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Riflessioni sulla seconda conferenza nazionale dei Giovani Comunisti

di Oscar Minniti (coord prov GC Reggio Calabria)

(14 Settembre 2002)

Un’altra occasione persa per sviluppare un dibattito serio, dialettico e capillare tra il nostro corpo militante sui temi posti al centro dell’attenzione dalla “svolta” di Livorno e Rimini.
Il lungo percorso che ci ha portato alla celebrazione della seconda Conferenza nazionale dei Giovani Comunisti/e non ha risposto alle aspettative della vigilia, e ancora una volta si è assistito ad una discussione “ingessata” da tentazioni unanimistiche (che -paradossalmente- nel nostro partito sono risorte dopo la felice idea di imperniare il passato Congresso, nel 2002 mica nel 1956, sulla critica dello stalinismo), scarsa partecipazione degli iscritti e incapacità di dare vita ad un bilancio sincero e non incensato dell’esperienza attuata in questi ultimi cinque anni dai GC.

Eppure, ci sarebbero stati i presupposti per dare vita ad una Conferenza di segno diverso.
Il fitto confronto sviluppatosi sin dalle giornate di Genova dello scorso anno, sul rapporto tra Rifondazione, i Giovani Comunisti/e e il movimento no-global, che ha attraversato tutta la stagione congressuale e ha finito per condizionarla.
La presenza di quattro documenti distinti, espressioni delle diverse sensibilità esistenti all’interno della nostra organizzazione giovanile come nel partito, i quali potevano rappresentare un ottimo antidoto contro nuove forme di “sommergibilismo”.
Lo stesso dibattito che si è aperto in seno al “Laboratorio dei disobbedienti”, dopo le inadeguate mobilitazioni contro la visita di Bush in Italia, il vertice di Pratica di Mare e quello Fao, e dopo la fuga in avanti “politicista” delle liste no-global alle amministrative, conclusasi con riscontri elettorali da prefisso telefonico, che ha prodotto anche una lettera aperta (1) che non lesina toni di autocritica e successivi strascichi polemici tra le varie anime del movimento, in particolare sul tema della non violenza e l’esigenza di trovare <>(2).
Gli sviluppi della politica nazionale, con l’inasprimento del conflitto di classe ed una CGIL che -non senza difficoltà, ma anche con risultati tangibili- cerca di lasciarsi alle spalle le pratiche concertative, e della politica internazionale, con i venti di guerra tra India e Pakistan (entrambi membri della “santa alleanza” contro il terrorismo), la sconfitta del golpe made in Usa in Venezuela, il perdurare della resistenza palestinese.

UNA GRANDE ASSENTE: LA SINTESI

Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per indurre i membri dell’Esecutivo uscente dei GC, i sottoscrittori del primo documento della Conferenza e i quadri locali dei GC che hanno dedicato anima e corpo alla pratica della “disobbedienza sociale”, a correggere il tiro e limare certe posizioni, superate dai fatti ai quali abbiamo dovuto assistere in questi mesi.
E’ ovvio, nessuno si aspettava una radicale e repentina inversione di rotta da parte di questi compagni, e neanche pubbliche ammende e appelli all’autoflagellazione.
Ma un minimo di capacità di sintesi tra l’ampio ventaglio di posizioni espresse nel gruppo dirigente dei GC, per non parlare dei diversi “umori” critici emersi nella base, al di là dei documenti di riferimento, questo ce lo si poteva aspettare.

A chiedere un passo indietro, non è stato solo il 36,08% (3) dei votanti alle Conferenze territoriali che si è riconosciuto nei tre documenti “di opposizione”, che, da collocazioni talvolta antitetiche e conflittuali, hanno fornito una rappresentanza a quei settori dell’organizzazione che non hanno digerito certe scelte maturate dall’Esecutivo.
Un malcontento che, invece di atrofizzarsi dopo l’entusiastica discesa in campo del movimento no-global, si è esteso, radicato e qualificato.

Una gestione di sintesi, la ricezione di alcune delle istanze provenienti dai documenti alternativi, le hanno richieste anche buona parte dei compagni che hanno voluto riconfermare, con votazioni spesso bulgare nonostante i mugugni, la fiducia ai reduci della disobbedienza.
Perfino nelle Conferenze territoriali più blindate, non sono mancate accuse dure e mirate contro i metodi non propriamente democratici e partecipativi che hanno contraddistinto quell’Esecutivo, la subalternità mediatica agli autoproclamati “portavoce del movimento”, i magri riscontri che hanno raccolto i GC dopo mesi di azioni eclatanti e spettacolari al seguito delle ex tute bianche, l’affrettata liquidazione di un grande patrimonio politico, ideale e organizzativo in nome del presunto “nuovo che avanza”.

E poi, come leggere la bassa affluenza degli iscritti alle Conferenze, dove i giovani operai e precari sono sembrati un bene raro e di lusso? Può bastare la scusante del solleone di quelle giornate di fine giugno per giustificare le troppe sedie vuote, le riunioni di grandi e storiche Federazioni del partito svoltesi al cospetto di neanche una dozzina di compagni, tutti o quasi studenti medi e universitari? Inoltre, può essere il clima vacanziero l’unico responsabile del basso livello di coinvolgimento dei militanti nei dibattiti sul merito dei documenti? Quei militanti che, specie nelle periferie dello Stivale, ammettono candidamente di essere poco aggiornati su ciò che avviene al “centro” e, in non pochi casi, al momento delle votazioni finiscono per accodarsi passivamente alle scelte già maturate dal segretario di circolo, dal coordinatore provinciale o dal compagno più in vista della zona… E’ possibile accomodarsi su tali “attenuanti” generiche, oppure, per analizzare questo insieme di dati allarmanti, cartina al tornasole dello stato di salute in cui versano i GC dopo la sbornia ultra-movimentista, sarebbe stato più opportuno tentare di addentarsi nel difficile terreno dell’organizzazione e della formazione quadri, vero e imperdonabile limite dei dirigenti che vengono dal ’97?

L’Esecutivo uscente dei GC, già prima di elaborare le sue tesi, ha avuto la possibilità di ristabilire un legame con la realtà.
Quel famoso “passo indietro” gli avrebbe permesso di riconquistare autorevolezza e ricompattare la maggioranza post-congressuale, producendo un effetto benefico anche nel partito “degli adulti”, lacerato e depauperato di energie dalla seconda fase congressuale.
Ma il gruppo dirigente ha preferito continuare sulla sua strada con l’andatura di uno schiacciasassi, utilizzando le critiche e le argomentazioni dei documenti alternativi, e in particolare del terzo documento, come pretesto per giustificare il proseguimento dell’esperienza del “Laboratorio dei disobbedienti”, divenendone -nei fatti- la componente più oltranzista e acritica verso la leadership di Casarini.
Sorda alle prese di distanza che pure in questi mesi sono venute, da Lilliput ai Cobas di Bernocchi, fino alla Rete no-global partenopea.
Una posizione, quella dell’élite dei GC, che si può riassumere nell’iper-entusiastico commento a caldo del nuovo coordinatore nazionale, Nicola Fratoianni, convinto che <La cosa più semplice che si possa dire è che, rispetto a Chianciano, oggi esiste un’altra organizzazione>>(4).

DISOBBEDIENZA, PRATICA VECCHIA O NUOVA?

Per racimolare argomenti a sostegno della “svolta”, alcuni dei compagni più noti dell’Esecutivo sono addirittura arrivati a scomodare i padri nobili del comunismo novecentesco, gli stessi che a Rimini sono stati censurati senza indugi, tagliando ad arte alcune loro dichiarazioni ed estrapolandole dal contesto storico in cui sono maturate.
Così, anche un comunista di vecchio stampo come Pietro Secchia, fautore nel PCI degli anni ’40 e ’50 della supremazia dell’organizzazione, diviene nell’immaginario dei firmatari del primo documento un partigiano della disobbedienza sociale.
Per non parlare dell’innovatore Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti, “stalinista” sì ma anche ideatore del “partito nuovo”, antesignano del partito leggero e “meticcio” che qualcuno ha in mente.
E che dire di Lenin, che ha saputo <> e forse oggi avrebbe distribuito prodotti biologici davanti ai Mc Donald’s e raccolto le firme per la Tobin tax? Abbiamo finito per scoprire, ascoltando le orazioni di questi compagni, che disobbedienti -come li intendono dalle parti del Nord-Est- lo erano anche i garibaldini della Resistenza, i braccianti meridionali che occupavano le terre e gli operai delle Reggiane che scioperavano sfidando il piombo di Scelba, e tanti di quei movimenti di massa che sono stati organici alla storia del Partito Comunista Italiano.

Se, da una parte, non può che suscitare piacere sentir menzionare personaggi ed esperienze che, solo pochi mesi prima della Conferenza di Marina di Massa, erano stati posti all’indice dalla furia modernizzatrice, dall’altra è difficile celare lo stupore dinanzi la “doppiezza” manifestata dai vertici dei GC circa la disobbedienza.
Una pratica che prima, durante e subito dopo le giornate di Genova 2001 veniva dipinta come un modo completamente nuovo di fare politica, in alternativa –se non in aperta contrapposizione- alle forme tradizionali di protesta tramandate dai partiti marxisti e dai sindacati di classe.
Una pratica, sulla quale -estremizzazioni delle forme e problemi di metodo a parte- ci si può anche ragionare serenamente, che spesso, anche durante i lavori della Conferenza di Massa, è stata confusa (volutamente?) con un fine, un modello di vita, un tipo “altro” di essere e di fare partito, davanti agli sguardi attoniti delle delegazioni giovanili straniere (che nelle trincee della Palestina e della Colombia, o nelle piazze de L’Avana, Atene e Madrid, non si sono “accorte” della fine dell’imperialismo e della “necessità” di superare l’attuale strutturazione politica).
Per poi sentirci dire che la disobbedienza costituisce uno strumento da sempre interno al movimento operaio e comunista.
Non senza arrampicate sugli specchi ed equilibrismi lessicali per tenere insieme la “passione durevole” per Che Guevara -del quale non andrebbe letto soltanto il Diario in Bolivia, ma anche gli scritti sul ruolo d’avanguardia del partito comunista-, il Marcos e l’EZLN che considerano <> (5), e le ultime rimembranze leniniste, con la nuova infatuazione alle teorie dei “cattivi maestri” Toni Negri e Michael Hardt.

UN LUNGO PERCORSO DENSO DI OSTACOLI

Regna davvero tanta confusione sotto il cielo.
E prevedibilmente lunga è la strada da compiere per costruire, anche nel nostro Paese, una moderna organizzazione comunista e rivoluzionaria, come profilata nella stesura del documento “Giovani E Comunisti”.
Un’organizzazione radicata con delle proprie cellule in tutti i luoghi di lavoro, di studio e di vita in cui sono presenti le nuove generazioni, non solo partecipe ai più disparati movimenti di massa già esistenti, dai centri sociali alla CGIL, ma anche pronta a costituire degli organismi ex-novo.
Per la quale il concetto di egemonia non si riduca alla burletta di chi ha paura di “mettere il cappello” agli altri, e nemmeno a parole d’ordine astratte e autoreferenziali.
Un’organizzazione il cui bacino d’influenza non si limiti a quella -tutto sommato- ristretta cerchia di ragazzi e ragazze che ruota attorno all’area dell’antagonismo, che sappia parlare, invece, alla maggioranza dei giovani proletari, disoccupati, precari, delle periferie urbane e del Mezzogiorno. Quelli che oggi non riusciamo neanche a sfiorare con le nostre iniziative e il nostro materiale di propaganda, che fuggono dalla politica, surrogano le loro aspirazioni collettive in strutture come quelle del volontariato e del tifo calcistico, o si rifugiano nel populismo spicciolo e stradaiolo di certe forze reazionarie.

Visti i risultati di Marina di Massa, si potrebbe dire che c’è da rimboccarsi le maniche per proseguire nella realizzazione di questo progetto strategico, ancora in fase embrionale.
E per farlo, bisogna stare attenti a non inciampare nei numerosi ostacoli che si possono incontrare durante il percorso.
Un presupposto fondamentale per il raggiungimento di una meta di tale portata, è la difesa strenua dell’unità dei comunisti, al di là delle differenze che ci possono essere in un partito nato all’insegna del pluralismo, e dell’agibilità in seno al PRC e ai GC, intesa anche come diritto alla critica e all’affermazione esplicita delle proprie posizioni.
Senza paura di essere additati al pubblico ludibrio come “il piombo nelle ali” ed estromessi a priori dalla gestione, solo perché non allineati in toto con un segretario e un coordinatore nazionale “infallibili” e “lungimiranti”, con buona pace per chi ha creduto veramente al superamento del culto della personalità.

Coerenti con un modello di organizzazione che non si vuole gettare nella pattumiera della storia, si deve rintuzzare ogni tentativo di frantumare le nostre istanze politiche in compartimenti stagni e incomunicabili, sottoposti a logiche di frazione e frutto di una concezione distorta, secondo la quale il più temibile avversario è il compagno che ci siede accanto.
Un atteggiamento grave e non ammissibile.
Specie in una fase in cui il governo Berlusconi e le forze della repressione, mobilitati per l’imminente crociata del petrolio in Irak e la guerra interna sullo Statuto dei lavoratori, si apprestano a colpire con un nuovo giro di vite le opposizioni politiche e sociali, e in particolare il movimento comunista, rispolverando il sempre valido arnese antipopolare del terrorismo come antidoto contro la ripresa del conflitto di classe.

Si deve affermare il principio elementare affinché ogni iniziativa del PRC e dei GC, dal seminario tematico al campeggio nazionale, sia l’iniziativa di tutto il PRC e di tutti i GC; affinché ogni quadro, ogni militante possa prendere parte all’elaborazione di una linea coralmente condivisa e applicata.
Solo in un contesto simile, peraltro non proprio dietro l’angolo, si possono generare le condizioni per edificare <>(6).


NOTE:

(1) La lettera aperta è disponibile sul sito www.disobbedienti.org .
In essa si sostiene che <Come disobbedienti partiamo dall’autocritica…>>.
Inoltre, nell’ambito del bilancio fallimentare delle liste elettorali no-global, si sottolinea che <>.

(2) Si veda l’articolo pubblicato da Vittorio Agnoletto su “il manifesto” del 25 luglio u.s., nel quale l’ex portavoce del GSF -in risposta a Casarini- ribadisce il suo modello di <>, mentre invita a <>.
Agnoletto, inoltre, ammette che <Ognuno ha il sacrosanto diritto di parlare, ma dovremo riuscire sempre a spiegare a nome di chi ognuno parla, per chiarezza e onestà>>.

(3) Le Conferenze territoriali dei GC, organizzate in vista della Conferenza nazionale di Marina di Massa, si sono concluse con questo risultato: documento n. 1, “Giovani Comunisti/e sempre ribelli!” (Disobbedienti), 63,92%; documento n. 2, “Per l’egemonia del progetto rivoluzionario tra i giovani” (Progetto Comunista), 10,43%; documento n. 3, “Giovani E Comunisti” (L’Ernesto), 18,33%; documento n.4, “Giovani Comunisti: Disobbedienti o rivoluzionari? (FalceMartello), 7,32%.

(4) “Liberazione” del 9 luglio 2002, intervista a cura di Checchino Antonini dal titolo “Sperimentiamo, nessuno si senta escluso”.

(5) Marcos, “La quarta guerra mondiale è cominciata”, Edizioni Il Manifesto.

(6) Dal documento “Giovani E Comunisti”, presentato dai compagni Gianni Fresu, Gianmarco Anzolin e Nino De Gaetano.

OMAR MINNITI
Coordinamento provinciale dei GC
Reggio Calabria

Fonte

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