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Estate al fresco

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Una ‘vittoria’ che ha il sapore della sconfitta

(17 Aprile 2006)

Il momento della verità è arrivato a metà del lungo spoglio elettorale quando lo spettro di un pareggio, sancito da una possibile vittoria del nano al senato e della mortadella alla camera, ha fatto irruzione nei salotti televisivi, facendo impallidire le facce degli ospiti dei Ferrara e dei Vespa e sconvolgendo le scalette degli interventi che i sondaggi della vigilia davano per scontati.

E per un’ora buona su tutti, amici e nemici (con la nervosa eccezione dei “comunisti” Bertinotti e Rizzo pateticamente aggrappati alla logica dell’alternanza), è scesa la paura, quella vera, quella di dover essere costretti a ritornare al voto in tempi brevissimi, come del resto tante volte solennemente proclamato ... data la conclamata incompatibilità dei due blocchi su cui si era giocata l’intera campagna elettorale.

Ha incominciato Belpietro (spalleggiato da Ferrara) a porre la questione della necessità di turarsi il naso, rigettare indietro il vomito, e provare a immaginare una Grande Coalizione capace di dare comunque un governo all’Italia.

Lo imponevano i mercati (i padroni), i veri detentori del potere politico, ai quali poco importa chi vince o chi perde a condizione che, chi vince, faccia funzionare l’apparato statale nella direzione giusta che è poi quella della difesa e del rilancio degli utili e dei profitti.

Per gli “investitori e le istituzioni finanziarie”, che da queste elezioni si aspettavano un ulteriore accelerazione dei processi di privatizzazione e una redistribuzione del reddito a loro vantaggio, il “pareggio” era il risultato peggiore che si potesse ottenere.

Un governo troppo debole non sarebbe riuscito a realizzare le “riforme” promesse dai due schieramenti e, un voto in tempi brevi, avrebbe rischiato di inceppare l’intero meccanismo di estorsione del profitto rinviando sine die il rilancio del paese-impresa sui mercati internazionali.

Nessuna meraviglia quindi se, dopo la beffarda sceneggiata dei sondaggi virtuali, abbiamo dovuto assistere al teatrino di uomini della destra e della “sinistra” - fino a poche ore prima gli uni contro gli altri armati - che a gara cercavano di ricucire lo strappo proponendo il canovaccio delle cose necessariamente da fare prima di tornare al voto.

Una nuova legge elettorale capace di “correggere” i rapporti di forza usciti dalle urne – e di dare la vittoria “comunque” a uno dei due contendenti - e una finanziaria capace di rassicurare i mercati internazionali, fatta assieme dai maggiori partiti nazionali (Forza Italia e Ulivo).

E, per un attimo, l'incubo di Berlusconi e Prodi seduti allo stesso tavolo intenti a varare il documento finanziario fondamentale del paese (da cui dipende la vita concreta dei cittadini e le politiche che è possibile perseguire) ha rischiato di diventare una realtà, dimostrando, a chi ancora ha bisogno di dimostrazioni, di quale pasta sia fatta l'alternanza fra i due poli.

Fortunatamente (e fortunosamente) alla fine i dati si sono stabilizzati e, anche se in maniera risicata, è arrivata la vittoria dell’Ulivo ... e tutto è ritornato alla “normalità” dello scontro.

La “sinistra” ha vinto. Il suo governo è già lì, dietro l’angolo.

Con una maggioranza risicata in una delle due camere, con una coalizione debole che dovrà far convivere l’ultra liberista Bonino con il no-global Bertinotti, con un programma “ambiguo” costruito nel momento in cui Prodi credeva in una sua maggioranza autosufficiente e immaginava (sull’onda delle primarie) di poter governare senza fastidi, vedremo quanto durerà.

In attesa, proviamo a riflettere su alcune questioni poste dagli stessi risultati elettorali.

La prima questione è quella del rapporto fra la rappresentatività e la governabilità.

Pagine e pagine sono state scritte ma nessuno in fondo dice una semplice verità e cioè che, ormai, nelle “democrazie” non sono gli elettori a decidere ma i meccanismi delle leggi elettorali che, attraverso i premi di maggioranza e gli sbarramenti creati per escludere le forze non omologate, impediscono di fatto che i parlamenti eletti siano l’esatta fotografia del paese.

Che questa volta la legge elettorale, costruita a tavolino da un Berlusconi troppo credulone nei sondaggi che lo davano per spacciato, abbia regalato la vittoria all’avversario è un incidente di percorso che può anche farci piacere. Ma non possiamo sorvolare sul fatto che, con la vecchia legge elettorale (e i dati attuali), la destra avrebbe quasi sicuramente vinto; il che apre un problema di credibilità e di legittimità non solo per il futuro governo ma per l’intero sistema “democratico”.

Al di là dei meccanismi più o meno legittimi di formazione del consenso (dalla corruzione al ricatto mafioso clientelare, dalle paure indotte dal potere mediatico alle convinzione inculcate dalla chiesa e dai suoi apparati, dalla forza delle idee ripetute ossessionatamene da chi ha il potere e i soldi per farle circolare ai brogli di piccolo cabotaggio), gli stessi consensi possono produrre risultati perfino opposti sul piano parlamentare.

Si può vincere o perdere per una legge elettorale scritta male, e non occorre essere comunisti per capire che, tutto questo, ha poco a che fare con la tanto decantata democrazia (di cui ci parlano i corifei del capitalismo) e molto (tanto) a che vedere con la dittatura senescente di un capitale che non è più capace di rispettare le regole da lui stesso create nella fase giovanile e progressiva della sua storia.

Dalla democrazia rappresentativa alla democrazia ingegneristicamente pilotata. Quello che conta non è il voto ma come questo viene “interpretato” e “mediato” dalla legge elettorale che qualsiasi maggioranza può cambiare a suo piacere.

E il fatto che, questa volta, l’ingegnere di turno abbia sbagliato i calcoli (e il palazzo gli sia crollato addosso), non rende più accettabile il pasticcio in cui ci ha cacciato l'esasperata ricerca di una governabilità costruita contro “la libera espressione della volontà popolare” che rimane pur sempre, anche se solo formalmente, l'architrave su cui si basa il compromesso sociale fra le classi.

La seconda questione è quella dei reali rapporti di forza esistenti nel paese, di come essi si riflettono nelle urne.

L’illusione che si potesse ricacciare indietro la canea reazionaria (che in Berlusconi ha il suo epicentro) mettendo al servizio di una parte della borghesia (quella più moderata e concertativa) le forze disperse di un proletariato sconfitto, si è rivelata, appunto, un’illusione che si è sciolta come neve al sole, con lo sciogliersi dei sondaggi virtuali, sotto l’avanzata dei risultati reali.

Quando alla tua testa marciano i tuoi nemici, quando sono loro a decidere la direzione da seguire, la sconfitta è certa.

Pensare che si potesse cacciare il nano e la sua corte rinunciando alle battaglie di classe alla coda del riformismo moderato di un Bertinotti o di un Diliberto, pensare che la resa incondizionata all’alleanza con i banchieri e gli industriali, con le loro forze e rappresentanze politiche, potesse attirare i consensi della parte moderata del paese e regalarci (a furor di popolo) la sconfitta di Berlusconi, si è rivelata un’ illusione fallimentare e pericolosa.

In verità la coalizione di centro-sinistra non solo non ha recuperato i voti dei moderati, ma non ha neanche recuperato i voti popolari, a meno che non si voglia pensare che la metà del paese è fatta tutta di ricchi redditieri.

Berlusconi ha condotto la sua battaglia elettorale contro i “comunisti” vincendo di fatto contro un nemico inesistente. E vincendo di fatto la sua battaglia, in nome e per conto degli interessi della sua intera classe, prima ancora del voto, nel momento in cui ha imposto all’avversario una piattaforma moderata e assolutamente priva di ogni contenuto di classe.

Nell’assenza totale di una credibile proposta alternativa che ponesse in discussione i meccanismi stessi dell’accumulazione capitalista, nell’assenza totale di una politica che ponesse al centro della battaglia la questione del salario (e delle pensioni) del suo potere d’acquisto tartassato dalle tasse vere e assolutamente non progressive, quelle indirette (sulla salute, sull’acqua, sulla luce, sulla benzina, sui beni di prima necessità), di fronte alla “timidezza” espressa nella difesa dei diritti del lavoro (a cominciare dal diritto a un lavoro stabile e sicuro), lo stesso elettorato popolare è stato facile preda della demagogia populista reazionaria. Ha scelto un male conosciuto contro un futuro nebuloso di cui non aveva chiari i contorni.

Ha, diciamocelo con chiarezza, preferito “il sovversivismo delle classi dominanti” di fronte alla proposta di un “nuovo mondo possibile” che, grattando grattando, si rivelava ogni giorno di più come la riproposizione del vecchio mondo esistente.

Del resto, i risultati elettorali sono il riflesso dei rapporti di forza e del livello di coscienza politica presente nel paese. E la coscienza politica non si costruisce nel mondo virtuale della propaganda mediatica ma in battaglie reali, nei posti di lavoro, nei quartieri, nelle scuole, nelle piazze. Si costruisce a partire dai bisogni elementari, organizzando prima la resistenza e poi la lotta e, soprattutto, si costruisce nella misura in cui esiste un partito capace di porsi il problema dell’autonomia della classe e di immaginare un percorso strategico e tattico capace di trasformare una massa informe, divisa e ricattata, in una classe organizzata cosciente della sua forza e in grado di farla pesare.

L’ipotesi Bertinottiana di battere – prima – il nano, rinunciando alla autonomia politica dei comunisti, e di condizionare – poi – lo schieramento di centro-sinistra, si è dimostrata fallimentare due volte. Perché non è servita a battere definitivamente nel paese le forze reazionarie e perché i risultati elettorali risicati renderanno impossibile ogni velleità futura, costringendo la pur notevole rappresentanza rifondarola a ingoiare i peggiori rospi, chiusa nelle strette maglie del ricatto del ritorno delle destre.

E’ facile pronosticare che sarà proprio il Prc, anello debole dell’alleanza, a doverne subire i maggiori contraccolpi in termini di credibilità, svendendo la sua stessa appannata identità, sul terreno di una governabilità fatta di “lacrime e sangue” senza poter dare ai suoi elettori neanche il contentino di un Berlusconi indebolito e in fuga verso lidi lontani.

La terza questione che è strettamente legata alle prime due è il pericolo di una svolta autoritaria legata alle dichiarazioni eversive che fanno capolino da giorni con una sfacciataggine preoccupante e con toni che non hanno precedenti nella storia della nostra Repubblica.

Il nano non se ne vuole andare. Chiede una buona uscita che gli garantisca l’immunità per i prossimi anni. Mette continuamente in discussione il risultato elettorale sperando in qualche sponda (D’Alema qualcosa l’ha già concessa) nel fronte avverso.

Qualcuno all’estero – forse anche esagerando – parla già di un rischio di golpe. Un golpe all’italiana con la sua componente inciucista ma non per questo meno preoccupante.

E’ difficilmente ipotizzabile, allo stato attuale, che Berlusconi tenti una prova di forza rifiutando di lasciare il suo incarico; l’Europa della finanza e dei banchieri non può permettersi in questo momento una scelta così conflittuale e nemmeno la stessa Confindustria sarebbe disponibile a un’avventura di tale portata. Ma … se lo facesse... quali forze in campo saremmo oggi in grado di mobilitare?

Riporre le speranze sul futuro del paese nelle pressioni delle cancellerie europee e nella correttezza istituzionale degli scalpitanti alleati nazional-papalini, sperare nelle contraddizioni della Lega e avere ...pazienza ... nell'attesa di una telefonata di Bush che tarda ad arrivare, è il massimo che Prodi sia stato in grado di proporre al suo stesso schieramento.

Non un’indicazione, non un tentativo di mobilitazione, non una chiamata alla lotta di fronte all’arroganza delle dichiarazioni di un Presidente del Consiglio che continua a affermare a tutte le ore che non intende affatto andarsene via.

L’ingovernabilità è un elemento positivo se, assieme ad essa, cresce nel paese una diffusa e organizzata volontà di “sostituire alla dittatura dei padroni la dittatura dei lavoratori”, se le lotte si sviluppano e si radicalizzano, se una nuova classe pone la questione del suo diritto a governare in maniera alternativa cominciando col praticare la democrazia diretta e a imporre il suo potere nei luoghi dove vive e lavora.

Tutto questo non c’è. C’è la passivizzazione (con qualche interessante ma debole elemento in controtendenza) e ora, anche, la disillusione per una “vittoria” che si pensava facile e che facile non è stata. E c’è soprattutto l’opera nefasta delle organizzazione e dei dirigenti “operai”. Un ceto politico, borghese nella sostanza, che disarma ideologicamente le classi oppresse costringendole nella camicia di forza di un’alleanza innaturale con un centro-sinistra che sta dimostrando di essere incapace perfino di scendere in campo per difendere quei pochi spazi democratici, compatibili con il sistema capitalistico, che ancora ci rimangono.

La storia non si ripete meccanicamente ma i suoi insegnamenti e bene ricordarseli.

Siamo nel novembre del 1919 e per la prima volta in Italia si vota col sistema proporzionale. I popolari di Sturzo ottengono cento deputati, i socialisti 156. Assieme hanno la maggioranza nel parlamento e nel paese. La destra nazionalista ottiene 17 deputati, i fascisti nessuno. Trentacinque mesi dopo, quella stessa maggioranza elettorale non riuscì a impedire la marcia su Roma di Mussolini e l’inizio della dittatura fascista.

La storia non si ripete meccanicamente, è diverso il contesto internazione e il livello del conflitto, sono diverse le stesse classi in lotta e la coscienza che hanno di se, ma serve a ricordarci che a decidere, sempre, sono le masse organizzate – anche quelle mobilitate dalla reazione – e non le maggioranze parlamentari.

Che cosa ci sia da festeggiare in tale contesto, non riesco proprio a capirlo.

15 aprile 2006

mario gangarossa (...a muso duro)
sottolebandieredelmarxismo/

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