che giungerà al potere (pensiamo p.es. ai colpi di Stato in Mali, Guinea, Burkina Faso, Niger, Gabon), avrà come primo obiettivo quello di stabilizzare il proprio potere reprimendo ogni opposizione più o meno di classe e non certo quello dello “sviluppo sociale”. La rivoluzione nazionale borghese anti-occidentale non può più essere considerata in alcun modo progressiva; c) ogni ipotesi di fronte unico con i settori lla sinistra borghese va definitivamente scartata e questo è un dato politico che gli internazionalisti dovrebbero aver acquisito almeno da Canton 1926; d) il 1979 in Iran ha dimostrato che la vittoria di una teocrazia contro l’imperialismo occidentale rappresenterà tutto meno che un avanzamento per le forze rivoluzionarie che ne sono invece uscite decimate.
4. L’epoca del colonialismo è definitivamente conclusa. Le guerre odierne non sono coloniali ma imperialiste. Sebbene possa in apparire che in alcuni conflitti, come quello israelo-palestinese, si tratti di guerre coloniali, questo è falso. La forma dell’appropriazione dei territori altrui, dell’espropriazione dei terreni e delle abitazioni, della segregazione delle popolazioni e della sostituzione etnica è un tratto tipico del maturo capitalismo imperialista che troviamo in forme diverse in ogni guerra (vedi Crimea), financo alla ghettizzazione nelle periferie delle grandi megalopoli (vedi Banlieue) nelle quali la popolazione proletaria è espulsa dal centro cittadino, emarginata e segregata. L’epoca del colonialismo si è avviata al declino con la seconda guerra mondiale e, se non prima, si può considerare definitivamente chiusa con l’aprirsi della fase di crisi attuale, nei primissimi anni ‘70. Affermare l’attualità delle lotte anti-coloniali significherebbe affermare che le borghesie delle nazioni oppresse e colonizzate hanno ancora un ruolo progressivo per sviluppare un proprio capitalismo autoctono, ma questo, come già dimostrato, è falso: le borghesie delle “nazioni oppresse” o per meglio dire “subordinate all’imperialismo” agiscono per lo più per procura e sono reazionarie al pari di quelle “dominanti”, ossia imperialiste. All’inizio del XXI secolo la “guerra per procura” è stata la forma più importante con la quale si è sviluppata la tendenza del capitale allo scontro interimperialista generalizzato. L’esempio paradigmatico è quello della Guerra Civile in Siria (2011-…).
5. Anche nelle “nazioni oppresse” il primo nemico è in casa propria. Parlare di popoli ha senso solo per quanto riguarda gli aspetti etnico-linguistico-culturali. Non la politica. Se si parla di politica, di guerra, di conflitti sociali, la questione è e può essere sempre e solo di classe: il motore della storia sono i rapporti di produzione, le relazioni sociali che ne derivano e che si sviluppano in ogni epoca. In ogni Stato nazionale od in ogni “Popolo che aspiri ad un proprio Stato nazionale” esiste una borghesia sfruttatrice e un proletariato sfruttato. Palestinesi, kurdi, rohingya, uiuguri… per citarne solo alcuni tra i più martoriati. Sono decine e decine le minoranze etnico-culturali perseguitate e oppresse nel mondo: al loro interno si sono comunque affermati rapporti di produzione di tipo capitalista e una stratificazione di classe con diverse fazioni borghesi, ognuna con un suo partito. Per esempio in Palestina i principali partiti borghesi sono Fatah e Hamas, attorno o contro i quali orbitano una serie di partiti minori. In queste popolazioni la condizione proletaria è caratterizzata dall’oppressione etnico-culturale che subisce come il resto della popolazione, ma anche dal doppio sfruttamento di classe che subisce da parte sia della borghesia dominante che della propria borghesia nazionale. Questo proletariato viene inoltre utilizzato dalla propria borghesia nazionale come “massa di manovra” e “carne da cannone” nel perseguire i propri interessi nazionalisti. Una liberazione nazionale può essere perciò un programma valido solo per la borghesia e i ceti medi che vogliono tutelare i propri affari e la possibilità di sfruttare i “propri” proletari liberi dall’oppressione della nazione dominante. Il sacrificio per il patriottico ideale nazionale promette vantaggi agli sfruttatori, ma solo illusioni agli sfruttati.
6. La questione è sempre di classe. Nella fase dell’imperialismo maturo avendo la “questione nazionale” perso ogni residuo carattere progressivo questa rimane esclusivamente uno strumento ideologico utilizzato dalle diverse bande imperialiste per i propri fini (guerre balcaniche, caucasiche, questione curda e palestinese). Porre al centro la questione nazionale è funzionale a piegare gli interessi proletari alle logiche del nazionalismo, ossia al collocare il proletariato dentro l’involucro degli schieramenti nazionalisti e imperialisti. In ogni situazione di conflitto gli interessi che devono essere messi in evidenza sono quelli proletari, anticapitalisti e antimperialisti, collocati cioè all’interno di una prospettiva strategica di classe di ampio respiro.
7. L’interesse di classe passa per la fine della guerra e il rovesciamento degli Stati attuali, non per la nascita di nuovi Stati nazionali. Non esiste soluzione borghese, democratica o nazionale che sia, alla crisi strutturale del capitalismo che spinge alla guerra imperialista generalizzata e che è il tratto caratterizzante della nostra epoca. Il summenzionato slogan “il nemico è in casa nostra” ha assunto oggi una nuova interpretazione opportunista: si lotta contro la propria borghesia imperialista (occidentale) ma si tace il fatto che anche dietro “l’altro fronte” (p.es. Iran-Russia-Cina) vi è un’altra borghesia altrettanto imperialista e quindi altrettanto nemica e da combattere, sebbene geograficamente più distante. P.es. si tace il fatto che la Cina sembra meno offensiva solo perché nei rapporti di forza attuale è, al momento, svantaggiata. Mentre si combatte la propria borghesia va sempre denunciata anche la borghesia dell’altro fronte, non farlo significherebbe di fatto avallarne i progetti reazionari e anti-proletari.
8. La bandiera degli sfruttati non è mai nazionale. Chi scende in piazza con le bandiere nazionali (Palestina, Kurdistan, Russia…), anche se mosso da istanze pacifiste, sta di fatto assecondando posizioni nazionali e avallando un progetto politico borghese per il quale i proletari devono versare il proprio sangue perché il “proprio” settore di padronato abbia finalmente un proprio mercato nazionale all’interno del quale sviluppare i propri affari. La nostra è la bandiera rossa, l’unica che rappresenti gli interessi della classe sfruttata nel suo complesso e non le divisioni nazionali che ci sono imposti a uso e consumo della classe dominante: i proletari, gli sfruttati, non hanno patria perché tali sono in ogni parte del mondo.
9. Le nazioni imperialiste dominanti usano l‘ideologia del nazionalismo, del razzismo, della superiorità culturale, della difesa dello status quo per celare le proprie contraddizioni di classe. Il razzismo, avversato a parole e sfruttato nei fatti, è un’arma ideologica fondamentale delle classi dominanti contro gli sfruttati per dividerli e scagliarli gli uni contro gli altri. Così come la classe media israeliana pasce nell’espropriazione dei beni mobili e immobili dei palestinesi e i suoi strati inferiori costruiscono l’illusione di una propria scalata sociale attraverso tale espropriazione. Allo stesso modo la cosiddetta aristocrazia operaia dei tempi di Lenin si avvantaggiava degli extraprofitti provenienti dalle colonie. Il proletariato occidentale vive oggi una condizione lievemente migliore grazie allo sfruttamento, in Europa e fuori, della forza lavoro “straniera” che permette di tenere più basso il prezzo di alcune merci. L’ideologia dell’assedio e anti-araba viene instillata nelle menti dei cittadini israeliani fin dall’infanzia, da questo punto di vista Israele è il prototipo dello Stato democratico moderno nel quale ideologia di guerra, autoritarismo, parvenza democratica, razzismo istituzionale, repressione violenta del dissenso e economia di guerra si fondono in un tutt’uno. Allo stesso modo l’odio anti-ebraico diffuso dalle formazioni nazionaliste e islamiste palestinesi e mediorientali è funzionale a impedire che i due settori di classe si uniscano contro i rispettivi padronati. È nella riscoperta dell’avere interessi comuni a livello trans-nazionale ed opposti e inconciliabili con quelli delle classi dominanti del mondo intero, nel riscoprire una comune progettualità anticapitalista, che la classe sfruttata può ritrovare una propria unità e dirigere i propri sforzi nella medesima direzione rivoluzionaria, non più contro i propri fratelli e sorelle di classe.
10. Le posizioni internazionaliste fin qui espresse sono sempre state minoritarie e marginali in tempo di guerra, ma agitare la necessità di una indipendente posizione di classe, quale quella espressa in queste tesi, è il dovere di ogni internazionalista. Cercare di creare interesse, dibattito, riflessione, iniziativa ed organizzazione intorno ad esse. Compiti che devono essere assolti negli spazi politici che si aprono nel conflitto di classe e sul piano della costruzione di avanguardia, pur facendo costantemente i conti con il contesto sfavorevole della lotta di classe per parte proletaria e con la forza dell’ avversario di classe: è una condizione obbligata con cui ci si deve misurare e che non si può aggirare con nessun escamotage teorico-pratico. Per questo se è prevedibile che sotto i colpi della crisi e della guerra si possano aprire delle crepe nella cappa dell’ideologia dominante, i rivoluzionari saranno allora capaci di occupare le posizioni che potrebbero aprirsi solo se non si sarà interrotta la continuità del loro intervento nelle condizioni date, per quanto arretrate e ristrette. D’altra parte anche allo scoppio della Prima Guerra Mondiale gli internazionalisti erano ultra-minoritari, almeno fino a che non si è aperta la breccia del 1917, in Russia.
11. Partire dalla forzata condizione di ultra minoritarismo per tessere la tela della futura rivoluzione internazionalista. Sebbene ridotti a piccoli gruppi, a circoli ultra minoritari, gli internazionalisti sono presenti. Si tratta allora di partire da questa condizione oggettiva (di passività della classe) e soggettiva (di isolamento e frammentazione delle avanguardie rivoluzionarie) per tessere rapporti e legami, a partire dal tema oggi centrale della lotta contro la guerra imperialista e le sue implicazioni. È questo uno dei terreni di lavoro odierni, non per costruire inutili intergruppi e ammucchiate politiche o altisonanti comitati che poi durano lo spazio di un mattino, ma per costruire relazioni che, di volta in volta, sulla base di proposte e azioni concrete, individuino comuni e contingenti terreni di lavoro e, sulla base di questi, consolidino rapporti e legami che, con il tempo, lo studio, l’azione e il confronto, magari incontrando una lotta di classe che si rianima, potranno svilupparsi in qualcosa di più solido, nella prospettiva della costruzione della futura internazionale, ineludibile strumento della rivoluzione proletaria.
Laboratorio Internazionalista per l'organizzazione rivoluzionaria
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