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Governare con i banchieri? No, nazionalizzare le banche

(6 Febbraio 2006)

La vicenda di "bancopoli" non è un'improvvisa patologia ma la punta emergente di un sistema che vede i potentati finanziari promuovere l'uno contro l'altro l'espropriazione della ricchezza del Paese

La cosiddetta vicenda di "bancopoli" ripropone a sinistra questioni di fondo, sociali e politiche insieme. Grazie anche al vasto processo di privatizzazione e concentrazione attivato nella lunga legislatura di centrosinistra degli anni 90, il settore bancario è l'ambito del capitalismo italiano che ha meglio resistito all'agguerrita competizione interna e internazionale. Gli utili delle banche italiane sono semplicemente enormi, come emerge dall'aumento medio dei profitti netti del 46,8% per i quattro maggiori istituti bancari lungo i primi nove mesi del 2004. Le loro proiezioni internazionali sono in ascesa, come si evince dal posizionamento di punta in Europa di Banca Intesa e Unicredito, reduce dalla felice fusione con la banca tedesca Hypovereins ed oggi dominatrice della intera finanza polacca. Il loro peso complessivo nell'economia nazionale si è sviluppato in misura direttamente proporzionale alla crisi di sovrapproduzione della grande industria esportatrice (automobilistica ed alimentare in primis) e alla crisi dei tradizionali distretti della piccola e media impresa: e ciò sia attraverso il crescente indebitamento bancario delle imprese sia attraverso la corrispondente estensione della compartecipazione azionaria delle imprese da parte delle banche. In sostanza, il declino del capitalismo italiano nella produzione capitalistica internazionale si è tradotto in un potente sviluppo del capitale finanziario e in un intreccio sempre più inestricabile ed esteso tra rendita finanziaria e profitto.

Le banche della rapina

Proprio questo sviluppo ha rilanciato una lotta selvaggia tra pescecani capitalisti per la "spartizione del bottino" e il controllo dei gangli vitali dell'economia: una lotta lastricata di rapine ai danni dei piccoli risparmiatori, consumatori, correntisti (vivi o morti); ai danni dei lavoratori di tante imprese travolte; ai danni di un'economia meridionale sempre più colonizzata dai colossi bancari del nord, come nella migliore tradizione storica del capitalismo italiano. Le scalate incrociate di Antonveneta e Bnl da parte di una cordata di nuovi faccendieri di diversa estrazione e provenienza non è dunque un'improvvisa patologia ma la punta emergente della quotidianità capitalistica e della sua legge della giungla. Qui sta davvero l'autentico scandalo: non (solo) nell'illegalità manifesta di un pugno di parvenù, ma in quella tradizionale legalità quotidiana che ha visto e vede l'insieme dei potentati finanziari del paese promuovere l'uno contro l'altro la comune espropriazione della ricchezza sociale. A partire da quelle grandi e rispettabili banche del salotto buono del capitalismo italiano che portano il nome di Banca Intesa, Unicredito, San Paolo, Capitalia, Monte dei Paschi: che fanno leva sui costi bancari più alti d'Europa per finanziare i propri affari speculativi; che sono protagoniste, dirette o indirette, di tutti i grandi crimini finanziari degli ultimi anni (Cirio, Parmalat, Bond argentiniÉ); che sono state negli ultimi dieci anni all'avanguardia, a fianco di Confindustria, nell'imporre sacrifici alle grandi masse, così come oggi sono in prima fila nel commissionare a Prodi nuove "riforme impopolari"; sempre col supporto di quella stampa nazionale che proprio le grandi banche controllano (a partire dal Corriere).

Le sinistre e il potere bancario

Di fronte a tutto questo emerge, tanto più oggi, la subalternità profonda della sinistra italiana alle classi dominanti del paese. Non parlo della maggioranza dirigente dei Ds, unicamente impegnata a scalare politicamente la rappresentanza centrale del capitalismo italiano in concorrenza aperta con la Margherita e per questo fiancheggiatrice incauta di aspiranti banchieri di Unipol come ieri dei capitani coraggiosi di Telecom. Parlo dei gruppi dirigenti della sinistra che si definisce "radicale": che certo criticano (molto sommessamente) "gli eccessi di disinvoltura" dei Ds e la cosiddetta "finanziarizzazione dell'economia"; ma d'altro lato, pur di apparire affidabili agli stessi Ds e alla Margherita, come futuri partners di governo, rinunciano a mettere in discussione il potere bancario e la sua funzione di rapina, limitandosi a rivendicare improbabili "codici etici" o a chiedere la tassazione delle rendite finanziarie al tasso europeo: una richiesta in sé talmente minimale e così poco discriminante da essere oggi avanzata dalla stessa Confindustria di Montezemolo sia come mezzo di razionalizzazione capitalistica e di ridimensionamento dei parvenu della finanza sia come leva di un ulteriore trasferimento di ricchezze ai profitti della grande industria esportatrice (sostegno alla esportazioni, alle ristrutturazioni, alla ricerca tecnologica etc). Non è davvero impressionate questo divario tra la radicalità della rapina capitalista e il moderatismo programmatico di una sinistra che pur si vuole "alternativa"?

Que se vayan todos

Al contrario lo scandalo bancario dovrebbe richiamare più che mai l'attualità di un programma di alternativa vera. Di un programma la cui radicalità di classe sia eguale e contraria alla radicalità quotidiana del capitalismo in crisi. Di un programma che, partendo dall'esperienza concreta di milioni di lavoratori, consumatori, correntisti, abbia il coraggio di rivendicare apertamente la nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo (perché ne hanno avuti sin troppi) e sotto controllo dei lavoratori. E' questa una misura indispensabile di igiene morale e di riappropriazione sociale della ricchezza espropriata; è una misura indispensabile per cancellare alla radice quella cinica roulette russa del capitale finanziario che affida il destino sociale di milioni di uomini ai giochi di società di una minoranza privilegiata di parassiti sociali; è una misura indispensabile per riconsegnare nelle mani del popolo una leva decisiva di riorganizzazione sociale dell'economia. Una petizione "ideologica e astratta"? E' vero l'opposto. Una lotta dell'insieme del movimento operaio per la nazionalizzazione delle banche risponderebbe alla diffusa ostilità sociale contro lo strozzinaggio quotidiano del potere bancario; potrebbe mobilitare ampi settori di lavoratori e piccoli risparmiatori, saldando attorno alla classe operaia un più vasto blocco sociale alternativo; potrebbe sottrarre alla demagogia reazionaria di Berlusconi il classico argomento sulla "sinistra amica dei banchieri", inserendosi invece attivamente nelle contraddizioni del blocco sociale delle destre. Potrebbe insomma tradurre una prospettiva socialista in un linguaggio popolare e comprensibile per vaste masse.

Certo una lotta di massa per la nazionalizzazione delle banche è incompatibile con ogni alleanza con Confindustria, con i banchieri sostenitori di Prodi, con i portavoce e fiancheggiatori di Unipol. Richiede una rottura di fondo con le classi dirigenti del paese e una prospettiva di alternativa di società e di potere: in cui siano i lavoratori e le lavoratrici a guidare l'Italia, non più i loro padroni e i loro strozzini. "Que se vayan todos! ": è la consegna semplice e chiara che da anni accompagna l'ascesa di massa in tanta parte dell'America latina. La crisi sociale e morale delle classi dirigenti del nostro paese non mostra forse l'attualità straordinaria in Italia di questa consegna? Perché la sinistra italiana invece di contendersi i favori di Prodi non unisce le proprie forze attorno a questa parola d'ordine elementare? Perché non lavora a ricondurre ogni obiettivo immediato, ogni lotta concreta, ogni movimento a questa prospettiva generale, sviluppando la coscienza politica dei lavoratori?

So che i cantori del "realismo" reagiscono con scetticismo di fronte a tanta "utopia". Ma la vera utopia è immaginare un capitalismo "etico" e progressista, magari garantito da un paio di ministri di sinistra in un governo guidato dai banchieri e dai loro partiti: come ci mostra l'intera storia della società borghese, dal millerandismo di fine 800 sino al Brasile corrotto di Lula. E viceversa il vero realismo in questa epoca di crisi è più che mai anticapitalista e rivoluzionario. Perché realisticamente non vi sarà alcun nuovo mondo possibile all'ombra dei capitalisti e in collaborazione con questi. Perché realisticamente solo la rottura col capitalismo può sgomberare il campo ad una nuova società. Perché realisticamente solo una lotta radicale anticapitalista può strappare già oggi, come suo sottoprodotto, risultati parziali, riforme, nuove conquiste o difesa delle vecchie. E viceversa ogni rinuncia ad una prospettiva capitalista nel nome dei governi con i liberali comporta, già oggi, arretramenti, rinunce, controriforme, con la pesante corresponsabilità delle sinistre.

Collaborazione con i capitalisti o rottura con i capitalisti? Governare coi banchieri o lottare per la nazionalizzazione delle banche? Questo è dunque il vero bivio che si pone, ancora una volta, di fronte alla sinistra italiana, e non solo. Ogni "terza via" riposa nella letteratura (sempre florida) dei pii desideri.

Marco Ferrando

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