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Emergenza ceneri...

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(17 Aprile 2010) Enzo Apicella
La nuvola di ceneri del vulcano Eyjafjallajokull arriva sull'Italia. A Roma manifestazione in solidarietà a Emergency

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Prefazione di Fulvio Grimaldi a "L’impero si e’ fermato a Baghdad"

(27 Aprile 2006)

Cari compagni e amici, vi invio questa mia prefazione al libro di Valeria Poletti “L’IMPERO SI E’ FERMATO A BAGHDAD”, EDIZIONI Achab, che esce in significativa coincidenza con il 25 aprile, nostra festa di liberazione. E’ il libro che tutti attendevano, o avremmo dovuto attendere. E’ la prima esauriente e veritiera informazione sull’Iraq dal colonialismo alla Resistenza di oggi. Un lavoro che distrugge tutte le menzogne, le intossicazioni, le compiacenze e subalternità e ci restituisce intera la storia di un grande popolo e di una grandissima Resistenza. Per presentazioni del libro sono disponibili sia l’autrice, sia il sottoscritto prefatore.
Fulvio Grimaldi.

La maggior parte dei crimini contro l’umanità hanno per origine e alibi una menzogna e per scopo la costruzione di una società gerarchica che garantisca il dominio dei pochi sui tanti. La negazione della verità e l’imposizione di una soggezione generale all’inganno sono i meccanismi di potere che ogni lotta di massa, nelle forme che vanno dalle elezioni alle rivoluzioni, deve smascherare e neutralizzare se vuole avere possibilità di affermazione.

Non è una scoperta di tempi recenti. Si pensi alle verità rivelate delle varie religioni, in particolare monoteistiche, alla falsa “donazione di Costantino” che garantì alla Chiesa la base materiale per puntare al potere temporale universale, alle demonizzazioni di interi popoli e credenze alla base delle crociate e delle persecuzioni di massa succedutesi nel secondo millennio, agli apodittici assunti “scientifici” che, negando qualità umane e spirituali ai nativi di terre e risorse da conquistare, di popoli da soggiogare e di civiltà da obliterare, giù giù fino ai falsi pretesti per le guerre, o per i consumi di hamburger. Si pensi alla manipolazione di concetti come patria, o democrazia e progresso con i quali si sono imposti, rispettivamente, la guerra imperialista del ‘15-’18, del tutto ingiustificabile se non per l’interesse degli industriali delle armi, perché il contenzioso era già risolto dalla disponibilità austro-ungarica, e gli eccidi, le devastazioni e rapine coloniali ai danni di popolazioni da “civilizzare” o, addirittura, di popoli “inesistenti”, come nel caso dei palestinesi. L’esito essendo quello risolutore dello scambio dei carnefici con le vittime.

Spostatasi dalla politica all’economia, la tecnica dell’inganno ha visto la parte dell’umanità con disponibilità di offrire profitti, perlopiù a proprio pesante discapito, precipitare nell’attuale vortice di un consumismo patologico, autodistruttivo non solo sul piano economico, ma altamente remunerativo per i produttori del superfluo e del nocivo, mimetizzati dai noti “persuasori occulti”. Esemplificano in modo drammatico questa evoluzione il farmaco AZT che, fino a quando, verso la fine degli anni ’90, non venne ritirato dal commercio, fu responsabile della massima parte dei decessi da presunto Aids conclamato, oppure la megatruffa della benzina “verde” che, al prezzo per la cittadinanza del rinnovo del parco automobilistico, sostituì al piombo, relativamente innocuo, i killer benzene, policlici aromatici e polveri sottili.

Immersi in un oceano di bugie, propagandate ormai dalla quasi totalità di una rete di comunicatori del tutto sinergica con i poteri costituiti, se non a essi economicamente integrata, manteniamo quel tanto di sensibilità verso valori innati come la solidarietà, la compassione, l’aspirazione alla giustizia, per la decostruzione dei quali occorrono campagne particolarmente virulente e totalizzanti. E’ il caso del ciclo di guerre continue e globali che, iniziato sul morire del secolo dei grandi sconvolgimenti per l’emancipazione degli oppressi e alienati e contro forme di dittature particolarmente efferate, puntano al rovesciamento di quei processi e al ristabilimento, con lo strumento dello sterminio armato e dell’annichilimento repressivo, di forme non dissimili, nella sostanza, di dominio e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Ancora una volta la truffa si avvale di minacce inventate, o autoprodotte, come il terrorismo, le armi di distruzioni di massa, i genocidi, e della correlata necessità di reagirvi nel nome della democrazia e dei diritti umani.

Protagonista di questo imbroglio planetario il conclamato progetto statunitense, esplicitato in vari documenti ufficiali da una elite economico-politico- militare dotata di un cinismo forse senza pari nella storia umana, di imporre il proprio dominio sull’universo mondo, vuoi attraverso la guerra guerreggiata, vuoi attraverso la guerra economica perpetrata con la collaborazione decisiva di organismi apparentemente sopranazionali quali l’ONU, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Nato ed i suoi affini in continenti come l’America Latina e l’Asia. Progetto al quale partecipano, per quote di maggiore o minore minoranza, Stati del tutto complici come il Regno Unito, l’Australia, Israele e, in forma a volte sommessamente competitiva, Stati europei dalle rinnovate ambizioni colonialiste all’esterno e autoritarie all’interno. Si veda, dopo le divergenze sulla guerra all’Iraq, la sincronia con gli Stati Uniti di Germania e Francia in operazioni di intervento colonialista come nel Sudan (la grande bugia del genocidio in Darfur), Haiti (la presunta “dittatura” di Aristide), o Siria (dove si sono montati in funzione di destabilizzazione antisiriana e antilibanese, con le solite mani, l’assassinio del premier Rafiq Hariri e la successiva ennesima “rivoluzione colorata” fomentata e foraggiata dall’articolazione Cia National Endowment for Democracy). Più scoperta, tanto da risultare una preziosa cartina di tornasole, anche perché contrastata da una insolitamente efficace controinformazione, nonché da un terrorismo statunitense in questo caso ripetutamente smascherato e provato, l’operazione di questo segno da mezzo secolo diretta contro Cuba e che ora incomincia ad articolarsi contro i paesi latinoamericani di democrazia progressiva, antimperialista, se non rivoluzionaria, come il Venezuela di Hugo Chavez e la Bolivia di Evo Morales.

Abbiamo subito la tragedia balcanica che, in virtù di un complotto eurostatunitense di lunga lena, con alfiere per l’Italia il governo di centrosinistra di Massimo D’Alema, ha smembrato la Jugoslavia spezzettando la regione in minifeudi etnico-confessionali, propizi al controllo geostrategico delle regioni asiatiche e del progressivo assedio a Russia e Cina. Viene in mente in questo contesto, a proposito di truffe totalizzanti, la vicenda, di cui sono stato interprete duramente represso dal quotidiano di sinistra per il quale scrivevo, dell’associazione serba Otpor (assai affine alla Lega Nord negli scopi assegnati di destabilizzazione nazionale) e della Radio privata di Belgrado B-92, entrambe riconosciute sia da destra che da sinistra come autentica espressione di un movimento di contestazione democratica e progressista al governo di Slobodan Milosevic e poi scoperte e dimostrate strumenti eversivi al diretto servizio delle potenze occidentali impegnate nella distruzione della Jugoslavia non allineata, socialista e multietnica. Il disvelamento di Radio B-92, filiale serba della rete di propaganda USA in Europa Radio Liberty e di Otpor, prodotto della solita National Endowment for Democracy e del Quantum Fund dello speculatore George Soros, portò anche all’identificazione delle complicità e subalternità di tante realtà politiche e associative, soidisant umanitarie, solidaristiche e pacifiste, che in Italia contribuirono alla mistificazione balcanica. Consapevolezza giunta purtroppo fuori tempo massimo e, del resto, poi scrupolosamente sepolta sotto una coda di paglia lunga dal Tirreno fino al Danubio.

Le poche ricerche e controanalisi che hanno portato, seppure tardivamente, a incidere nel tessuto già compatto della menzogna imperialista sulla Jugoslavia, menzogna articolata lungo elementi portanti come la “città martire di Sarajevo”, la “strage di Sebrenica”, la “pulizia etnica in Kosovo”, la “dittatura di Milosevic”, “l’ultranazionalismo serbo”, sono finora del tutto mancate, salvo gli isolati tentativi di pochissimi (in Italia) informatori onesti e scrupolosi, in relazione a quello che è sicuramente il nodo politico, strategico, mediatico, culturale al centro del mondo in questo inizio millennio: l’Iraq, il suo ruolo nel mondo arabo, nel terzo mondo e nel contesto internazionale a partire dalla rivoluzione anticolonialista del 1958, il lungo assedio israelostatunitense, la prima Guerra del Golfo, i 13 anni di embargo del milione e mezzo di morti, la seconda aggressione del 18 marzo 2003, le successive inenarrabili efferatezze delle forze occupanti, una Resistenza che a ragione ha richiamato alla memoria il Vietnam e le grandi lotte di liberazione nazionale nel Terzo Mondo e contro il nazifascismo. Il lavoro di Valeria Poletti è, da questo punto di vista, “epocale”. Rompendo una blindatura del silenzio e della disinformazione embedded, sostenuti dall’ignavia senza precedenti di coloro che avrebbero dovuto assumersi precise responsabilità giornalistiche, Valeria ha saputo, con un lavoro ineccepibile dal punto di vista di fonti, documentazione, probità di giudizio, offrire alla tragico-eroica vicenda del popolo iracheno un quadro inoppugnabile di verità e di giustizia. E’ questa un’opera che non potrà non responsabilizzare in maniera spietata chiunque da questo momento in poi vorrà perseverare in un inganno – o subirlo passivamente - che è costato la vita, la libertà, il benessere, la sovranità, la storia e, diononvoglia, il futuro al popolo portatore della più antica civiltà del mondo e oggi autentico garante della possibilità di resistenza e di vittoria di tutti gli oppressi.

Le informazioni, gli approfondimenti di questo libro, autentiche rivelazioni per la maggioranza dei lettori, capovolgeranno, a chi in buonafede si appresta alla lettura di questo impareggiabile e ricchissimo documento, quanto finora aveva ritenuto credibile e condivisibile dell’immane tsunami di falsità e imposture con cui l’imperialismo occidentale, coadiuvato dall’opportunismo e dalla passività di chi avrebbe dovuto saper reagire, ha letteralmente lobotomizzato l’opinione pubblica. Per noialtri operatori dell’informazione che, in quasi totale isolamento e contro il complice boicottaggio dei mezzi d’informazione, pur sedicenti imparziali e “democratici”, abbiamo riferito nel corso di decenni e fino all’aggressione in corso su vicende, popolo, protagonisti della più importante storia del nostro tempo, questo lavoro appare un autentico vindice del diritto alla verità e una rivalsa sacrosanta nei confronti delle diffamazioni e degli ostracismi subiti, ancor prima che da noi, da un intero, valoroso e nobile popolo e dalla sua dirigenza. E qui mi sia consentito un ricordo personale e, peraltro, assai significativo. Allora inviato speciale al Tg3, alla mia direttrice, reporter ed editorialista prima e dopo di quelle che vengono definite le più prestigiose testate nazionali e addirittura presidente della Rai, proposi intorno al 1997 di andare in Iraq per qualche reportage su un paese che, pur bombardato quotidianamente e strangolato da un embargo totale, non appariva più da tempo in nessuna cronaca o inchiesta. La risposta, che riassume quanto andiamo scrivendo qui, fu: “Vai pure, ma guai a te se mi fai vedere un solo bambino iracheno ammalato di uranio o moribondo per fame. Mica voglio fare un favore a quel delinquente di Saddam e criminalizzare l’Occidente”. Una deontologia, questa, peraltro condivisa da quasi tutti, che la pose in singolare sintonia con l’allora segretaria di Stato Madeleine Albright quando, interrogata da studenti americani se fosse valsa la pena aver ammazzato mezzo milione di bambini iracheni con l’embargo, rispose: “Si, mi pare che fosse un prezzo giusto”. Quando le ricordai l’episodio nella trasmissione di Michele Santoro, la direttrice se la cavò rampognandomi: “Avresti fatto meglio a occuparti della frana di Sarno”.

Quella che Valeria Poletti narra è, senza retorica e senza intenti apologetici, l’epopea di una nazione che si è posta di traverso a un gigantesco tentativo di ricupero del dominio coloniale perduto grazie alle esemplari lotte del secolo scorso, riferita con il taglio scrupoloso del ricercatore di razza. Tale tentativo, esplicitato con chiara protervia nel Programma per un nuovo secolo americano (PNAC, Program for a new American century), formulato fin dagli anni ‘90 dal gruppo cristiano-sionista pervenuto al potere con i brogli del 2001, con il concorso, se non su ispirazione, di un Israele che tale obiettivo racchiudeva già nelle sue carte fondanti, e poi racchiuso nei piani strategici ufficiali del governo Bush, ha oggi assunto la formula del “Grande Medio Oriente”. Un progetto geopolitico e geostrategico che riesuma in chiave imperialistica e di capitalismo ultraliberista la politica colonialista delle potenze europee dei secoli scorsi, sradicando definitivamente quello che già allora ne fu il nemico principale e alla fine vittorioso, negli anni che vanno dalla rivoluzione dei Giovani Ufficiali di Nasser all’affermazione di governi laici e progressisti nell’arco tra Algeria e Iraq, passando per quello che è rimasto il nodo centrale, simbolico e strategico, dello scontro: la rivoluzione nazionale palestinese. Sotto la cortina fumogena della “democratizzazione” degli Stati della regione, il progetto si propone di smantellare ogni realtà statuale araba, a partire da quelle non rimaste, dalle loro origini post-ottomane, nella sfera di dominio anglo-franco-americana come lo sono rimasti Arabia Saudita, Emirati, Oman, Kuwait, Qatar, Marocco e da quelle successivamente non ancora ricuperate come lo sono stati Egitto, Yemen e, tra contraddizioni, Algeria, Libia e Libano. Cioè eminentemente Iraq, Siria e Sudan. Lo scenario che ne dovrebbe emergere sarebbe una nazione araba frantumata in microrealtà pseudostatali lungo linee etniche e confessionali. Una realtà araba che, immemore della millenaria unità culturale, linguistica e religiosa di popoli rimasti relativamente omogenei e sinergici sotto gli ottomani, ma arbitrariamente frazionati dal colonialismo europeo dall’accordo Sykes-Picot, si presti docilmente a essere terra di rapina, di mercato e di manodopera a basso costo per le transnazionali occidentali e piattaforma militarizzata euroamericana in vista della penetrazione verso i grandi rivali Russia e Cina.

Inevitabilmente, nel piano israelo-euro-statunitense un destino analogo non potrà non spettare all’Iran, contro il quale il ricorrente agitar di sciabole imperialista si deve considerare in buona misura virtuale finché Teheran resterà, con le sue formazioni politico-militari sciite in Iraq, il collaboratore e garante principale della permanenza degli occupanti in quel paese.

È al di là di ogni dubbio, a dispetto delle fandonie su Saddam “uomo degli americani”, che l’ostacolo principale a tale progetto era costituito dall’Iraq.

Un paese che, dall’esaurirsi del ruolo egiziano e dalla rivoluzione anticolonialista del 1958, salvo una breve interruzione filo-angloamericana sotto il dittatore Aref negli anni ’60, fino all’attuale sbalorditiva resistenza di popolo, civile e militare, ha rappresentato un polo nazionale e progressista la cui influenza si estendeva ben oltre lo spazio arabo e diventava punto di riferimento per i popoli in lotta in misura paragonabile a Palestina, Cuba e Vietnam. Forza demografica, posizione geostrategica di cerniera tra i due continenti emergenti Africa e Asia, travolgente sviluppo economico, industriale, agricolo, culturale, potenza militare sostenuta dal campo socialista e collaudata nella lunga guerra contro l’Iran, un avanzatissimo assetto sociale che fungeva da magnete ideologico per milioni di diseredati e senza-diritti dei paesi circostanti, nonché il ruolo politico di coagulo delle istanze progressiste e nazionali, antimperialiste e antisioniste, facevano dell’Iraq baathista la mina letale sul cammino dell’espansionismo israeliano, degli appetiti egemonici iraniani e, soprattutto, della riconquista imperialista.

Le aggressioni militari ed economiche, succedutesi ininterrottamente dal 1991 attraverso l’embargo genocida e gli ininterrotti bombardamenti sulle no-fly zones, fino all’attuale repressione stragista della Resistenza e della popolazione in genere, con l’impiego costante di armi di distruzione di massa e degli squadroni della morte sponsorizzati dai fratelli sciiti al potere in Iran, hanno dovuto essere accompagnati da una guerra psicologica senza precedenti nella storia, superiore perfino alla demonizzazione di ogni cosa serba o, prima, comunista. Il fatto tanto stupefacente quanto desolante è che a questo bombardamento mediatico, che ha poi escluso addirittura dalla curiosità professionale degli informatori e studiosi ogni pur minima attenzione alle voci che provenivano dal campo opposto, hanno completamente ceduto anche le forze di sinistra, con particolare ignavia quelle italiane. Tragicamente, non meraviglia più da tempo che, per esempio, sull’esplosione di proteste, ben pianificate in Occidente dai lucidi fautori dello “scontro di civiltà”, contro un’islamofobia planetaria (vignette, magliette, propaganda denigratoria dei musulmani e del loro profeta) al cui confronto il tanto deprecato antisemitismo fa la figura del sedicesimo, si abbiano nel principale talk-show televisivo italiano titoli come “La persecuzione del cristiani nel mondo”. O si faccia governare il dibattito della rubrica radiofonica Rai di massimo ascolto da noti corifei di Israele come Giuliano Ferrara e Gad Lerner, finti contradditori sotto la compiaciuta conduzione di un sodale dell’ “ultraisraeliano” e postfascista ministro degli esteri Fini.

Nel giro di poche ore le geremiadi di presunto segno illuministico per l’insensibilità islamica verso quella che una pubblicistica razzista, truculenta e ingiuriosa pretendeva di far passare per “libertà d’espressione”, sullo sfondo da imbrattare della sacrosanta indignazione di masse già sbeffeggiate, perseguitate, diffamate e aggredite al di là di ogni sopportazione, si mutò acrobaticamente in vituperio ferocissimo nei confronti di chi, in una manifestazione per Palestina e Iraq, aveva osato impegnare la sua di “libertà d’espressione” in striscioni di sostegno alla resistenza di questi popoli. Sarebbe stato più facile scoprire un corano in tasca al ministro leghista Calderoli, truculento rilanciatore delle vignette anti-Maometto pubblicate in Danimarca e poi, lungo una ben elaborata catena di provocazioni, in vari altri paesi fino a giungere sulla biancheria intima del più ardimentoso dei crociati padani, che trovare in una qualsiasi “libera espressione” dei media, da destra a manca, un pur flebile accenno a ciò che questa operazione con ogni evidenza era. Cioè la mossa, tempestiva come tutte le volte che urgeva neutralizzare una delle ininterrotte debacles politiche, militari, etiche o umanitarie degli aggressori, che, partendo da una provocazione ben studiata, avrebbe scatenato, anche con l’uso di agenti in loco, quello che sugli schermi occidentali sarebbe stato presentato come la solita visione di turbe barbare dissennate, fanatiche, violente. Con ciò raggiungendo lo scopo strategico di rinfocolare lo “scontro di civiltà”, condizione decisiva per la continuazione della guerra globale e quello tattico di stornare l’attenzione dall’ennesimo orrore angloamericano. In questo caso le nuove foto delle torture ad Abu Ghraib, il video del massacro di bambini a Basra per mano di lanzichenecchi di Sua Maestà, lo scandalo da impeachment delle illegittime intercettazioni di Bush. E chissà che altro. Naturalmente tutto questo è la nota, deprecatissima “dietrologia” (e chissà se Valeria, sottraendo alle intossicazioni e agli occultamenti la storia dell’Iraq di Saddam, non diventi bersaglio della stessa stigmate). “Dietrologia” come lo è quella che sospetta, tra le voragini e le toppe della versione ufficiale, come l’11 settembre possa aver a che fare qualcosa sia con la fragilissima posizione di Bush dopo i brogli in Florida che lo elessero presidente, sia con la necessità, per lanciare la famosa guerra globale e permanente e uno stato di polizia all’interno, di un “grande evento traumatico che scuotesse l’opinione pubblica statunitense” e le facesse metabolizzare mezzo trilione di spese militari in cambio della morte della pace e dello svaporamento di ogni sicurezza sociale. “Evento traumatico tipo Pearl Harbour” espressamente auspicato nei documenti PNAC e, pubblicamente, da Condoleezza Rice.

Ubbie, naturalmente. Proprio come quelle di chi mette in discussione i tableau gotici nei quali l’Occidente cristiano inserisce i leader suoi nemici, da Ho Ci Min a Fidel, da Mao a Ben Bella, dal Saladino a Saddam.

Ciò che, però, resta tuttora difficile da accettare, nonostante i deprimenti precedenti del “Milosevic dittatore” o di “Osama, autore dell’11 settembre”, “Al Qa’ida, nemico globale degli USA”, è il totale allineamento della sinistra tutta, politica e mediatica, a dispetto della ricchissima e inoppugnabile pubblicistica inversa, soprattutto statunitense, dei paradigmi delle centrali di disinformazione dei servizi occidentali. Una dimostrazione di subalternità che, insieme a quello di un provincialismo prono alle potenze, anche mediatiche, reca il segno della complicità oggettiva e di cui dovrebbero chiedere conto sia le popolazioni aggredite e sterminate, sia i partigiani delle nuove resistenze, sia coloro che avrebbero potuto e voluto, se informati, offrire a costoro la propria solidarietà, simultaneamente avanzando sul cammino della propria emancipazione.

Ricordo, da inviato speciale nella seconda guerra del Golfo nel 2003, le grasse risate e i termini spregiativi che rispondevano, dagli schermi della CNN e della BBC, ai resoconti del conflitto che faceva l’allora ministro dell’informazione iracheno Mohammed Saeed al-Sahaf. Ma quando il buon ministro smentiva la caduta di Umm Kasr, il porto sul Golfo, vantato otto volte in otto giorni dai media embedded, era lui che aveva ragione. Quando annunciava che l’arrivo delle truppe dell’invasione a Baghdad avrebbe coinciso con l’inizio della loro sconfitta, era lui che aveva ragione e da ridicolizzare erano piuttosto coloro che avallavano le sparate di un presidente travestito da top gun, dichiaratosi vincitore il 1 maggio, quando già ci si avviava verso il millesimo morto statunitense. Coerentemente il mio quotidiano, “Liberazione”, spaventato dall’alterità delle mie corrispondenze rispetto a quanto raccontavano “affidabili inviate” come Botteri o Gruber, pensò prudente minimizzare i miei articoli dal fronte sotto forma di “lettere al direttore”… Non stupisce, quindi, per quanto umili, se, a parte qualche spiraglio ne “il manifesto” dell’ottimo Stefano Chiarini, rara avis, siano rimaste in Italia senza obiezione, addirittura senza la più elementare verifica che ne avrebbe rivelato il carattere menzognero e strumentale, autentici stereotipi della criminalizzazione dell’avversario come “la dittatura sanguinaria di Saddam, con il suo seguito grand guignol di fosse comuni, abitudini efferate del capo e dei suoi famigliari; lo sterminio degli sciiti nella rivolta del Sud (protagonisti terroristi iraniani); i militari iracheni che strappavano i neonati dalle incubatrici in Kuweit (bufala raccontata da una finta infermiera, vera figlia dell’ambasciatore in USA); lo “sterminio” dei comunisti (al governo con il Baath fino al 1979 e, quando Mosca ordinò al suo partito in Iraq di schierarsi con l’integralista Khomeini, messi davanti alla scelta tra esilio e ingresso nel Baath; con 140 giustiziati per alto tradimento per aver combattuto al fianco del nemico); la repressione dei curdi (destinatari nel 1975, per la prima volta nella loro storia e in questo solo paese, di una piena autonomia, di autogoverno e di partecipazione al governo centrale, ma ribellatisi per istigazione di due feudatari, Talabani e Barzani, al soldo di Israele); e, crimine massimo, il Saddam “gassatore delle proprie genti” nel villaggio curdo di Halabja nel 1988 (strage dimostrata poi da testimoni oculari, come dai servizi segreti anche occidentali, incidente bellico degli iraniani, mai rettificato dalla stampa occidentale).

La più insidiosa di queste operazioni di diffamazione, tanto classiche da poter essere individuate, volendo, a prima vista, è stata quella che aveva come evidente destinatario l’opinione pubblica di sinistra o, quanto meno, democratica. Quella che, in assenza di un’accusa tanto infamante, avrebbe potuto offrire una ben più consapevole ed efficace opposizione alla guerra e al genocidio degli iracheni. Una leggenda iniziata a circolare dopo l’inizio del conflitto tra Iraq e Iran, quando, con Henry Kissinger autore della frase “vogliamo che i due paesi, minacce a Israele, si dissanguino a vicenda”, si volle far apparire Saddam come il vendicatore della sconfitta subita dagli USA con la cacciata dello Shah e, soprattutto, l’occupazione dell’ambasciata da parte dei Guardiani della Rivoluzione. Occupazione che umiliò e favorì la sconfitta nelle presidenziali del moderato Carter a vantaggio dell’ultrà Reagan. E a conforto di ciò si addusse una singola fotografia in cui l’allora inviato di Reagan, Donald Rumsfeld, stringe la mano a Saddam Hussein.

Come se la stretta di mano a Parigi tra Le Duc To e Kissinger avesse avuto un significato superiore al mero convenevole diplomatico. D’altronde nessuno dette un peso altrettanto politico alle fotografie della distruzione di Osiraq, centrale nucleare civile irachena, ad opera di pirati aerei israeliani che così colpivano “l’uomo degli americani”. L’Iraq sovrano ed antimperialista ha avuto quel che ha avuto perché durante quasi mezzo secolo, più di ogni altro paese arabo, ha sostenuto materialmente e politicamente la Resistenza palestinese. Ricordo che due giorni prima dell’arrivo degli invasori a Baghdad, il 9 aprile, vidi a Baghdad i mandati firmati da Saddam per il consueto pagamento di 20.000 dollari a ciascuna delle famiglie di martiri palestinesi. Perché, unico governo ad aver resistito su tale posizione, nazionalizzò i suoi idrocarburi cacciando dal paese i monopolisti angloamericani. Perché non si è mai fatto ricattare da offerte di consegne militari statunitensi (mai un’arma pesante nordamericana ha raggiunto l’Iraq). Perché nel 1979, dopo la resa di Sadat a Begin con l’accordo di Camp David, che abbandonava la Palestina al suo destino, riuscì a costruire il Fronte del Rifiuto che raggruppa va non meno di 17 Stati arabi su 21 e impegnava tale fronte alla resistenza contro Israele.

Perché aveva promosso un modello sociale, una distribuzione della ricchezza, un’emancipazione delle donne, una sanità, un’istruzione, una dignità e un’autostima che non avevano paragoni nella regione e oltre e che, già per questo, rappresentavano un pericolo mortale per il progetto del Grande Medioriente costruito nel segno del pensiero unico. Perché, infine, in tutti quegli anni Baghdad era il centro di raccolta, progettualità, coordinamento, organizzazione delle forze progressiste e antimperialiste dell’area e al di là dell’area. Quanto al Saddam “armato dagli americani”, si pensi piuttosto agli stanziamenti del Congresso USA a Teheran per tutta la durata dello scontro Iraq-Iran, o ai piloti e agli armamenti israeliani offerti in aiuto all’Iran all’inizio della guerra e con il cui ricavato una banda criminale poté, all’ombra di Reagan, sostenere i contras contro il legittimo governo del Nicaragua.

Si deve dedurre da tutto questo che Saddam era un governante ineccepibile e democratico ai sensi di quello che in Occidente, grazie a elezioni neppure più tanto trasparenti, si opina essere democrazia? Certamente no.

Saddam ha governato in coalizione con altri partiti progressisti finché assedi e conflittualità fomentate dall’esterno non hanno infranto questo pluralismo.

Poi l’Iraq è diventato uno Stato monopartitico e con un rigoroso controllo sociale, matrice anche di repressioni e di vittime, ma non certo nella misura di massa propalata in Occidente. Del resto, come Cuba insegna e come mi ripeté Uda Hammash, biologa e membro del Consiglio di Comando della Rivoluzione, diffamata come “Dottoressa Antrace” per aver rivelato gli spaventosi effetti dell’uranio USA, rimane assai difficile aprire porte e finestre di un Paese, lasciare illimitate libertà individuali, quando un nemico mortale, oltremisura cinico e possente, lavora incessantemente a infiltrarti, sovvertirti, sabotarti, affamarti, ucciderti, mettendo così a rischio la prosperità e il futuro dell’intero popolo. In quasi mille anni di dominio assoluto ottomano, gli arabi hanno imparato a difendere spazi di autonomia e di identità mediante la loro struttura tribale. Una struttura di cui il membro più autorevole, saggio, valente era il capo riconosciuto. Altro, ieri e subito dopo, non datur. E noi postrinascimento, postriforma, postilluminismo, postrivoluzione francese e russa arriviamo lì, belli belli, e come il grillo parlante dall’alto della parete nella bottega di Geppetto, esigiamo “democrazia!”. Quella di Bush e Berlusconi, magari.

A tutto questo il lavoro di Valeria pone ampio rimedio. Anche se non si pone l’obiettivo di rivalutare. La rivalutazione sta nella verità della sua accuratissima ricostruzione storica. Una ricostruzione in parte a ritroso che, partendo da quanto ai contemporanei è relativamente noto, i tre lustri delle guerre, percorre la vita, le vicende di questo popolo e delle sue istituzioni lungo un filo che, sorvolando a bassa quota la fase coloniale, successiva all’estinzione dell’impero ottomano, via via ricostruisce una storia nazionale nell’autenticità dei fatti, delle politiche e dei personaggi. Nulla viene trascurato in questa ricostruzione se non, necessariamente visto lo scopo del libro, il racconto dell’Iraq erede cosciente e non filologico di una civiltà quadrimillenaria e di una rinascita culturale che, nel Terzo Mondo, ha per parallelo solo quella della Cuba postrivoluzionaria. Potrà essere il tema per un futuro impegno, di Valeria o di altri. Nel frattempo abbiamo abbastanza da fare e da guadagnare seguendo Valeria nella sua traversata irachena delle rivoluzioni, della costruzione nazionale, del petrolio, delle guerre e delle alleanze, dei conflitti interni, dei complotti, delle menzogne e delle verità.

Per arrivare a quel riscatto che la più proterva delle operazioni di mistificazione vorrebbe ora spacciarci come mero terrorismo, cercando di confondere la Resistenza con le squadre della morte create dal noto John Negroponte (di centroamericana sanguinaria memoria), chiamate al Qa’ida e reclutate, oltreché tra i mercenari delle forze occupanti, tra i seguaci più obnubilati della gerarchia sciita filo-iraniana a fini di guerra civile e di spartizione del Paese.

Sembrerebbe incredibile, alla luce di un Paese che vanta una storia di grande solidarietà con le forze della liberazione in tutto il mondo, ma è la triste e anche turpe realtà: da oltre tre lustri l’Italia è intimamente legata al destino di un paese che è un vero ombelico della geopolitica e della geoeconomia mondiale. Da oltre tre lustri i suoi governi, le sue società e ora anche suoi cittadini in armi sono direttamente – sanguinosamente, da quando partecipammo ai bombardamenti del 1991 – coinvolti nelle vicende di un popolo i cui antenati ci hanno dato il diritto, la scrittura, la ruota, la città, la musica e i cui contemporanei hanno fornito al mondo degli sfruttati uno degli esempi meno discutibili di liberazione e emancipazione. Da oltre tre lustri la nostra informazione, di ogni segno, ripete superficiali, falsi e criminogeni stereotipi su quel Paese, su quel popolo. Per il resto lo annega nel silenzio. La nostra opinione pubblica, da oltre tre lustri, si vede negare la verità. A quel popolo sono stati negati la nostra conoscenza, il nostro rispetto.

Eppure il nostro futuro ne dipende in una misura che nessun sa immaginare.

Ora Valeria Poletti ha posto, per prima in Italia, rimedio a tutto questo.

E credo che vada anche ricordata una presenza in rete che le è stata di prezioso ausilio e che, seppure vox clamantis in deserto, con i suoi precisi resoconti e commenti sull’Iraq di oggi, è in grado di gettare enormi fasci di luce nel buio: www.uruknet.info. L’opera di Valeria è il rompighiaccio dell’informazione giusta. Un giorno, quando l’Iraq avrà sicuramente vinto, meriterà un’insegna a Baghdad, in piazza Al Tahrir. Il “Cavalierato della Repubblica” lo lasciamo ad altre.

Fulvio Grimaldi

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