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Un terremoto politico nella Germania (e nell’UE) in crisi

(6 Settembre 2024)

Afd turingia

Le elezioni di domenica in Turingia e Sassonia, per quanto abbiano coinvolto meno del 10% della popolazione totale della Germania, sono state senza dubbio una scossa tellurica nella politica tedesca e, di conseguenza, europea.

L’affermazione prepotente dell’AfD nella destra e quella della BSW, l’Alleanza Sahra Wagenknecht, nella (per così dire) sinistra indicano, dopo le europee, una chiara linea di tendenza, probabilmente non di breve periodo.

Sulla stampa italiana assatanata di russofobìa, la chiave di lettura dominante è quella della vittoria dei filo-russi o filo-putiniani. Certo, dopo la batosta elettorale subita dal bellicista Macron, questa seconda legnata sulla testa di una coalizione come quella di Berlino sempre più allineata agli ordini dei comandi NATO, riempie Putin e i suoi di soddisfazione. Veder precipitare nel baratro dopo la Truss e Sunak, anche la belva verde Baerbock e l’ameba Scholz, pronto a firmare ogni fornitura di armi a Kiev fino all’istante prima rifiutata… li si può capire. Per noi le cose, però, stanno diversamente. E sebbene il fattore guerra in Ucraina sia stato di grande peso negli esiti delle ultime elezioni, bisogna scavare più a fondo: guardare ai cambiamenti in atto da tempo, da molto prima del febbraio 2022 (che li ha solo accelerati), nella divisione internazionale del lavoro e all’acutizzazione della concorrenza internazionale che hanno penalizzato tanto la Germania quanto l’UE provocando in tutti i paesi europei, i più ricchi inclusi, un crescente malessere sociale.

Da almeno cinque anni la Germania ha cessato di essere il traino dell’economia europea ed è entrata in stagnazione. È venuto al pettine un triplo nodo su cui ora l’economia tedesca è incagliata, con inevitabili riflessi sulla vita sociale e politica del paese: il boom post-unificazione fondato sul lavoro e le materie prime a basso costo, l’ossessione del pareggio di bilancio, il rapporto con gli Stati Uniti.

Il boom post-unificazione si era fondato sulle massicce delocalizzazioni verso alcuni paesi dell’Est Europa (Slovacchia, Cechia, Ungheria, Romania, etc.); sull’utilizzo di forza-lavoro a basso costo della Germania dell’Est, in loco o previo passaggio ad ovest; sull’immigrazione dall’Europa e dal mondo, mai scesa al di sotto dei 500.000 nuovi arrivi l’anno, in diversi anni ha superato ampiamente il milione – la Germania è tuttora la principale meta d’immigrazione in Europa (1). L’altro fattore-chiave era stato lo stabile approvvigionamento di petrolio e gas russo a prezzi di favore, tanto convenienti da progettare e realizzare in tempi rapidi il North Stream. L’inesauribile sviluppo del mercato interno cinese, poi, aveva consentito per molti anni al capitale tedesco di sfruttare al meglio questi speciali vantaggi competitivi, inanellando una serie di record per il proprio export.

Tutto passa, però. Un vantaggio a lungo goduto con attitudine puramente conservativa può trasformarsi in un handicap. Il sistematico ricorso a forza-lavoro e materie prime a basso costo ha viziato il capitale tedesco, che si è assicurato montagne di profitti senza curarsi di investire adeguatamente nella ricerca tecnologica e nell’innovazione, arrivando così, di fatto, a perdere la corsa all’auto elettrica, addirittura in un settore, la produzione di auto, che l’ha visto primeggiare per decenni. Se a questo si aggiunge la scarsità degli investimenti statali per la storica ossessione a contenere il debito pubblico, si comprenderà perché, in un arco di trenta anni, la Germania abbia perduto i primati mondiali di competitività e produttività nei settori maturi della produzione manifatturiera e arranchi, distanziata di molto da Stati Uniti e Cina, nei settori d’avanguardia.

La grande crisi del 2008, che prima con le amministrazioni Obama, poi con quella Trump, ha spinto gli Stati Uniti a politiche industriali molto aggressive verso i propri alleati europei, e la guerra tra NATO e Russia in Ucraina sono stati due colpi brutali per l’aspettativa del capitalismo tedesco di poter riprodurre a tempo indeterminato il proprio “modello” di sviluppo fondato sull’export e sullo scambio “reciprocamente vantaggioso” con Russia e Cina (in realtà più vantaggioso per la Germania che per Russia e Cina). La decisione di Washington di imporre sanzioni draconiane alla Russia e il sabotaggio del North Stream hanno precipitato l’economia tedesca nella palude di una stagnazione da cui non potrà certo uscire con il rilancio del “vecchio modello”. Mai dimenticare che per gli Stati Uniti la guerra in Ucraina è al tempo stesso una guerra contro la Russia e una guerra contro l’UE, in particolare contro la Germania – il tentativo della classe capitalistica tedesca di salvarsi da questo attacco allineandosi un po’ alla volta alla NATO, non è andato a buon fine. E il conto si fa ogni giorno più salato.

Ed ecco che nel giorno stesso della vittoria elettorale congiunta di AfD e BSW, per la prima volta in ottant’anni la Volkswagen annuncia la chiusura di una o più fabbriche in Germania e la fine dell’intesa con l’IGM sul blocco dei licenziamenti fino al 2029 – anch’esso un evento politico di speciale rilievo, se si considera che le grandi imprese tedesche sono le uniche in Europa in cui i sindacati hanno tuttora un posto nei consigli di amministrazione. L’incontro-scontro di ieri a Wolfsburg tra il capo della divisione finanziaria di Volkswagen, Antlitz e il consiglio di fabbrica segna anche per il colosso dell’auto la fine di un’era. Alla necessità di tagliare la produzione e l’occupazione in Germania, l’esponente dell’IGM Daniela Cavallo ha replicato: “mai nella vita” accetterò la chiusura di una fabbrica, faremo “una strenua resistenza” contro le decisioni dell’azienda.

Anche per gli operai della grande industria più potente va dunque in archivio l’“economia sociale di mercato”, che già l’Hartz IV del socialdemocratico Schroeder, stretto amico di Putin e in seguito alto dirigente di Gazprom e Rosneft, aveva archiviato per la sezione più precaria della classe lavoratrice istituzionalizzando la sua ulteriore precarizzazione, soprattutto nella parte orientale del paese, e rafforzando il controllo statale sui percettori di assegni sociali. Nel frattempo – come controtendenza rispetto al costo complessivo della forza-lavoro che restava troppo alto nei confronti dell’agguerrita concorrenza dei capitalismi ascendenti – i governanti tedeschi, la Merkel in testa, hanno continuato a favorire l’ingresso in Germania di masse di immigrati e di immigrate. Gli ultimi due ingressi massicci sono stati nel 2015 con un milione circa di rifugiati in fuga dalla Siria di Assad, e nell’ultimo biennio con centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori in fuga dall’Ucraina di Zelensky. Non si è trattato di beneficenza, ovvio, ma della appropriazione imperialista di forza-lavoro formata, spesso laureata. Anche se non tutte le rifugiate ucraine sono entrate nel mercato del lavoro, potendo usufruire di una sorta di speciale trattamento di sostegno per sé e i propri figli, più favorevole rispetto alle altre nazionalità – una circostanza, questa, abilmente sfruttata da AfD e BSW. (2)

Il costo di questo progressivo regresso della Germania nella divisione internazionale del lavoro è stato scaricato sull’insieme della classe lavoratrice, con – però – molte disuguaglianze, che ne rendono difficile una risposta unitaria: tra Ovest ed Est, dove si concentra la massima parte dei poveri, tra i pensionati e non solo; tra dipendenti delle grandi imprese e l’area sempre più vasta di lavoro instabile e sottopagato (da tempo la Germania è il paese dei lavoretti a 1 euro l’ora); tra lavoratori autoctoni e immigrati; tra immigrati regolari e immigrati illegalizzati; tra uomini e donne, spesso costrette anche lì al part-time. Masse di salariati già fortemente penalizzati negli anni passati temono che questo regresso possa continuare, facendoli sprofondare in una condizione di povertà, insicurezza, disprezzo sociale che in Germania non si vedeva da un secolo. Una paura particolarmente forte ad Est, dove si fonde con il diffuso risentimento per essere tuttora considerati e trattati come tedeschi di seconda serie.

Il successo nei ceti medi e anche tra i proletari, di due formazioni come l’AfD e la BSW si spiega con l’estensione e la profondità di questo malessere sociale, e con la capacità dei loro dirigenti di presentarsi in modo truffaldino come forze “anti-sistema” capaci di dare risposte ai “trascurati” dai governi e dai partiti al potere da decenni. In tutto ciò non c’è gran che di specificamente tedesco, se si fa mente locale a chi governa in Italia e come è arrivato al governo, all’accoppiata Le Pen/Melenchon in Francia, diversi ma simili e così via. Il contenuto essenziale delle risposte di AfD e BSW si può schematizzare in questo modo: per l’AfD, vanno prese anzitutto misure urgentissime contro gli immigrati-sanguisuga, primo pericolo pubblico, e attuate espulsioni a milioni di costoro, con lo stop al multiculturalismo forzato; va recuperata la sovranità perduta verso Bruxelles e verso Washington, e questo recupero porterà benefici ai lavoratori tedeschi; stop agli “aiuti” all’Ucraina. Per la BSW, è in primo piano lo stop agli “aiuti” all’Ucraina e alla guerra contro la Russia, perché ha danneggiato molto l’economia della Germania e i lavoratori tedeschi; va aumentata la spesa sociale anche attraverso il recupero della sovranità perduta; e vanno prese misure contro gli immigrati-parassiti, soprattutto i rifugiati. Insomma, in un caso nazional-socialismo (“Tutto per la Germania”, secondo lo slogan di Höcke, un motto, non è il solo, che ha ripreso dalle naziste SA), nell’altro social-nazionalismo.

La postura “anti-sistema” di questi due partiti è una recita: né l’uno né l’altro, infatti, si sognano lontanamente di mettere in discussione il sistema del capitale, ed entrambi si sono già dichiarati disponibili a governare in Turingia e Sassonia, e in prospettiva anche a livello nazionale, con i partiti del “sistema”. Nel caso specifico della Wagenknecht è pubblica la sua proposta formale alla CDU: il sostegno della BSW a Michael Kretschmer (CDU) come governatore della Sassonia, in cambio del sostegno della CDU a Katja Wolf (BSW) come governatrice della Turingia. E già nei partiti tradizionali si discute in maniera animata con chi dei due finti anti-sistema allearsi. Tuttavia è possibile che prevalga la proposta di Scholz di fare argine collettivo contro l’AfD, una proposta che avrà probabilmente l’effetto opposto di rafforzare le sue false credenziali “rivoluzionarie”. Salvo che nello stesso giorno il medesimo pagliacciesco Scholz ha messo 18 richiedenti asilo afghani su un aereo e li ha rispediti “a casa”, e salvo, è sempre lui, dichiarare a “Der Spiegel”, a proposito dell’“odio contro Israele”: “noi dobbiamo finalmente deportare su larga scala” gli immigrati con un background arabo…

Raffigurare questo processo politico-elettorale (e il sottostante movimento sociale di opinione, al momento) come il salire di un’indistinta marea nera, è fuorviante. Senza dubbio c’è in esso una forte componente di nazionalismo e razzismo; ma se si ha in mente la quantità di melma russofoba e islamofoba che hanno sparso negli ultimi decenni democristiani, socialdemocratici, verdi e liberali, e la quantità di misure che hanno preso, pur moderando il linguaggio, contro le popolazioni immigrate, risulta chiaro come un voto dato ai partiti al governo o alla CDU non ha di per sé alcuno specifico valore anti-nazionalista e anti-razzista. Al contrario: sono stati proprio questi partiti, con il loro sciovinismo da “Occidente collettivo über alles” e gli incessanti proclami contro l’“antisemitismo” (visto anche dove non ce n’è neppure l’ombra), a preparare l’avvento di AfD e BSW. La differenza sta solo nel fatto che il nazionalismo sponsorizzato da questo nuovo binomio oggi sulla cresta dell’onda è di segno anti-amerikano e anti-UE (molto più che filo-russo), benché – al momento – sia costretto a muoversi entro i confini politico-militari della NATO e dell’UE, in assenza di una diversa prospettiva strategica. Un nuovo nazionalismo tedesco è nell’ordine delle cose. Ma non potendo consistere in una ridicola prospettiva autarchica, deve prefigurare un ruolo sovra-nazionale della Germania capace di parare i colpi che le sono stati inferti, e di mettere in campo un progetto complessivo che le attuali AfD e BSW possono anticipare, non ancora rappresentare. Il capitalismo tedesco è in crisi, ma non può certo rinunciare alla sua vocazione imperialista. E la stessa cosa vale per l’UE.

Oltre a questo mix di aggressivo nazionalismo e razzismo che viene da lontano, dalle istituzioni statali e capitalistiche dell’intera Europa (non della sola Germania), nel voto di Turingia e Sassonia è presente anche un segno interessante di rifiuto della guerra in Ucraina e dei rischi di guerra generale che essa comporta, che non poteva essere rivolto ai partiti di governo né alla CDU con loro solidale nel bellicismo NATO e nella corsa accelerata al riarmo. A chi poteva rivolgersi un sentimento o una preoccupazione del genere? “Quando si resta senza alternative”, ha spiegato su “la Repubblica” di ieri Thomas Brussig-Lapalisse, ci si rivolge a chi si presenta come l’alternativa. In particolare Wagenknecht è stata abile nel presentare il voto come una scelta tra guerra e pace. Mentre i propagandisti dell’AfD lo sono stati nel disegnare, contro le burocrazie dittatoriali di Bruxelles, la prospettiva di “un’Europa libera basata su un’unione libera di popoli uguali”, e dunque senza guerre, a voler credere a queste mammolette. Qui la contraddizione: perché un sentimento comprensibile e in sé positivo potrebbe anche essere il canale attraverso cui si consolida la presa su settori di proletariato di forze apertamente reazionarie come l’AfD, o falsamente progressite come la BSW.

Ancora non è del tutto chiara la composizione sociale, di genere e razziale del voto in Sassonia e Turingia. Ma tre elementi appaiono accertati: il voto per l’AfD è stato più forte nelle aree rurali e nelle cittadine che nelle medio-grandi città, molto più forte tra i maschi che tra le donne (rapporto 2:1), consistente negli strati più schiacciati del proletariato e tra i giovani. Ma è una tipica impostura “populista” quella della Weidel di presentare l’AfD come “il partito preferito dai lavoratori”. Lo è del pari la pretesa di Wagenknecht (espressa peraltro in toni molto soft) di appartenere alla sinistra ed essere per la pace – cosa impossibile se si accetta, come lei fa integralmente, il capitalismo, e se si invoca per la Germania un ruolo “sovrano”, cioè di comando sul mercato europeo e mondiale.

Quest’ultimo terremoto politico in Germania, che ne annuncia altri in quel paese e in tutta Europa, un’Europa che – parola di Draghi – può essere vicina alla sua fine, ci parla anche dell’attuale disorientamento e divisione della classe lavoratrice, in tanti casi assente dalle urne (meno che in precedenti occasioni), comunque finora incapace di esprimere una propria posizione autonoma da tutte le componenti del frastagliato campo dei partiti borghesi. Tale condizione è provvisoria, perché tutto è accaduto e accadrà in una Germania e in un’Europa in crisi, e furiosamente impegnate ad uscire dalla crisi, fuorché l’attenuazione degli antagonismi di classe. La sapienza accumulata dai politici borghesi sta nel seminare antidoti al riemergere della coscienza e dell’organizzazione di classe. Il proliferare di formazioni demagogiche e di demagoghi/e a destra come “a sinistra”, però, non è l’ultima parola della storia. Neppure in Germania. Non deve esserlo. Avremo modo di vederlo occupandoci in un successivo articolo degli sforzi di rispondere su basi classiste e internazionaliste, pur incomplete, a questi ultimi sviluppi.

Note


(1) Dal 2013 sono immigrati in Germania ogni anno circa un milione di persone. Nel 2022 20,2 milioni di persone residenti in Germania (più del 18% della popolazione totale) erano immigrate di prima generazione o figlie di entrambi i genitori immigrati. Le principali aree di origine sono la Turchia, l’Europa orientale e meridionale, l’Africa, il Medio Oriente, l’Asia e il Sud America.

(https://www.infomigrants.net/en/post/54441/germany-net-migration-at-all-time-high)

(2) Le politiche di “apertura”, sempre condizionata, all’immigrazione perseguite per molti anni dai governi tedeschi si spiegano anche come mezzo per contrastare gli effetti dell’invecchiamento della popolazione. Insiste su questo punto un testo del FMI sul calo della produttività in Germania

(https://www.imf.org/en/News/Articles/2024/03/27/germanys-real-challenges-are-aging-underinvestment-and-too-much-red-tape ) che presenta l’invecchiamento della popolazione come una delle sfide che la Germania dovrà affrontare nei prossimi anni perché:

– i pensionamenti riguarderanno in parte forza lavoro altamente qualificata, andando così ad aggravare ulteriormente le carenze di manodopera qualificata che affliggono il mercato del lavoro tedesco;

– l’invecchiamento della popolazione farà aumentare la richiesta di servizi di cura e sanitari, drenando forza lavoro dai settori manifatturieri;

– la spesa pubblica per le pensioni e i servizi di cura e sanitari aumenterà a detrimento degli investimenti nelle infrastrutture, uno degli ambiti che condizionano in negativo la produttività tedesca.

Il pungolo rosso

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