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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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La nostra posizione sull’imperialismo europeo

Contributo alla discussione sulla “Mozione di Napoli”

(28 Marzo 2006)

Dal 13 al 18 settembre dello scorso anno, com’è noto a molti dei nostri lettori, si tenne a Napoli la sesta edizione della “Adunata Sediziosa, festa dell'autorganizzazione sociale” – progettata dall'Area Antagonista Campana.
Nel corso dei dibattiti, si diede un particolare rilievo al tema dell' “integrazione europea”: discutendo il ruolo dell'Unione Europea nei processi di ristrutturazione e precarizzazione del mercato del lavoro (direttiva “Bolkestein”, direttiva sull'orario di lavoro, ecc.) e del “sistema formativo”; si affrontarono, inoltre, le tematiche sulle politiche europee di repressione delle lotte sociali, sulla persecuzione dei migranti, la politica estera, l'imperialismo europeo, ecc.
Da questo convegno uscì una mozione, “Contro l’Europa imperialista!”, più nota come “Mozione di Napoli”, che sintetizza le posizioni scaturite dal confronto. Recava le seguenti firme:
Area Antagonista Campana – Area Programmatica “Progetto Comunista” – Collettivo internazionalista di Napoli – Interfacoltà (Coordinamento Collettivi Universitari) – Corrispondenze Metropolitane (Roma) – Confederazione Cobas (Campania) – Red Link.
Nei giorni scorsi i compagni di “Alternativa di classe” e di “Pagine Marxiste” ci hanno inviato una copia di una loro “Critica alla Mozione di Napoli”. Non si tratta di una sterile polemica, ma di un corretto confronto tra compagni, che condividendo i presupposti fondamentali internazionalistici, divergono su alcuni punti.

Ci auguriamo che, su un tema così importante, si ravvivi la discussione. Restiamo, ovviamente, a disposizione per repliche da parte dei firmatari della “Mozione di Napoli”.

La nostra posizione sull’imperialismo europeo.

Non è nostra intenzione presentarci come arbitri rispetto ai due documenti pubblicati, tanto meno tentare una sintesi che pretenda di “superarli” dialetticamente entrambi. Questa è solo una rapida esposizione d’alcune nostre posizioni, che potranno essere approfondite in seguito, se il dibattito continuerà.

Il tema dell’unità d’Europa, con i suoi riflessi sul movimento proletario, era già oggetto di discussione tra i marxisti quasi cento anni fa. Tra le varie posizioni che si sono espresse, nel secolo scorso ci preme evidenziarne due.
La prima è quella di Lenin. Nel 1915, in piena guerra mondiale, scriveva:
“Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari”.

Per Lenin, gli Stati Uniti d’Europa equivalevano ad un accordo per spartirsi le colonie e per opporre un argine a stati assai più dinamici, come gli USA e il Giappone.

Anche in Europa, lo sviluppo economico seguiva ritmi assai diversificati:
“Dopo il 1871 la Germania si è rafforzata tre o quattro volte più rapidamente dell’Inghilterra e della Francia, e il Giappone dieci volte più rapidamente della Russia”. “In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico, né delle singole aziende, né dei singoli stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi nell’industria e della guerra nella politica”. (1)

Erano possibili accordi temporanei tra le borghesie europee, per schiacciare il socialismo e mantenere le colonie.

Sono ancora valide queste posizioni di Lenin? Le colonie, nella loro forma classica, non esistono più, se si eccettua qualche isola sotto il controllo francese o inglese, qualche enclave, ecc, ma sono ancora molti gli stati controllati, di fatto, dai briganti imperialisti. Quanto al carattere reazionario dell’Unione Europea, basterà rileggere qualche riga del progetto di Costituzione Europea o della Bolkestein, per rendersene conto.
Vogliamo, poi, riferirci ad uno scritto di Bordiga, apparso sulla rivista “Prometeo” nel 1950, intitolato “United States of Europa”. Dietro questo strano titolo anglo-italiano si colloca un’analisi profonda, che parte dalla rivoluzione francese per giungere fino agli anni quaranta del novecento. Possiamo riportarne solo alcuni aspetti. In piena concordanza con la più classica tradizione marxista, Bordiga sceglieva il centralismo contro il federalismo, e, nonostante la polemica contro lo stalinismo, non perdeva di vista il fatto che il maggior ostacolo per la rivoluzione mondiale era lo stato capitalista più potente, al tempo di Lenin l’Inghilterra, nel secondo dopoguerra (e oggi), gli Stati Uniti:

“Federazione Europea! Il principale difetto di questa formula è che essa sceglie a modello il regime dell’implacabile capitalismo di oltre Atlantico, beve fino alla feccia la leggenda imbecille che sia più umano e meno barbaro di quello europeo, attribuisce scioccamente tali illusori vantaggi alla forma federativa della costituzione”.

Riprendendo l’analisi di Engels e di Lenin, ricordava che le strutture federative costituiscono una forma di controllo più vicina ed occhiuta, rispetto ai comuni, di quanto non sia lo stato centralizzato, e che la formula federativa è un’armatura per soffocare le spinte ribelli locali.

“Il movimento federalista Europeo, coi suoi stupidi progetti interparlamentari, maschera della realtà di una organizzazione di guerra a comando extraeuropeo, non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee, e, al tempo stesso dell’interna dominazione sul proletariato americano...”. “L’armatura federale in Europa assicura nel modo migliore, col reclutamento degli eserciti mercenari del capitale, di polizie di classe, che non potranno esservi comuni rosse a Parigi, a Milano, a Bruxelles o a Monaco”. (2)

Lo stalinismo si occupava di schiacciare le autentiche rivolte proletarie nel resto d’Europa.

Se qualche termine usato da Bordiga può suonare arcaico, attualissime sono le argomentazioni. La collaborazione poliziesca tra i vari stati europei ha raggiunto livelli quasi impensabili pochi anni fa.

Chi ha confidenza con gli scritti di Marx, poi, avrà riconosciuto l’argomentazione secondo la quale, se un popolo ne domina altri, crea con le proprie mani le condizioni per l’asservimento al proprio governo. L’America di Bush, con le sue leggi che limitano la libertà, conferma questa analisi.
Se il federalismo europeo serviva agli Stati Uniti, in connessione col Patto Atlantico, per esercitare il controllo sull’Europa devastata dalla guerra, se ne poteva dedurre che, quando uno o più stati d’Europa avesse raggiunto un certo grado di potenza, le spinte centrifughe avrebbero ripreso forza.
Il ritorno al potere di De Gaulle, con la sua relativa autonomia rispetto agli Stati Uniti, rappresenterà una prima conferma di questa previsione.

Veniamo ai nostri giorni. In articoli degli scorsi anni abbiamo paragonato l’Unione Europea ad un cartello, ossia un accordo di monopolio; come un cartello l’UE stabilisce quanto acciaio produrre, fissa le quote del latte, protegge con sovvenzioni i prodotti agricoli europei dalla concorrenza mondiale. Come nei cartelli, nei momenti di crisi economica, le varie imprese tendono a rompere gli accordi e la concorrenza fra loro riprende, così i vari stati europei si ribellano alle regole che hanno sottoscritto: la Germania di Schroeder ha dato sovvenzioni statali ad industrie in crisi (l’impresa edilizia Holzmann, la Mobilcom), si è opposta alla legge europea sull’OPA (Offerta pubblica d’acquisto), proteggendo la Volkswagen contro la liberalizzazione del mercato dell’auto; la Francia ha dimostrato recentemente d’infischiarsene delle norme europee, e, in aperta sfida alla proclamata libertà di circolazione dei capitali, ha protetto le sue industrie strategiche, a cominciare dal settore energetico. L’Italia è assai più debole, e il tentativo di Fazio di privilegiare la proprietà italiana nel settore bancario è fallito.

Le divergenze sono chiarissime nel campo politico, e sono esplose al momento della guerra d’Iraq. I contrasti non impediscono di collaborare nella repressione, e lo si è visto a proposito dei prigionieri trasportati dalla CIA sugli aerei con la connivenza degli stati europei, Germania in testa. Più che di “compagni di merenda” si tratta di “compagni di forca”. Ma, come nella migliore tradizione dei pirati e dei gangster, sono pronti a rivolgere il coltello contro il complice.

Rispetto all’analisi di Lenin del 1915 bisogna notare che, mentre allora c’erano schieramenti bellici dalla forza comparabile, nessuno stato è oggi in grado di affrontare direttamente gli Stati Uniti. Allo stesso modo, però, che l’Europa ha perduto la primogenitura esaurendosi in due guerre mondiali, non è escluso che gli Stati Uniti finiscano per ridimensionare la loro egemonia sotto la spinta congiunta dell’immenso debito accumulato e del militarismo sfrenato della “guerra infinita”.

Ciò conferirebbe un peso crescente ai grandi stati asiatici e alla Russia, ma non sarebbe un fattore di rinvigorimento dell’Unione Europea, che si trasformerebbe, ad un tempo, in un campo di lotta senza freno tra le borghesie nazionali (non più costrette ad adeguarsi, con maggiore o minore fedeltà, alle indicazioni generali degli Stati Uniti), e in una gigantesca galera per i proletari. In altre parole, mentre crescono gli accordi di repressione, diminuisce l’intesa per una politica comune e per la collaborazione economica, con forme di neoprotezionismo, di cui si vedono chiari sintomi, per esempio in Francia.

Perché diversi stati possano accorparsi in una nuova unità più vasta, non bastano i crescenti legami economici e la volontà politica, occorre l’uso della forza. L’integrazione economica, ottenuta dalla Germania a causa della Zollverein ( Unione doganale) del 1834, non fu sufficiente, e la Prussia dovette cacciare con la guerra i cosiddetti “tutori della libertà tedesca”, l’impero austriaco e quello di Napoleone Terzo. Anche l’unità d’Italia fu ottenuta con la forza. Quale paese è in grado di cacciare dall’Europa il “tutore” USA? La Germania, il paese economicamente più importante, non ha una potenza militare che possa competere con quella americana. Per questo l’Europa politicamente unita resterà un sogno per i piccoli borghesi e un incubo per i lavoratori.
Lo sviluppo storico è stato persino più complesso di quanto pensasse Lenin. Per l’ironia della storia, l’unità d’Europa è oggi, ad un tempo, impossibile e reazionaria. Impossibile per i motivi già indicati, e perché il continuo variare dei rapporti di forza rende obsoleti i vari accordi; reazionaria per le illusioni sempre rinnovate che produce, e per la reale collaborazione forcaiola che cresce tra stati che, sotto la maschera della democrazia, si trasformano sempre più in organizzazioni poliziesche.

L’evoluzione futura che ci sembra di intravedere è la seguente: crescente peso di Francia, Germania e Inghilterra, che impongono le decisioni fondamentali; regole ce ne saranno in gran quantità, saranno coattive per i piccoli stati, ma facilmente aggirabili per le potenze. Ci sarà un ulteriore ridimensionamento dell’Italia, che tenderà, in certi casi, ad organizzare la fronda degli stati minori, o a barcamenarsi tra i maggiori stati, rimanendo sempre, vinca l’Unione o il Polo, fortemente condizionata dagli Stati Uniti. A proposito degli stati dell’ex Patto di Varsavia, non ci sentiamo di parlare di imperialismo, ma di capitalismo dipendente, con l’eccezione della Repubblica Ceca che ha uno sviluppo economico di tutto rispetto.

Per questo sarebbe più corretto usare il plurale, imperialismi europei, perché gli interessi tedeschi non vanno nella stessa direzione di quelli francesi, inglesi, italiani.

Per questo è giusto vedere nella UE una controparte che si aggiunge e non sostituisce gli stati nazionali, perché solo così si può evitare che i lavoratori considerino loro avversario principale un generico imperialismo europeo, trascurando il loro nemico naturale, l’imperialismo del proprio paese.
Quanto al rapporto con i popoli della periferia, non pensiamo che il proletariato dei paesi capitalistici dipendenti sia l’unico alleato del proletariato europeo. E’ vero che la situazione è estremamente diversa da quella degli anni venti, quando attorno all’Internazionale Comunista si raccoglievano movimenti nazional-rivoluzionari. Oggi, in paesi come la Palestina, in movimenti che dovrebbero lottare per l’indipendenza, abbiamo visto l’insorgere di rilevanti fenomeni di corruzione, e, come unica risposta, l’ascesa dell’integralismo religioso, ma non ne ricaviamo che la questione nazionale non si pone più. Se la borghesia si è rivelata incapace di risolverla, il compito della liberazione di questi popoli ricadrà sulle spalle del proletariato. Ciò non deve essere inteso nel senso di una menscevica rivoluzione per tappe (prima la liberazione del popolo oppresso con la formazione di una repubblica borghese, poi la lotta per il socialismo), ma nel senso che le rivendicazioni nazionali possono diventare il detonatore per ben più decisive affermazioni di classe. I bolscevichi seppero coniugare la rivendicazione della pace con quella della terra e dell’autodecisione dei popoli, anche se queste non erano rivendicazioni puramente proletarie.

Il proletariato dei paesi sviluppati non dovrà cercare alleanze con governi dei paesi dipendenti che, nella maggior parte dei casi, o perché comprati o per situazioni di intrinseca debolezza, sono poco più che agenzie locali dell’imperialismo, però non deve pensare che, a causa dello sviluppo capitalistico, la contesa interna a questi paesi si risolva unicamente in una lotta tra borghesia e proletariato. Spesso, abituati a considerare paesi come l’Europa o gli USA, nei quali la componente contadina è ridotta ad una piccola percentuale della popolazione, dimentichiamo che in molti altri paesi la questione agraria ha ancora un’influenza determinante. In molti territori, gran parte della popolazione è costituita da contadini poveri.

In molti stati ad una industrializzazione rapidissima è seguita una crisi devastante, per cui moltissimi operai sono stati costretti a tornare nei campi. Il permanere di un legame con l’agricoltura è una delle cause dei bassi salari, perché una parte dei prodotti alimentari di questi lavoratori non è acquistata tramite il mercato, ma costituisce il compenso in natura per il lavoro nei campi, che si sviluppa nei periodi di stasi industriale. E’ vero che questi rapporti arretrati si vanno disgregando, e ciò rende più disperata la condizione del disoccupato inurbato, ma non è un processo di breve durata, proseguirà per decenni. Una crescente parte dei prodotti agricoli viene sempre più sottratta all’autoconsumo e passa per il mercato, generando l’illusione, tanto sfruttata dagli apologeti del capitalismo, di un mirabolante incremento della produzione agricola. Questo inganno può esistere persino in casi di reale diminuzione della produzione dei campi, se ad una forte decrescita dell’autoconsumo, che sfugge alle statistiche, si accompagna una crescita non altrettanto forte della parte commercializzata. Per questi motivi, le statistiche possono creare l’illusione che lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura si trovi ad uno stadio più avanzato di quanto effettivamente sia.

La formazione del proletariato nei paesi di nuova industrializzazione, anche se è assai più rapida di quella verificatasi in Inghilterra, comporta il permanere di situazioni sociali spurie, con ceti piccolo borghesi e borghesi in decomposizione, una parte dei quali potrebbe seguire il proletariato, un’altra parte proporsi come massa di manovra per le avventure politiche della borghesia. Applicare meccanicamente a questi paesi i criteri validi per l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti odierni, vorrebbe dire rinunciare a comprendere il loro reale sviluppo.

C’è quindi la necessità di approfondire lo studio di queste situazioni di capitalismo arretrato, che vedono il crescente contrasto tra i braccianti (proletari puri) e i contadini poveri, da un lato, e i contadini benestanti che, utilizzando manodopera salariata, si apprestano ad entrare nella borghesia. Queste rapidissime differenziazioni di classe creeranno una situazione esplosiva, che avrà effetti immensi anche su quegli stati, come la Cina e l’India, che oggi in apparenza stanno superando brillantemente tutti gli ostacoli sulla via dello sviluppo.

Il proletariato potrà compiere la sua missione storica se, lungi dal chiudersi in se stesso, saprà aggregare intorno a sé tutte le masse sfruttate, denunciare ogni forma d’ingiustizia, come diceva Lenin, a qualsiasi classe appartengano le vittime. Chi attende la rivoluzione pura, proletaria al 100%, può aspettare per l’eternità. La purezza esiste in laboratorio, o nelle indispensabili astrazioni scientifiche che permisero a Marx di tracciare le linee fondamentali dello sviluppo capitalistico, non nella società.

Questi, naturalmente, sono soltanto appunti vergati in fretta, ma noi speriamo che il confronto instaurato tra i firmatari della mozione di Napoli e i loro critici sia di stimolo per un’ulteriore discussione su questo tema d’importanza capitale, confronto che sarà tanto più fecondo se procederà con la massima chiarezza, col massimo rispetto dell’interlocutore, ma anche evitando
unanimismi di facciata. Saremo ben contenti se i nostri lettori vorranno prendervi parte.

25 marzo 2006

Note:
1) Lenin, “Sulle parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, agosto 1915.
2) Bordiga, “United States of Europa”, “Prometeo”, gennaio-febbraio 1950.

La Redazione di 'Sotto le bandiere del marxismo'

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