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(28 Luglio 2010) Enzo Apicella
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La delocalizzazione nel Nord-Est

(28 Aprile 2006)

Il sistema capitalistico internazionale è attraversato da una crisi di sovrapproduzione che non risparmia neppure il cosiddetto “Nordest produttivo”.

Tutti i settori registrano cali significativi di fatturato ed ordini.

La crisi accelera il processo di formazione dei monopoli. I gruppi capitalistici più grandi tendono a diventare sempre più grandi (attraverso un fenomeno di concentrazione della produzione e dei capitali) e ad ampliare l’intervento nelle attività speculative e finanziarie, a discapito di quelle produttive.

Già da decenni si è affermata la tendenza alla cosiddetta “esportazione di capitali”, cioè la tendenza a spostare le attività produttive verso aree a maggior tasso di profitto.

Ma non tutte le imprese hanno la possibilità di attuare questa “esportazione di capitali” (che oggi viene chiamata comunemente “delocalizzazione”). Le piccole e medie imprese, ad esempio, hanno molte più difficoltà a delocalizzarsi e, di conseguenza, subiscono maggiormente gli effetti della crisi (ed è appunto la chiusura di molte piccole imprese che determina la tendenza al monopolismo nei veri settori di mercato).

Nella realtà vicentina la quota di piccole-medie imprese (PMI) è molto grande in relazione a quella delle grandi imprese. Non abbiamo grandi fabbriche (poche superano i 200 addetti); esiste, invece, una forte diffusione della piccola-media industria e dei piccoli laboratori artigianali.

Il “modello Nordest” è giunto ormai ad un punto critico; sono infatti andate esaurendosi le condizioni che ne avevano permesso la crescita negli ultimi decenni alimentata principalmente da:

1) prezzi competitivi dovuti alla svalutazione della moneta e, soprattutto, alla compressione dei costi di produzione realizzata grazie all'elevato grado di sfruttamento della manodopera, ai più bassi salari d'Europa, a buste paga truccate, a orari estesi a dismisura, a diritti negati, a soprusi e costrizioni, a infortuni a ripetizione. Questo era - ed è ancora - il prezzo da pagare per chi lavora nel “ricco Nordest”, il cui tessuto produttivo è costituito per la maggiore da imprese sotto le 15 unità, cui non si applica lo Statuto dei Lavoratori.

2) dagli aiuti statali alle imprese, tramite i sistematici sussidi a fondo perduto ed una minore pressione fiscale.

3) dalle esportazioni di merci (lavorazione di mobili, oro, concia, metalmeccanica, elettromeccanica, macchine utensili) così ripartita: per il 36,9% verso l'UE, per il 15,6% verso l'Europa centro orientale, per il 14,4% verso gli USA e per il 16% verso l'Asia.

Con l'avvento dell'euro le imprese italiane non possono più utilizzare il meccanismo della svalutazione della moneta per mantenere la loro competitività a livello internazionale. Di conseguenza oggi le industrie vicentine soffrono la concorrenza proveniente anche da paesi come Francia e Germania e vedono aumentare la difficoltà ad esportare in quei paesi.

Nello stesso tempo è enormemente cresciuta la concorrenza di Cina e India.

Vicenza ha visto scendere le proprie esportazioni di quasi un quarto rispetto al 2004 (-23,1%) e soprattutto quelle verso l'UE (-36,5%).

Come detto, le PMI sono spesso troppo piccole per affrontare i costi e i problemi di delocalizzazione; di conseguenza, sono più esposte al fallimento nelle situazioni di crisi più profonda. Questa debolezza le costringe a sviluppare la propria struttura e dimensione, per poter reggere il confronto con i maggiori gruppi italiani ed esteri attraverso i cosiddetti “distretti industriali”. Questi sono dei “contesti produttivi omogenei”, caratterizzati da un'elevata concentrazione di imprese - prevalentemente di piccole e medie dimensioni - e da una elevata specializzazione produttiva.

Questi distretti vengono poi delocalizzati in zone dove le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e di sostegno statale a tutti i livelli (fiscalità, sicurezza, ambiente…) sono migliori.

Le Associazioni Industriali delle province venete hanno dato il via a diverse forme consortili con lo scopo di accompagnare le aziende nei mercati esteri (Vicenza-export, Uniexport, Invexport, Treviso Global). Queste associazioni (a delinquere) sbrigano pratiche legali, amministrative e finanziarie, assistendo le industrie anche con uffici distaccati.

Il “progetto Samorin” (città slovacca) è stato il primo caso vicentino di delocalizzazione.

Adamo Della Fontana, delegato per gli affari internazionali dell'Associazione Industriali di Vicenza dice: “Samorin è stata scelta per svariati motivi. Per le agevolazioni finanziarie, che vanno ad aggiungersi a quelle italiane ed europee per la Slovacchia, il cui governo può coprire, con contributi a fondo perduto, fino al 65% degli oneri per l'urbanizzazione di aree dedicate; per la disponibilità di aree a costi contenuti e l'enorme disponibilità di capannoni liberi da acquistare o prendere in affitto. A Samorin esiste una tradizione elettro-meccanica che offre manodopera preparata, ad un costo medio di ben cinque volte inferiore a quello italiano. Anche il costo dell'energia è molto contenuto (0,05 euro per KW/h). Si deve tener presente che la Slovacchia usufruirà dei vantaggi commerciali derivanti dal suo ingresso nell'UE. Molte aziende vanno all'estero, è ormai chiaro che non possiamo rimanere competitivi senza fare questa scelta”.

Mentre Fiorenzo Sbabo, presidente di Apindustria Vicenza, dichiara: “Sono ormai 2038 le aziende partecipate da capitale veneto presenti in Romania e rappresentano il 16,5% della presenza italiana in quel paese (12.351 aziende)”.

Dalla prima indagine sulla presenza imprenditoriale veneta in Romania - realizzata dal Centro Estero Veneto - emerge che gli investimenti veneti si realizzano sotto forma di piccole e medie imprese ripartite come segue: 15,8% distribuzione all'ingrosso; 11,5% servizi; 10,5% abbigliamento/tessile; 9,6% legno/arredo; 9% agricoltura; 7% calzaturiero/lavorazione pelli.

Padova con 454 ditte è la provincia veneta con maggior presenza in Romania, seguita da Treviso con 434, Vicenza con 417, Verona con 388, Venezia con 225, Rovigo con 94 e Belluno con 26.

Il padronato vicentino si sta orientando verso tre specifici mercati: quello russo, quello cinese e quello indiano. Questi mercati offrono grandi opportunità alle PMI vicentine in tutti i settori. Prossimamente verrà riprodotto il modello berico duplicando alcune filiere dell'economia vicentina in Cina (a Pechino oppure a Shangai).

Questo gigantesco processo di trasferimento fa si che nel Vicentino 2.000 persone abbiano perso il lavoro nel 2004 (2.842 l'anno scorso). Gli operatori del settore prevedono per il 2005 un'ulteriore diminuzione occupazionale dell'1,1% (2.822 licenziamenti).

Questi dati dimostrano l'inconsistenza delle tesi sostenute dai vari sociologi, giuristi del lavoro, economisti ed esperti di relazioni industriali che esaltano la “micro imprenditorialità”.

In realtà, le piccole e medie imprese sono fonte di massimo sfruttamento nei periodi di “vacche grasse” e di immediata perdita del posto di lavoro in tempi di “vacche magre”.

Alcuni affermano che l'industria appartiene ormai al passato delle società ex “industrialmente avanzate” e che il nostro futuro è rappresentato dai servizi - laddove la produzione viene ritenuta possibile solo in paesi poveri o in (perenne) “via di sviluppo” -.

Ma se analizziamo il tessuto produttivo vicentino vediamo l'infondatezza di questa tesi.

In termini di aziende il peso maggiore è quello delle attività commerciali (23,9%); segue la manifattura (20,8%) e l'agricoltura (14,5%). Altri settori percentualmente consistenti sono le costruzioni (12,1%) ed i servizi alle imprese (10,8%).

In termini di addetti i pesi variano considerevolmente: è infatti l’industria manifatturiera ad assorbire oltre la metà degli occupati 52,9% (135.694 unità), le costruzioni il 7,6% (19.495 unità), i servizi alle imprese il 6,2% (15.904 unità).

Il totale dei lavoratori è di 256.511 unità.

Insomma, aldilà del peso in termini di fatturato (comunque inferiore) i servizi non sarebbero mai in grado di assorbire la forza lavoro espulsa dal ciclo produttivo. Se davvero andiamo verso una società di servizi allora vuol dire che andiamo verso una società con un elevatissimo tasso di disoccupazione e di lavoro precario e a tempo parziale.

Claudio

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