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(28 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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I salari italiani sono i più piccoli d’Europa 1.350 euro al mese. Lo dice l’Ocse

(4 Aprile 2006)

Spagna e Portogallo ci hanno scavalcato. Un operaio coreano (o inglese) guadagna il 50% in più rispetto ad uno italiano. In media, nell’Europa occidentale le buste paga sono del 20 per cento più alte che in Italia. E quelle dei manager? No, lì le cose vanno bene: i nostri sono tra i più ricchi del mondo


Lo sprofondare dei salari italiani, così come emerge dall’ultima indagine dell’Ocse, come sindacalista mi fa vergognare.

Certo, è giusto arrabbiarsi con Berlusconi, il suo governo, la sua politica per i ricchi, il suo incredibile negare la realtà di un generale diffuso impoverimento. Questa rabbia si tradurrà, speriamo, in un voto che mandi a casa il Presidente del Consiglio, anche per far respirare un po’ le nostre buste paga.

Ma dai dati dell’Ocse emerge un quadro ben più grave di quello riconducibile alle scelte di classe di questo governo. Sopra di noi stanno paesi che hanno governi di centrosinistra, così come di centrodestra. Paesi di antica industrializzazione, dal Belgio alla Germania, alla Francia, e paesi che ci hanno scavalcato, dalla Spagna fino alla Corea del Sud. Le retribuzioni di quest’ultimo paese, è bene ricordarlo, solo quindici anni fa venivano utilizzate come spauracchio per i lavoratori italiani, così come oggi avviene per quelle cinesi. Se andiamo avanti così tra una decina d’anni anche i salari cinesi saranno sopra i nostri. Siamo a una catastrofe che viene da lontano.

I salari italiani non solo sono al 23esimo posto nella classifica tra i trenta paesi più industrializzati, ma sono sotto di ben il 19% rispetto alla media dei paesi dell’Euro. Nella sostanza, un lavoratore italiano medio perde più di due mensilità all’anno rispetto ai colleghi francesi, tedeschi, inglesi, belgi. E questa è una media, che nasconde il dramma dei salari dei precari, giovani o anziani che siano, e lo scandaloso permanere di un differenziale negativo per le donne, che a parità di lavoro prendono il 20% in meno dei maschi. A questi dati non corrisponde alcunché di simile per le classi dirigenti. In questi anni gli stipendi dei manager, grazie anche alle laute elargizioni di premi in azioni quasi esentasse, hanno raggiunto i vertici delle retribuzioni mondiali. E’ sicuro che se un operaio è al 23esimo posto nella classifica Ocse, chi comanda nella sua fabbrica si batte per il primo.

Anche la ricchezza finanziaria ha raggiunto in Italia un livello di concentrazione tra i più alti del mondo, mentre la distribuzione del reddito è tra le più sperequate. Insomma, mentre i salari dei lavoratori andavano giù, i profitti, le rendite, i premi per i dirigenti, partivano verso le stelle.

Questa catastrofe sociale si è accompagnata al progressivo crollo della competitività industriale ed economica del nostro paese. Peggio andavano i salari, peggio andava la capacità dell’Italia di produrre, vendere, esportare. Ci sarà un rapporto tra le due cose? Noi pensiamo di sì. Noi siamo convinti che il progressivo declino dei salari, che erano il 60% del reddito nazionale negli anni Settanta e che oggi sono sotto il 48%, sia una delle cause fondamentali della stagnazione economica e sociale del paese. A forza di comprimere e tagliare i salari, è venuta meno in Italia quella spinta fondamentale all’innovazione, alla ricerca, alla crescita della qualità, che invece nel passato aveva permesso la crescita. La politica della concertazione, dei patti sociali, dello scambio tra moderazione salariale e sviluppo, non ha prodotto risultati. Anzi, a 15 anni dall’abolizione della scala mobile e dalla scelta di una politica salariale moderata, il bilancio economico e sociale è negativo. I salari sono andati giù e la produttività e la competitività del sistema li ha seguiti verso il basso.

Per queste ragioni, se è giusto incolpare Berlusconi per gli ultimi disastri, se si vuole davvero cambiare, bisogna che la politica salariale del paese cambi rotta. E’ pertanto necessaria una svolta di fondo nell’iniziativa sindacale.

Ci sono almeno tre punti fermi che è indispensabile affermare:
1. bisogna riconoscere il principio per cui la crescita dei salari è la leva fondamentale per uno sviluppo più gusto del paese. Occorre un vero e proprio ribaltamento della vecchia politica dei due tempi, che prometteva la giustizia dopo la crescita e lo sviluppo. Bisogna far crescere qui ed ora i salari, e si vedrà che in questo modo anche il paese riprenderà a svilupparsi.

2. la crescita dei salari non può avvenire solo con le scelte di politica redistributiva dei governi, con il fisco o con lo stato sociale. E’ necessaria una politica salariale offensiva da parte del sindacato. Bisogna abbandonare la politica della moderazione salariale con l’obiettivo di recuperare almeno il deficit del salario italiano rispetto alla media europea.

3. per ottenere questo occorre una nuova fase di conflitto sociale. Senza di essa non si va da nessuna parte, perché né le imprese, né tutti coloro che si sono arricchiti a discapito dei salari rinunceranno per bontà a quanto hanno ottenuto.

Andiamo tra qualche giorno a votare per mandare via Berlusconi, ma poi, per meglio difendere le nostre buste paga, presentiamoci in tanti ai banchetti ove si raccolgono le firme per ripristinare la scala mobile.

Giorgio Cremaschi (Liberazione 4 Aprile 2006)

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