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A proposito di amnistia e indulto: il pianeta carcere

Note sparse per provare a comprendere un tema molto speciale

(18 Dicembre 2005)

L’ordinamento carcerario viene posto all’attenzione nel 1975, con la legge 354. Dal dopoguerra furono presentati tre progetti di riforma, la cui ultima stesura avrebbe dovuto vedere la luce negli anni ’60, ma per le continue cadute dei governi di quell’epoca, non fu mai posta in agenda in modo efficace.

Originariamente la riforma del ’75 aveva dei limiti (anche se si prevedeva l’umanizzazione della pena e la pena alternativa): fu infatti concepita sulla base delle esperienze del Nord-Europa e della Gran Bretagna, ma arrivò in ritardo, rispetto ad una profonda modificazione della criminalità che proprio negli anni ’70 stava avvenendo in Italia.

Il cittadino detenuto, nella Riforma del 1975, è visto come individuo che commette un reato ma in modo individuale, mentre invece si affaccia la criminalità organizzata e su commissione. Le previste misure alternative della detenzione venivano escluse per un certo tipo di reclusi (sequestri, estorsioni, rapine) come la semilibertà perché erano, all’epoca della stesura, considerati i reati più gravi. A Roma la banda dei Marsigliesi segnò lo spartiacque tra il reato “artigianale” e quello “organizzato”.

Nel 1979 nelle carceri entrano per la prima volta le figure degli educatori.

Cominciano gli anni di piombo e l’ordinamento penitenziario si dimostrò inefficace (evasione di Curcio). Entra in scena l’applicazione del “famigerato art. 90”, famigerato perché prevedeva che il Ministro di Grazia e Giustizia potesse attraverso un atto amministrativo sospendere in parte, in alcune sezioni, o in tutti gli istituti l’applicazione della Legge. Tra il 1970 ed il 1980 il Generale Dalla Chiesa riceve l’incarico di “controllare” alcuni Istituti di pena per farli diventare “super-carceri”. Questo causò un arretramento delle misure “liberali”. Comincia una grossa fase di costruzione degli Istituti con i primi “pentiti” a cui abbisognano carceri speciali. Comincia l’epoca dei “dissociati”(Patrizio Peci, ad esempio), che non si pentono ma fanno rivelazioni rispetto all’attività dei compagni di lotta. Tutti i dissociati vennero trasferiti a Rebibbia, a Roma. Su queste basi di aggiustamento dell’ordinamento penitenziario, e su questi nuovi fenomeni, si fa strada Gozzini, sino alla Legge dell’86, i cui capisaldi sono: cancellazione dell’articolo della riforma del ’75 che impediva a certe categorie di persone detenute di accedere alle pene alternative, viene introdotto il principio della “sorveglianza particolare”, che diventa strumento giuridico che abroga, finalmente, l’obbrobrio dell’art.90, legalizzando un percorso di ricorribilità anche in appello contro provvedimenti assunti come “atti amministrativi”, che altrimenti risultavano impugnabili (art.14 bis con la commissione di disciplina). Nel ’91 e ’92 nasce il “41 bis”, perché nasce per lo Stato la necessità di contrastare la criminalità organizzata di tipo mafioso, nascono le sezioni per custodire i reclusi legati a fatti mafiosi, e le misure alternative sono scambiate con la “collaborazione”. Ad oggi non esiste un Ordinamento penitenziario minorile, si applica quello per adulti, quando compatibile.

Ma vediamo il “volume” del pianeta carcere:

si stima che oggi siano detenute circa 60.969 persone (circa il 5% sono donne), a fronte di una recettività per 42.912. Di queste 20.000 hanno problemi di tossicodipendenza, ed altrettante sono le persone straniere, mentre 40.000 sono in esecuzione di pena fuori dal carcere. Il valore numerico delle presenze quotidiane è molto vicino a quello della capienza tollerabile per garantire salute e sanità

Alle persone private della libertà è riconosciuto il diritto alla salute. La sanità e la tutela della salute è importante perché nessun progetto trattamentale o di reinserimento sociale è possibile in presenza di malattia. Se ne occupa la Costituzione (1948) all’art.32, nel 1958 la competenza è del Ministero della salute pubblica, nel 1978 con la 833 il Servizio sanitario nazionale. Ma la 833 non ha chiarito a chi compete la salute dei reclusi. Nel 1975, con la L. 354 l’ordinamento penitenziario prevedeva i presidi sanitari, ma non chiariva chi li dovesse gestire, e quindi l’autorità competente. E la 833, successiva, si “dimentica” della medicina penitenziaria. Si apre così un dibattito, dato che la medicina penitenziaria non è esclusa dalla 833 (come invece per la Polizia di stato e delle forze armate) le persone recluse avrebbero dovuto essere assimilate alle persone libere. Questo “dibattito” si conclude nel 1987, quando il Consiglio di Stato si pronunciò dicendo che la salute del recluso è un presupposto per la rieducazione e quindi la competenza è del Ministero di Grazia e Giustizia.

Successivamente il DLG 230 del ’99 prevedeva per le persone detenute il mantenimento dell’iscrizione al SSN, il diritto alla salute, il trasferimento immediato della prevenzione e delle TD al SSN (sia in termini di funzioni che di risorse). L’amministrazione della Giustizia attiva allora una ricerca di dialogo con le strutture territoriali (rispondono la Regione Lazio, Puglia e Toscana) per una sperimentazione.

Il 230 è stato modificato in parte dalla 433 del 2000 che ha esteso la sperimentazione alle Regioni che ne facevano richiesta. Con la modifica della Costituzione (L. 3 del 2001) solo alcune competenze e funzioni rimangono allo Stato. Tra queste anche la sicurezza esterna ed interna, e quindi anche la salute delle persone recluse, fatti salvi i casi di pericolo di vita, che non possono essere compatibili con la reclusione.

Oggi alcune Regioni prevedono ad esempio la fornitura dei medicinali anche per i reclusi non TD, come la regione Piemonte) e per la specialistica. L’articolo 1, comma 4 del DLG 230 prevede che per l’iscrizione dei detenuti al SSN le Regioni percepiscono delle quote procapite per i detenuti residenti (n° residenti per ogni regione per la quota procapite senza lo status giuridico, più una quota per gli immigrati il cui flusso è monitorato dal Ministero degli Interni)

Da qui una domanda: cosa ci fanno le Regioni, come quella ligure, delle quote del SSN percepite per i detenuti?

Mentre Lombardia ed Emilia Romagna sono Regioni che investono nell’ambito carcerario in termini di salute, Liguria, Veneto, Umbria e Campania sono tra le peggiori.

Non dobbiamo dimenticare che le persone detenute hanno dei diritti, infatti la legge riconosce tutti i diritti che non sono in contrasto con lo stato di privazione della libertà.

Vediamoli:

il diritto all’integrità fisica (art. 32 della Costituzione, ma anche articolo 1 rispetto all’interesse della collettività)

il diritto alla salute mentale, alla tutela dei rapporti famigliari, sociali, all’integrità morale e culturale.

Ma la persona detenuta non può scegliere il luogo di cura (e neppure il medico di fiducia a meno che non lo faccia venire a proprie spese presso l’istituto dove è detenuto), in quanto prevista dall’autorità giudiziaria e dall’amministrazione penitenziaria.

La persona detenuta si trova infatti in una situazione di mancanza di autodeterminazione. Si consideri inoltre che vi è l’obbligo di convivenza in luoghi a maggiore densità di patologie diffusive, e gli interventi sanitari sono spesso percepiti come coattivi.

Le persone ristrette sono soggette al trauma della carcerazione, che è una entità clinica che ha delle caratteristiche particolari presenti in tutte le persone (più o meno gravi a seconda delle risorse personali dell’individuo) per mancanza di intimità, promiscuità forzata, perdita dell’affettività.

Su questo si innesta la malattia o la richiesta di salute. L’unica libertà, per la persona carcerata, è rivolgersi ad una struttura sanitaria, a cui vengono rivolte anche domande per situazioni non strettamente sanitarie.

Non possiamo dimenticare che la popolazione carceraria rappresenta un modello di comunità chiusa soggetta ad una particolare situazione restrittiva, con composizione multietnica, con una incidenza di patologie particolarmente elevata. È una comunità che ha modificato progressivamente le proprie caratteristiche risentendo di fenomeni più generali manifestatisi nella società, che violentemente ed improvvisamente, e spesso inaspettatamente si concentrano nel carcere.

La grande quantità di popolazione di stranieri (che è quella che con maggiore difficoltà trova modo di essere affidato ad una struttura esterna per l’esecuzione di pena fuori dal carcere) rappresenta spesso il fallimento del progetto migratorio. Questo comporta una serie di problematiche di approccio: la lingua, la condivisione delle regole, la cultura, la religione, l’alimentazione, l’interpretazione della malattia. Queste problematiche incidono non poco nei percorsi diagnostici e terapeutici da intraprendere in caso di malattia.

Perché così tanta importanza al tema della salute?

La risposta è semplice: perché è più facile ammalarsi quando si è reclusi.

In carcere l’organismo dell’uomo detenuto reagisce con maggiore ricettività agli agenti patogeni, si abbassano le difese immunitarie, lo stress da carcerazione abbassa le difese psichiche.

Si verifica di fatto uno squilibrio psico-emozionale a causa dell’amplificazione ed estremizzazione delle emozioni.

Intanto la rabbia: derivante dall’esposizione al pubblico giudizio, il rifiuto sociale e parentale, per la privazione della libertà.

La gioia trova spazio nel colloquio come unico legame con il passato, con la rassicurazione che non è solo e che qualcuno lo può aiutare ad avere una garanzia per il futuro.

La riflessione è sempre in opera, seppur con la difficoltà derivante della mancanza di intimità (intesa come anche lo star soli con i propri pensieri), avviene una rimurginazione, una sorta di riavvolgimento del film della propria vita, aumenta il livello di ansia per la perdita della libertà decisionale sulla propria vita.

La tristezza è una conseguenza della riflessione, la carcerazione viene vissuta come un lutto, un abbandono, una separazione, una perdita.

Sopraggiunge così la paura di perdere gli affetti, di non poter sostenere gli eventi, le malattie, i soprusi, prende corpo la percezione di sé come “persona senza più diritti”

Le conseguenze sono la destrutturazione psico-emotiva del soggetto, l’insorgenza di modificazioni sensoriali come la vista: le dimensioni della cella trasformano lo sguardo da “lungo” a “corto”; l’olfatto si anestetizza perché l’odore del carcere è pesante, stagnante, penetrante, uniforme. L’udito si acutizza connettendosi all’emozione della paura (il rumore delle sbarre, dei cancelli, delle chiavi, delle grida, dei richiami e dei lamenti - il carcere non dorme mai) e sopraggiunge la sordità come difesa. Il tatto: la privazione del contatto con vari tipi di materiali (vetro, metallo, lacci) riduce la gamma tattile, senza contare i contatti epidermici mancanti.

Queste modificazioni psico-sensoriali portano inevitabilmente ad un avvicinamento della persona detenuta al medico penitenziario.

Se giocano un forte ruolo le caratteristiche architettoniche di isolamento, non dobbiamo dimenticare la gestione fortemente ritualizzata della giornata, sempre spaventosamente uguale, ed il valore strutturale dell’aggressività auto ed etero diretta, e l’impossibilità a svolgere modalità fisiologiche naturali (come l’affettività e la sessualità).

Numerose sono le patologie alle quali può andare incontro una persona privata della libertà, molte ascrivibili ai modelli di stress psiconeuroendocrino.

Tra questi il disturbo post-traumatico da stress e quello acuto. Il disturbo di adattamento, quelli fittizi, e quelli somatoformi. Esistono poi situazioni cliniche come il parasuicidio (tentativi di suicidio con intenzione di sopprimersi che non si realizzano, si pensi che il 2.3% della popolazione tenta il suicidio, soprattutto nel primo mese di reclusione, ed è più frequente nei detenuti provenienti dal Nord Europa, dall’Ungheria, dai paesi dell’Est); l’autolesionismo: sono molto frequenti le ferite da taglio o punte su tutte le parti del corpo compresi i genitali, ingestione di corpi estranei, le bruciature, il taglio delle falangi delle dita, l’asportazione delle parti molle del padiglione auricolare, le fratture delle ossa delle mani e del cranio, la cucitura con ago e filo della bocca o degli occhi;

Ed ancora: il trauma da ingresso (l’ingresso, specie per chi non ha precedenti, può essere uno stimolo scatenante che causa ansietà, paura, frustrazione, depressione, con una complessa sintomatologia di tipo fisico a carico dell’apparato digerente con inappetenza, disgusto, impossibilità a deglutire, manifestazioni respiratorie con sensazioni gravi di soffocamento, angoscia respiratoria, fame d’aria, e manifestazioni cardiovascolari con tachicardia, vertigini, svenimenti. Ma anche sintomi psichici come lo stupore isterico, agitazione psicomotoria, crisi confusionali, anedonia, rannicchiamento fetale, furore pantoclastico, disorientamento spazio-temporale. Il trauma da ingresso causa anche manifestazioni ansiose: ansia di separazione, perdita e crisi di identità.

Anche altre sono le situazioni cliniche tipiche della popolazione carceraria: la vertigine dell’uscita, il comportamento regressivo, le sindromi deliranti, il panico omosessuale (secondo autori come Cerrado, il 70/80% della popolazione maschile detenuta si è dedicato a pratiche omosessuali -che non hanno nulla a che vedere con la “scelta” dell’orientamento sessuale ed affettivo- e che può provocare violente reazioni a veri o supposti approcci sessuali)) o pseudo-omosessuale (quando viene attribuito coartatamene un ruolo di passività, di” femminilità coatta”), la reazione da separazione nell’omosessualità femminile (nelle donne recluse l’omosessualità viene vissuta invece come scelta affettiva, e si formano coppie, che se separate possono incorrere in questo disturbo).

In genere i fattori che maggiormente influenzano la possibilità di sviluppare i disturbi sono il sentimento di impotenza, la paura intensa, il sentimento di orrore, e la prossimità all’evento traumatico.

La capacità di stare in carcere non è semplice: la maggior parte degli atti autolesionistici avviene nei primi giorni, e l’elemento confusivo che emerge in alcuni soggetti scardina gli elementi razionali, infatti mutilazioni anche gravissime e tentativi di suicidio avvengono a prescindere dalla pena inflitta o presumibile.

Da questa sommaria elencazione di note, di solo tema sanitario e che tralascia l’aspetto trattamentale e di sorveglianza, risulta evidente quanto il “pianeta carcere” sia molto complesso e di difficile comprensione per la maggioranza delle popolazione libera, e come l’istituzionalizzazione divenga un luogo di spersonalizzazione, quindi ben oltre quello precipuo di luogo dove si attua la privazione della libertà. La popolazione carceraria rappresenta il fallimento del progetto sociale esterno, e questo fa sì che venga relegato, temuto e spesso negato.

Ho sentito un direttore di carcere, il Dr. Makovec, oggi responsabile di Velletri e per molti anni vice-direttore di Rebibbia dire una cosa assolutamente logica, che spesso desideriamo dimenticare: in carcere possiamo finirci tutti, per aver commesso un reato, perché siamo intercorsi in un percorso deviante, perché eravamo nel posto sbagliato al momento sbagliato, perché alle volte la giustizia si sbaglia e non sempre se ne accorge subito. Dimenticare questa porzione della nostra società significa obliterare una realtà.

Savona, 18 dicembre 2005

Patrizia Turchi

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