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Metalmeccanici-Un contratto di svolta? Qualche risposta a Pietro Ichino

(21 Gennaio 2006)

Già Eugenio Scalfari aveva notato la convergenza tra gli articoli di Panebianco e di Ichino, comparsi qualche giorno addietro sul Corriere della Sera. In effetti i due autori, muovendosi l'uno sul terreno politico in funzione della costruzione del partito democratico, l'altro su quello sociale per una destrutturazione del sindacato e del contratto nazionali, convergono e convengono sulla "marginalizzazione dei deboli e il predominio dei forti", per dirla con le lapidarie parole del fondatore della Repubblica. Che poi Scalfari si mostri così severo perché vede in queste posizioni minacciato il suo desiderio del ritorno alle pratiche concertative in campo sindacale e al compromesso politico segnato da una sorta di neocentrismo programmatico, è altro discorso che non inficia in nulla la qualità della critica ai due editorialisti.

Ieri Pietro Ichino è tornato sull'argomento unendosi al coro - governo, Confindustria e non soloÉ - di chi vorrebbe trarre dalla positiva conclusione del contratto dei metalmeccanici la necessità di uccidere il contratto nazionale una volta per tutte. La logica fa a pugni con una simile consequenzialità, ma non certo con gli interessi che quest'ultima sottende.

In sostanza egli propone di affidare al contratto nazionale semplicemente la funzione di "una rete di sicurezza in ultima istanza", nel senso che esso dovrebbe venire applicato solo laddove non esistesse una disciplina diversa contrattata a livello aziendale o regionale.

L'argomentazione poggia essenzialmente su due pilastri. Il primo è rappresentato dal fatto che la difesa del contratto nazionale e dell'attuale quadro del diritto del lavoro interesserebbe solo la metà dei lavoratori destinatari, a causa della frammentazione del tessuto produttivo e del moltiplicarsi delle figure precarie. Il secondo è che la flessibilità della disciplina contrattuale potrebbe diffondere più capillarmente la presenza del sindacato. Ma, poiché l'autore stesso riconosce che più dei due terzi delle imprese non conoscono la contrattazione collettiva aziendale, il contratto nazionale dovrebbe restare, ma in forma sempre più residuale.

Siamo di fronte ad un ardito capovolgimento semantico. Federico Caffè parlava di Stato occupatore in ultima istanza per quella forza-lavoro che non trovava allocazione sul libero mercato; Pietro Ichino usa la medesima espressione riferendola al contratto nazionale di lavoro che si ridurrebbe ad una disciplina di default, cioè in mancanza di meglio. Nel primo caso la struttura pubblica sarebbe dovuta intervenire per salvaguardare e rendere efficace un diritto costituzionalmente protetto, quello al lavoro; nel secondo caso la contrattazione nazionale dovrebbe limitarsi a regolare le condizioni minime del conflitto tra capitale e lavoro.


Siamo oltre la convergenza notata da Scalfari con il progetto di un partito democratico costruito sul definitivo disancoramento della politica e delle strutture partitiche dai referenti sociali tradizionali - anche se spesso traditi - della sinistra. Qui siamo del tutto interni alle logiche della globalizzazione, che postulano la diversità crescente tra le condizioni materiali di vita e di lavoro tra le diverse aree e la loro riorganizzazione secondo criteri di omogeneità di business. L'importante è che comunque e in ogni dove il profitto, mascherato da competitività, sia il punto di riferimento che detta le regole all'intero sistema.

In ogni caso è cosa certa che questo contratto segna un punto di svolta nella storia delle relazioni tra le parti sociali. Il fatto che per il futuro le parti intendono muoversi in direzioni opposte sottolinea il suo carattere di spartiacque.

Questo consiste non solo nel fatto, di per sé quanto mai rilevante, che dopo un lungo periodo l'ipotesi di accordo viene raggiunta con la firma di tutti e tre i sindacati metalmeccanici. Né soltanto nella circostanza che l'accordo è maturato nella sede sindacale propria, ovvero non sono intervenuti nella trattativa né le confederazioni né il governo, condizione che - fatta l'eccezione del 1994, che però seguiva a ruota l'accordo triangolare dell'anno precedente - non si verificava dal maggio del 1976.

Credo che il carattere innovativo e precipuo di questo rinnovo così a lungo atteso stia altrove e consista in alcuni elementi da valorizzare e da generalizzare ad ogni livello. Ne individuo almeno tre.

In primo luogo si è potuto raggiungere questo risultato che, al di là di punti di debolezza in particolare sulla questione dell'apprendistato, viene così favorevolmente valutato da tutta la delegazione sindacale, grazie al metodo democratico impiegato nella discussione e nella definizione della piattaforma, nella promozione delle iniziative di lotta, nell'impegno a sottoporre l'ipotesi d'accordo ad un giudizio referendario fra tutte le lavoratrici e i lavoratori. Questa pratica è finora unicamente circoscritta ai lavoratori metalmeccanici, costituisce la vittoria forse più importante della Fiom, pagata anche al prezzo delle passate discriminazioni. Ed è una vittoria di una ritrovata unità sindacale.

La cosa non può fermarsi qui, ma deve avere conseguenze sul piano legislativo, politico e sindacale. Nell'intesa programmatica dell'Unione, la cui precisa definizione è questione di giorni, è inserita la necessità di una legislazione sulla rappresentanza e la democrazia sindacali. Il suo carattere inderogabile esce rafforzato e sottolineato da questo rinnovo contrattuale. Ai primi di marzo si terrà l'assise congressuale della Cgil. Già nei congressi di base il sostegno dato dagli iscritti alle tesi presentate dal segretario della Fiom su democrazia e contrattazione sono state consistenti. Il loro peso è destinato ad accrescersi in tutto il sindacato confederale dopo questa conclusione contrattuale e l'esito del referendum tra i lavoratori.

In secondo luogo si è dimostrato che la scelta e la pratica di forme di lotta innovative hanno un peso reale sulla modificazione dei comportamenti padronali. L'avere portato la lotta al di fuori dei cancelli delle fabbriche e delle porte degli uffici, avere invaso le vie di comunicazione del paese, avere cercato e spesso trovato la solidarietà dei cittadini non è solo servito a fornire quella visibilità negata dai mass- media, ma ha dato il senso preciso e non scontato della determinazione, della compattezza e della fisicità della presenza operaia che ha contribuito, forse in modo decisivo, a disarticolare e piegare la resistenza e i progetti padronali.

In terzo luogo, dopo tanti anni è riapparso un nesso intrinseco tra i contenuti della lotta sociale e quelli veri dello scontro politico; tra i movimenti e la politica. Il rifiuto dell'applicazione della legge 30 oppure il grande tema della redistribuzione del reddito sono stati al centro del conflitto come della discussione in atto tra le forze di opposizione. Come ha giustamente osservato ieri su queste colonne Giorgio Cremaschi i metalmeccanici hanno fatto la loro parte. Spetta ora all'Unione, quindi anche a noi, fare la nostra e fino in fondo. Vincere si può, dunque si deve.

Alfonso Gianni (Liberazione 21 Gennaio 2006)

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