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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Bello e possibile

Riflessioni su comunismo e utopia (Controvento n.11)

(5 Maggio 2006)

…non si sogna solo di notte.
Purtroppo o per fortuna, dipende, si sogna anche di giorno
Ernst Bloch, Addio all’utopia


Il comunismo è davvero - come sostengono spesso i suoi critici - una “utopia” strutturalmente incompatibile con la “vera natura umana” ? E a proposito: esiste una “vera natura umana” e da cosa essa è - eventualmente - caratterizzata ? Per rispondere a queste domande probabilmente non basterebbero migliaia di pagine; tuttavia, qualche piccolo elemento di riflessione è possibile introdurlo anche in poche righe.

Al comunismo è toccata spesso la sorte di essere considerato “bello e impossibile”, un’utopia irrealizzabile perché contraddittoria con la “vera natura dell’uomo” - “lupo”, egoista, individualista -; un’utopia, inoltre, che quando viene proposta come progetto concreto finisce inevitabilmente per divenire “totalitaria” proprio perché pretende di violare le regole della “natura umana”. Insomma, la gamma della critica anti-comunista si svolge entro due poli: quello della irrealizzabilità del progetto utopico-ideale e quello della realizzabilità solo della versione totalitaria di tale progetto. Non si sfugge: il comunismo sarebbe bello, ma non si può fare, oppure si può fare, ma non è bello. Da lì a dire che i comunisti sono - quando va bene - degli ingenui sognatori o - più frequentemente - dei potenziali criminali (rigorosamente “stalinisti”) il passo è breve.

Cominciamo, dunque, dall’utopia.
Etimologicamente, utopia sta per “in nessun luogo”(1). Nell’accezione comune si dice “utopico” di qualcosa di magari auspicabile, ma certamente irrealizzabile; insomma, una definizione che si attaglia perfettamente alla percezione che del comunismo intendono dare i suoi critici e denigratori.
Eppure, chiunque comprende che non necessariamente ciò che non esiste non può esistere; allo stesso modo, non necessariamente ciò che non esiste non è mai esistito.

Anche quello di “utopico”, come tanti altri, è un concetto storicamente determinato.
Basti ricordare, infatti, che siccome generalmente per utopico si intende “non realizzabile”, si rischia il paradosso di considerare come “utopiche” (quindi non realizzabili) anche cose che invece non solo possono benissimo essere realizzate, ma che addirittura sono già state realizzate.
Probabilmente se oggi noi pretendessimo che tutti i contratti di lavoro fossero a tempo indeterminato ci sentiremmo rispondere che si tratta di una richiesta “non realizzabile” (in questo senso, dunque, utopica), non compatibile con le leggi dell’economia moderna. Eppure, in un passato neppure tanto distante, tutti i contratti di lavoro erano a tempo indeterminato.
Dunque, ciò che era possibile (anzi reale) in una certa società, in una certa epoca, è divenuto “utopico” nella stessa società, in un’epoca diversa.
Quella che viene definita come utopica è dunque la pretesa di immaginare ciò che non è compatibile con l’esistente. E in un esistente dominato dalle leggi dell’auto-riproduzione dei rapporti capitalistici di produzione (2) è ovvio che non vi sia alcuno spazio per pensare una società dove le relazioni sociali non siano basate sul profitto. Ci mancherebbe altro.

Non soddisfatti di aver decretato l’incompatibilità del comunismo con il presente gli apologeti del capitalismo ne decretano l’incompatibilità anche con il futuro. E’ il tema della “fine della storia”. Ma la storia è veramente “finita” ?
Beh, intanto se la fine della storia fosse quella vagheggiata da personaggi come Francis Fukuyama (3) ci sarebbe davvero di che preoccuparsi dal momento che Fukuyama fa parte di quella schiera eletta di “intellettuali” organici ad alcuni dei più potenti “think thank” nord-americani (4) fautori della guerra infinita e preventiva.

Il fatto è che in ogni epoca la classe dominante ha tentato di descrivere il sistema politico-sociale vigente come talvolta migliorabile, ma in ogni caso ultimo, insuperabile. A questa affermazione ideologica i comunisti hanno spesso risposto con una affermazione specularmente ideologica: il comunismo è il destino ineluttabile dell’umanità perché “gli uomini tendono naturalmente verso il bene” e il bene è il superamento reale della disuguaglianza.
E per sostenere l’idea - un po’ hegeliana - di un percorso lineare e progressivo di sviluppo dell’umanità (5) verso il Bene si suggerisce l’esistenza in Origine di un’embrionale “uguaglianza primitiva” successivamente superata dalla disuguaglianza della divisione in classi - dovuta allo sviluppo delle forze produttive - che sarà anch’essa, prima o poi, superata da un forma superiore di uguaglianza, dalla società senza classi, dal comunismo appunto.

Alla domanda “il comunismo è mai esistito nella storia dell’umanità ?” possiamo rispondere che, se per comunismo intendiamo una forma “più o meno sviluppata” di proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di uguaglianza giuridica tra i membri della comunità (6) allora, forse, qualche embrione di “comunismo” è effettivamente esistito, o comunque è stato pensato.
Ma bisogna intendersi sulla definizione “più o meno sviluppata”.

Ad esempio, quello che spesso è stato chiamato il “comunismo” platonico (7) assomigliava più che altro ad una sorta di ascetismo comunitario-egualitario di élite che ammetteva tranquillamente l’esistenza degli schiavi (che anzi rappresentavano la condizione per la “liberazione dal lavoro” necessaria alla pratica della riflessione filosofica) e la subalternità dei cittadini a questa élite, subalternità garantita dalla classe dei guerrieri, tutori dell’ordine generale della società. Questo genere di “comunismo élitario” può andare benissimo anche ai più convinti anti-comunisti che dell’elitarismo e della mancanza di uguaglianza in senso universale (da riservare semmai solo all’élite, ai pari, ai “migliori”) fanno la propria bandiera.

Anche l’uguaglianza comunitaria degli uomini primitivi non era un comunismo come lo intendiamo noi perché la messa in condivisione dei beni e dei mezzi di produzione non derivava dalla scelta del rapporto sociale comunista, ma dalle necessità di sopravvivenza di individui che ad un certo punto iniziarono a cooperare proprio per affrontare meglio questo compito immediato. E dopo la cooperazione, la ricerca di migliori territori in cui vivere, lo scontro con altre comunità, la guerra, la sottomissione e schiavizzazione degli sconfitti, la creazione di classi. E nello stesso tempo la maggiore specializzazione nelle attività legate alla riproduzione della vita materiale, la divisione del lavoro e - di nuovo - le classi.

Lo stesso livellamento “egualitario” ultra-capitalistico, che annulla progressivamente ogni individualità in nome di una generalizzazione del modello di uomo-consumatore standardizzato, non è certo un tipo di “uguaglianza” da auspicare perché interpreta la tendenza alla sussunzione reale del lavoro al capitale, la progressiva subordinazione dei lavoratori alle leggi del modo di produzione capitalistico: produci, consuma, crepa.

Se il comunismo che vagheggiamo rappresentasse il ritorno ad una Unità Originaria successivamente scissa in classi dalla storia o la mèta pre-destinata dell’umanità ci sentiremmo ovviamente confortati; non avremmo magari “Dio dalla nostra parte”, ma insomma… avremmo la storia e il destino del genere umano.
Invece, come al solito, le cose sono un po’ più complesse.
Il comunismo che auspichiamo non è il ritorno ad una sorta di “comunismo primitivo dell’Origine” e non siamo neppure del tutto certi che il genere umano arriverà necessariamente ad organizzare il proprio futuro basandosi su forme comuniste di relazione sociale (8): alcune certezze sono fatte più che altro per lo spirito.

Forse sappiamo - o soltanto, pensiamo - che l’essenza dell’uomo sia intrinsecamente sociale (9) e storica e che, di conseguenza, l’uomo possa esprimere il massimo delle proprie potenzialità solo in una società capace di dispiegare pienamente la dimensione sociale delle relazioni umane, una società in cui si realizzi il “pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura” (10); dunque, in una società comunista (11).

Ma pensiamo anche che il “regno della libertà” non nascerà spontaneamente e deterministicamente dallo sviluppo delle forze produttive; pensiamo che esista una discreta differenza tra una rivolta e una rivoluzione e tra una rivoluzione e la costruzione di una società comunista; pensiamo che il comunismo, se se non lo si vuole, da sé non verrà.
Se non temessimo di essere fraintesi diremmo che il progetto del comunismo non è mai “portato dalla classe”, ma casomai “portato alla classe” e che l’espressione concreta di tale progetto è sempre una soggettività politica organizzata (12) che opera per determinarne le condizioni, appunto, soggettive.

Alle origini del movimento comunista moderno Marx ed Engels ebbero ad usare con generosità il termine “utopico” con riferimento critico ad alcune tra le prevalenti correnti socialiste dell’epoca. Gli esponenti di tali correnti (Saint Simon, Fourier, Owen) furono definiti “socialisti utopisti” ed Engels pubblicò addirittura un intero opuscolo ricavato da tre capitoli del suo Anti-During (13) per criticarne le posizioni e per riconoscerne, ove giusto, i meriti.
Nel pensiero originario di Marx ed Engels, “utopico” era sinonimo di idealistico, di fondato su basi volontaristiche e moralistiche, mentre “scientifico” era sinonimo di oggettivo, di fondato su leggi storiche e sociali che potessero essere studiate e identificate con criteri analoghi (ma non identici) a quelli delle scienze naturali (14).
Ortodossia vorrebbe, dunque, che una posizione che si definisce come marxista dovesse rifiutare in blocco ogni caratterizzazione in senso “utopico” del progetto del comunismo.
Se però, per utopico, intendiamo capace di prefigurare ciò che, pur non esistendo “in nessun luogo” del reale, esiste in un luogo del non ancora reale, in un luogo del futuro pensato come proiezione della dinamica del presente, allora i comunisti non possono rinunciare alla carica evocativa del discorso utopico perché, diversamente, finirebbero nella trappola hegeliana del considerare solo il reale come razionale e, per conseguenza, nell’accettare il presente (reale) come giusto (razionale) rinunciando alla critica di questo presente.

“In una situazione, quindi, in cui la logica del Potere (nei suoi molteplici aspetti) tende a dissolvere la forza critica delle pratiche politiche trasformandole in forme del consenso, il progetto utopico sembra divenire l’unica forma autentica di pratica critica e quindi di dissenso.
L’utopia - questa specie di “ultima spiaggia” del pensiero critico - si caratterizza pertanto, in tale prospettiva, non tanto, idealisticamente, come il regno del “chimerico”, dell’“irrealizzabile”, di ciò che è “al di fuori della realtà” quanto piuttosto come l’ambito in cui prendono forma i progetti di critica e di trasformazione della realtà attraverso un processo di emergenza delle possibilità rimosse dalla logica del potere-dominio. Utopia quindi come critica, come progetto, come metodo di illuminazione di ciò che il realismo del Potere cerca di occultare, come demistificazione dell’“impossibilità” che è solo impossibilità decretata dal dominio che paventa il mutamento come esiziale alla propria conservazione-naturalità.
Utopia come critica, ma anche critica dell’utopia quando questa si presenta come costruzione iper-programmata, come luogo di risoluzione definitiva dei conflitti, come ambito di eclissi adialettica delle alienazioni e delle contraddizioni”
(15).

Grande è la confusione sopra e sotto il cielo.
Osare l'impossibile … osare … osare perdere
CCCP - Fedeli alla linea, Manifesto


Da sempre, nel dibattito tra marxisti e sul marxismo, si confrontano due posizioni speculari: una prima posizione che fa della difesa falsamente ortodossa della “lettera” del marxismo il baluardo contro le varie derive “oltremarxiste” e “postmarxiste”; una seconda posizione che in nome della condivisibile necessità dello sviluppo teoretico del contributo originario del marxismo finisce per poi approdare all’eclettismo e - il passo è breve - al superamento integrale del marxismo stesso.
Raccogliere l’esigenza di sviluppo e integrazione - laddove necessario, persino di modifica - del patrimonio teorico e pratico che noi definiamo “marxista” (e che non si esaurisce nella sola elaborazione di Marx ed Engels, ma che può essere a pieno titolo integrato con altri fondamentali contributi) è indispensabile.
Il marxismo non è dogma; è, anzi, nemico del dogma. Del resto

“… la vera importanza e il carattere rivoluzionario della filosofia hegeliana […] consistevano appunto nel fatto che essa poneva termine una volta per sempre al carattere definitivo di tutti i risultati del pensiero e dell’atti vità umani. La verità che la filosofia doveva conoscere era per Hegel non più una raccolta di proposizioni dogmatiche bell’e fatte, che, una volta trovate, non vi è più che da mandare a memoria; la verità risiedeva ormai nel processo della conoscenza stessa, nella lunga evoluzione storica della scienza, che si eleva dai gradi inferiori della conoscenza a gradi sempre più alti, senza però giun gere mai, attraverso la scoperta di una cosiddetta verità assoluta, al punto in cui non può più avanzare e non le rimane da fare altro che starsene colle mani in grembo e contemplare la verità assoluta raggiunta. E ciò tanto nel campo della filosofia come nel campo di ogni altra conoscenza e in quello dell’attività pratica. Allo stesso modo della conoscenza, la storia non può trovare una conclusione definitiva in uno stato ideale perfetto del genere umano […].
Come la borghesia, mediante la grande industria, la concorrenza e il mercato mondiale, dissolve praticamente tutte le vecchie, stabili e venerabili istituzioni, così questa filosofia dialettica dissolve tutte le nozioni di verità assoluta, definitiva, e di corrispondenti condizioni umane assolute. Per questa filoso fia non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire, dell’ascensione senza fine dal più basso al più alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante. Essa ha però anche un lato conservatore: essa giustifica determinate tappe della conoscenza e della società per il loro tempo e per le loro circostanze, ma non va più in là. Il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è as soluto: il solo assoluto ch’essa ammetta
(16).

Da qui a gettare il bambino con l’acqua sporca (e pure la catinella) ce ne corre.
Dunque, come impostare il problema ?

Se adottiamo il principio (che la “fine della storia” vorrebbe suggerire) secondo cui una cosa non può funzionare perché non ha funzionato facciamo un torto alla storia. Se diciamo che il marxismo è fallito perché al momento sembra “fallita” la sua ipotesi rivoluzionaria - che non significa solo capacità del proletariato di fare rivolte e persino rivoluzioni, ma soprattutto di pensare e costruire un nuovo modo di produzione -, tiriamo una conclusione teorica che non ha nessuna ragione di essere tirata.
Il modo di produzione capitalistico ha impiegato secoli per affermarsi stabilmente; diciamo - per prendere due riferimenti simbolici - dal Duecento (17) fino alla Rivoluzione Francese. Tra questi due estremi si colloca una lunga e contraddittoria fase attraversata da Riforme e controriforme, da sviluppo mercantile e rifeudalizzazione, da rivolte, insurrezioni, Sante Inquisizioni...
Il capitalismo originario non si è sviluppato immediatamente e linearmente nel capitalismo moderno almeno per due motivi: primo, per l’immaturità di quel modo di produzione; secondo, perché la storia non si muove quasi mai per percorsi lineari, ma per strappi, crisi, rotture.
L’esperienza storica stessa ci consiglia, quindi, di usare molta prudenza prima di trarre conclusioni affrettate.
Dalla Comune di Parigi, che viene considerata generalmente come l’avvio del processo rivoluzionario che ha caratterizzato il ‘900, sono trascorsi 130 anni. Se poi si prende a riferimento, come forse sarebbe meglio fare per la sua maggiore valenza storica e politica, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, sono passati meno di 90 anni. Non è poco, ma processi storici di questa portata non possono essere misurati con il metro di poche generazioni.

Il contraddittorio processo di costruzione del socialismo del ‘900 si è rovesciato in un pieno ritorno al capitalismo; certo, anche per errori e tradimenti, ma soprattutto perché il nuovo modo di produzione non era maturo per affermarsi compiutamente (e questo si è rivelato particolarmente vero per il tipo di società in cui si sono verificate le rivoluzioni socialiste) e forse non lo era neppure la soggettività di classe che di questo processo è stata l’anima (18).

Il fatto che Marx possa, in diverse occasioni, aver affermato questa maturità significa solo che nell’uomo-Marx - come è naturale che sia - convivevano lo scienziato e il rivoluzionario, cioè l’analisi oggettiva e l’auspicio soggettivo. Ciò che distingue un intellettuale rivoluzionario da un freddo “analista della realtà” è proprio la diversa carica psicologica con cui l’uno e l’altro affrontano l’oggetto del proprio studio. Il rivoluzionario non può mai essere distaccato e può incorrere in previsioni errate, da correggere. Il rivoluzionario non può analizzare il movimento delle classi come se fossero a lui egualmente estranee; il rivoluzionario è schierato con una classe, desidera, lotta; il rivoluzionario concorre a determinare un orientamento, non si limita a registrare - dopo - “come sono andate le cose”: non è un cronista, ma un protagonista della storia e non si mette sulla riva del fiume ad attendere il “cadavere della sconfitta” per poi dire “io l’avevo detto, non bisognava…”. Di questo, Marx ci offre un esempio memorabile con il suo approccio verso l’insurrezione parigina della Comune prima ritenuta precoce e “avventata”, poi sostenuta e infine esaltata con parole memorabili (19). Un rivoluzionario che si propone di modificare l’esistente (cioè di interagire con quella realtà che non è più, quindi, solo la cornice statica e immodificabile entro cui si svolge l’opera degli uomini come era per Feuerbach (20)) deve formulare ipotesi, scenari, progetti e saperli correggere sulla scorta di nuove evidenze storiche e pratico-teoriche. Non è proprio così che funziona la scienza, attraverso la sperimentazione e la correzione di precedenti ipotesi ? Chi pensa che scientifico significhi “infallibile” o “deterministico” non ha la minima idea di come funzionano i processi scientifici.

Il materialismo storico e la critica dell’economia politica rappresentano due scoperte di eccezionale portata storica e scientifica che ci consentono di analizzare in modo non arbitrario o ideologico la storia dell’uomo e il suo presente. Si poteva mettere a punto una teoria politica che definisse in modo infallibile il futuro ? Naturalmente no e ben lo sapeva Marx che si astenne sempre dal prescrivere “ricette per l’osteria dell’avvenire” e lasciò sempre un margine di errore possibile rispetto alle previsioni di medio termine. Di questo è testimone il fatto che Marx ed Engels seppero correggere le proprie errate previsioni ed anche le proprie categorie teoriche, ove necessario.

Anche per questo continuiamo a considerare pienamente scientifico il contributo teorico del marxismo e dopo averne ammesso la perfettibilità e averne rifiutato la canonizzazione esso costituisce per noi ancora il quadro teorico insuperabile entro cui può essere efficacemente criticato l’esistente e pensato il non ancora esistente, ovvero, l’“utopia concreta” del comunismo.

NOTE

(1) Dizionario etimologico on line: “Utopia = b.lat. UTOPIA composto di U = gr, OY. non e TOPOS luogo (v. Topino). Voce foggiata da Tommaso Moro, Gran Cancelliere d’Inghilterra |sec XVII|, che dette questo titolo ed una sua teoria di legislazione e di governo modello per un paese immaginario, che chiamò Utopia. Progetto promosso da buona intenzione, ma che non può aver luogo, che non si trova in alcun luogo, cioè, non attuabile”.

(2) Il capitale è innanzitutto un rapporto sociale. L’accumulazione di capitale è dunque al tempo stesso riproduzione del modo di produzione e del rapporto sociale che gli corrisponde.

(3) Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.

(4) Il Project for a New American Century. Vedi: Statement of principles, 3 giugno 1997.

(5) Criticata anche da Eric Hobsbawm nella sua Prefazione al testo di Marx Forme economiche precapitalistiche (Editori Riuniti, pag. 36, 1974) tratto dai Grundrisse.

(6) Come proposto già da alcuni “utopisti” del XVI, XVII e XVIII secolo, da Tommaso Moro a Tommaso Campanella, da Morelly a Mably, che avevano vagheggiato forme di società ideali o “comuniste”, con tanto di abolizione della proprietà privata e ripartizione del tempo di lavoro tra tutti i membri della comunità. Cfr F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Laboratorio politico, pag. 45 e nota 76.

(7) Ne La Repubblica Platone divideva la società in 3 classi (governanti, guerrieri, lavoratori); per la classe dei governanti prevedeva l’eliminazione della proprietà privata, la comunanza delle donne e dei figli, la parità tra uomo e donna.

(8) Anche perché, nell’era nucleare, l’uomo ha già creato la possibilità tecnica dell’estinzione della propria specie.

(9) Condividiamo, al riguardo, la VI Tesi su Feuerbach di Marx ove si dice: “…l’essere umano non è un’astrazione immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l’insieme dei rapporti sociali”.

(10) Karl Marx, Formen (Forme economiche precapitalistiche, Editori Riuniti, 1974, pag. 87.

(11) Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, “Religione, famiglia, Stato, diritto, morale, scienza, arte, ecc. sono soltanto particolari modi della produzione e cadono sotto la sua legge generale. L’effettiva soppressione della proprietà privata, come appropriazione della vita umana, è quindi l’effettiva soppressione di ogni alienazione, e con ciò, la conversione dell’uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo Stato ecc. alla sua esistenza umana, cioè sociale”. Cfr anche Gyorgy Lukacs, Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale e Ontologia dell’essere sociale.

(12) Che può essere composta da segmenti della classe, ma anche - come si è visto storicamente - da intellettuali rivoluzionari non immediatamente appartenenti alla classe, ma ad essa intimamente collegati.

(13) Fredrich Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza.

(14) Lukacs ritenne (discutibilmente) che questa similitudine - definita come positivistica - fosse ben riscontrabile in Engels e Lenin, ma non in Marx, che invece avrebbe avuto piuttosto influenze filosofiche hegeliane.

(15) AA.VV., Forme dell’utopia, Controeconomia. La Pietra, 1979, pag.7.

(16) Fredrich Engels, Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Autoproduzioni, 2004.

(17) Gioacchino Volpe, Medio evo italiano, XI, Il moderno capitalismo, pag. 251, Laterza: “Col XIII secolo si comincia visibilmente ad uscire dalla economia di tipo medioevale. Sono già in funzione forze economiche nuove che si frammischiano alle antiche”.

(18) Di questo Lenin ebbe chiara comprensione già all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre allorché difese la scelta della NEP come possibilità di sopravvivenza dello stato sovietico nel quadro dell’arretratezza dello sviluppo delle forze produttive in Urss e della mancata rivoluzione in Europa.

(19) Karl Marx, La guerra civile in Francia (Indirizzo del consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei lavoratori), Londra 30 maggio 1871: “Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti”.

(20) Karl Marx, Tesi su Feuerbach, II: “Perciò nell’Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l’importanza dell’attività ‘rivoluzionaria’, dell’attività pratico-critica”.

Controvento n.11

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