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(17 Ottobre 2011) Enzo Apicella

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La rivendicazione centrale: il partito rivoluzionario

(21 Aprile 2006)

Compagni che seguono il nostro sito, a volte, ci inviano domande o critiche, che ci spingono ad approfondire problemi che altrimenti non coglieremmo in pieno. Prendendo spunto dall’articolo “Proposta di lotta per l’opposizione di classe”, un compagno mette in rilievo che molti militanti, anche se hanno tutti come fine ultimo il socialismo, partono da esperienze storico-ideologiche differenti. Finché si discute tutto funziona, se c’è la volontà di vincere il settarismo, mentre, nell’azione, non prevalgono più i fini comuni e la volontà di rimanere uniti, ma le pressioni del proprio specifico ambiente politico. Gli sforzi per superare le differenze marginali si rivelano un lavoro di Sisifo e ci si divide nuovamente.

Nei gruppi – continua - l'iniziale debolezza organizzativa, derivata dall’ inesperienza e dalla ristrettezza delle risorse economiche e numeriche, risulta il maggior limite, perciò non si riescono ad approfondire le discussioni teoriche perché assorbiti da una frenetica attività rivolta verso l’esterno e dalla mancanza di tempo e di soldi per spostarsi da un capo all'altro dell'Italia. La vera "prova del fuoco" di questi incontri teorici, si compirà nella pratica concreta della lotta politica e non in "adesioni a distanza" .
L'idea di "incalzare" i riformisti senza settarismi, che è la politica più seria, comporta un grande apparato organizzativo e una omogeneità teorica ferrea (altrimenti saranno loro a ingoiare noi) che nessuno per ora ha. Per fare del contro-riformismo non bastano gruppi di compagni combattivi sparsi per l'Italia, ma un ferreo PARTITO rivoluzionario.

Da questa breve sintesi della lettera rileviamo che le obiezioni sollevate non sono frutto di pessimismo, ma corrispondono a reali difficoltà che occorre affrontare.

La frammentazione dei gruppi, che si richiamano al comunismo, cresce invece di diminuire, ed è il riflesso della situazione del proletariato, precarizzato, esternalizzato, compresso anche dal punto di vista salariale. Le difficoltà organizzative, l’incapacità di agire assieme si accrescono nei periodi di stasi, e non esiste una ricetta per trasformare una situazione stagnante in una dinamica. Difficoltà che credevamo proprie soltanto di un movimento operaio al suo albore, ciò che nel “Che fare” viene chiamato primitivismo, si sono riprodotte centuplicate in un lungo periodo di stasi, aggravate da contrasti dottrinali che sono tanto più esagerati quanto più le possibilità d’azione reale sono scarse. Qualcosa, però, lascia sperare che sia vicina l’uscita dal tunnel: vi sono segnali positivi che giungono dalla Francia, e, quando il gallo francese comincia a cantare, di solito altri paesi rispondono.

Anche se non c’è un meccanico parallelismo tra movimento di lotta e situazione politica e partitica, la prima fase verso una ricomposizione della classe passa necessariamente attraverso la lotta per una rivendicazione centrale, che condiziona tutte le altre, e che può unificare le spinte locali in un contesto nazionale, e perciò politico.

Al tempo della Prima Internazionale, per Marx, questa rivendicazione, la condizione preliminare senza la quale ogni tentativo di miglioramento o di emancipazione del proletariato sarebbe stato sconfitto, era la riduzione dell’orario di lavoro. Operai incatenati in fabbrica con orari impossibili non potevano trovare il tempo per condurre la lotta politica. Da qui la centralità della lotta per una legge che fissasse un orario massimo di otto ore.

Oggi in Italia, ciò che rende particolarmente deboli i lavoratori, soprattutto le fasce più giovani, è la precarietà del rapporto di lavoro; ne deriva che la rivendicazione unificante, alla quale dedicare buona parte degli sforzi, potrebbe essere la richiesta di una legge che ristabilisca la centralità del contratto a tempo indeterminato. E’ la più urgente, senza la quale è difficile che si possano conseguire altri risultati importanti. Occorre tener conto, inoltre, che l’intero diritto del lavoro, con le conquiste degli anni sessanta e settanta, è stato sconvolto negli ultimi decenni, e che quindi occorre un’enorme pressione di classe sui governi – nelle piazze e non nei corridoi di Montecitorio o Palazzo Madama - per ottenere leggi più favorevoli a lavoratori.

Non è riformismo: Marx ha chiarito una volta per tutte che queste leggi, attuate tramite il potere dello stato, non rafforzano il potere governativo, ma permettono alla classe operaia di ottenere con una misura generale ciò che invano tenterebbe di ottenere con innumerevoli sforzi locali.

Si possono ottenere risultati anche se non esiste il partito di classe, come dimostra il recente esempio della Francia, dove Chirac e Villepin sono stati costretti a fare marcia indietro riguardo al contratto di primo impiego. Per condurre simili lotte non è indispensabile un’unificazione di tutti i gruppi politici: basta che le diverse forze, pur mantenendo organizzazioni separate, concorrano allo stesso scopo; “marciare separati per colpire uniti”, come si suole dire. Si possono utilizzare organismi di base, finalizzati a precise e limitate rivendicazioni, ai quali non si aderisce come militanti di gruppi, ma come singoli, e aperti a chi ne condivide i fini, indipendentemente dalle specificità politiche singolari. Se centinaia di persone si attivano per impedire la collocazione di una discarica sotto casa, perché non può svilupparsi una spinta comune a livello nazionale per combattere la precarietà? Se certe organizzazioni rifiutano di accettare condizioni minime e provvisorie di lavoro comune, se la loro ricchezza dottrinale, invece che da stimolo, funge in modo innaturale da ostacolo alle lotte, vorrà dire che si taglieranno fuori da sole.

Se un gruppo costituisce realmente un’avanguardia, e non soltanto un centro studi del marxismo (organismo di per sé niente affatto disprezzabile, ma non adatto a guidare le masse), lo si può vedere soltanto nel corso della sua attività reale.

Ovvio il rilievo che la presenza di un autentico partito di classe favorirebbe al massimo l’efficacia e la continuità delle lotte, ma il discorso della sua formazione è molto più difficile. D’altra parte, importanti risultati ottenuti a livello rivendicativo potrebbero creare condizioni più favorevoli alla rinascita di tale partito, ma niente più, perché un simile risultato politico non è un portato immediato della ripresa delle lotte.

Nei paesi dove c’era una tradizione comunista, ci sono ancora numerosi gruppi, ma resta il problema del settarismo. Marx, in una lettera a Schweitzer, capo dell’organizzazione lassalliana, ad un tempo settaria e opportunista, caratterizzava così la setta:
1) Vuole costruire un “suo proprio movimento operaio”.
2) Cerca la propria ragion d’esser non in ciò che ha in comune col movimento di classe, ma nel segno di riconoscimento speciale che la distingue da tale movimento.
3) Cerca la base della propria agitazione, non dagli elementi concreti del movimento delle classi, ma vuole prescrivere a tale movimento il suo corso in base a una certa ricetta dottrinale.

E’ difficile trovare oggi un gruppo che pretenda di costruire un proprio movimento operaio, se non altro per problemi di numero, ma la seconda e la terza caratteristica sono abbastanza diffuse. Soprattutto, c’è un sopravvalutazione della propria importanza: gruppi esigui, che costituiscono in realtà redazioni di periodici, alcuni dei quali ad alto livello, si presentano assurdamente come partiti, e, quel che è peggio, non sempre intendono tale autodefinizione come un’indicazione di una prospettiva futura, ma come una realtà già esistente.
Un partito di classe non può sorgere sulla base della buona volontà di varie compagini che vogliono unificarsi, non può sorgere da un cocktail di diversi gruppi, con sapienti dosature. La fusione può compiersi solo se una corrente individua la giusta linea politica, e l’efficacia dei risultati trascina gli altri all’adesione. Il partito non può nascere da una decisione di un piccolo gruppo, deve essere coinvolta almeno una parte non indifferente della classe. I lavoratori, quando si rendono conto che il partito in cui hanno riposto le proprie speranze non corrisponde alle loro esigenze, quando il “riflesso di unità” si attenua, premono sui dirigenti più combattivi per crearne uno nuovo, o per profonde trasformazioni di quello esistente. Qui assume estrema importanza la presenza dei marxisti. Essi sono necessariamente una minoranza, ma possono avere una funzione determinante. E’ nota la tendenza dei lavoratori, lasciati a se stessi, a fondare partiti tradunionisti. Dove ci sono marxisti - non importa se sono di estrazione operaia o intellettuale – l’evoluzione può essere completamente diversa, se la situazione storica è particolarmente favorevole. Il partito di Livorno fu un modello di combattività classista, sull’onda dell’ottobre rosso, e le condizioni sociali permisero lo sviluppo di un fortissimo istinto di classe, anche se la conoscenza reale del marxismo era diffusa quasi soltanto nel gruppo dirigente. La coscienza politica è un fatto collettivo, non si può pretendere che ogni singolo militante abbia una chiara comprensione di tutti i problemi fondamentali; si deve esigere che sia combattivo e fedele alla classe.

Nel secondo dopoguerra, spinte della base portarono alla formazione di PSIUP e di Rifondazione, ma, nel primo caso, la subordinazione di fatto della maggioranza del gruppo dirigente alla politica poststaliniana dell’URSS ridusse al minimo le possibilità di una lotta efficace, e per il PRC un misto di influenza piccolo borghese, di debolezza organizzativa, di richiami nostalgici e di cretinismo parlamentare, ha portato all’attuale triste situazione.
Non sappiamo quando si formerà un nuovo partito dove i marxisti potranno lavorare con vantaggio, l’importante, oggi, è preparare i quadri per il futuro. La maggior parte dei militanti che conosce il marxismo, e, cosa importantissima, non ha dato forfait, ha già una certa età. La formazione dei giovani deve essere un problema da mettere sempre in primo piano. Trotsky aveva capito molto bene che conquistare i giovani al comunismo significava anche trascinare nella lotta l’intera classe, perché i giovani ne sono per natura il settore più combattivo.

19 aprile 2006

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