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    Non violenza debatte: quasi come il Bernstein debatte

    (26 Febbraio 2006)

    All'inizio del secolo scorso il “Bernstein debatte”, sviluppatosi all'interno del movimento socialdemocratico tedesco, segnò il confine del revisionismo classico: oggi la metafora del dibattito sulla Non Violenza (il “Non Violenza” debatte) sembra segnare la linea di demarcazione tra una sinistra di movimento, priva di progetto e definitivamente interna ad una logica di sostanziale subalternità al sistema, ed una sinistra ancora impegnata nella ricerca di un radicale processo di trasformazione dell'esistente.

    Un grave strappo teorico, quindi, tanto per cominciare per un concetto teorico tipico del “pensiero forte” come quello della non violenza, usato paradossalmente in funzione di una “politica debole” e ridotto a falso oggetto del contendere.

    Nella sinistra italiana, infatti, il dibattito sulla Non Violenza è ritornato, proprio in questi giorni, di prepotente attualità richiamato da rilevanti episodi contingenti: le candidature parlamentari assegnate alle correnti di minoranza all'interno di Rifondazione Comunista; il precipitare delle vicende mediorientali, dalla Palestina, all'Iraq, all'Iran; le ipotesi che si stanno formulando sulla politica estera che potrà essere adottata da un futuro governo di centrosinistra (laddove tornano i fantasmi della palese violazione dell'articolo 11 della Costituzione, compiuta nel 1999 dal Governo D'Alema al momento della partecipazione alla guerra nei Balcani).

    Sempre meno, però si legge e si scrive di una cultura della Non Violenza innalzata davanti ai grandi del mondo, quale specchio rilucente della enorme negatività del loro agire.

    A questo proposito, al riguardo del dibattito italiano, sorge un primo interrogativo: si può star dentro, in nome della cultura della Non Violenza, ad una coalizione che si prefigge di portare avanti una politica estera di “fedeltà” verso gli USA?

    La scelta pacifista e non violenta deve proporsi come egemonica, proprio in una fase in cui l'esercizio della forza sembra sempre più rappresentare davvero il prosieguo della “politica con altri messi”.

    La scelta pacifista e non violenta non può, quindi, essere usata strumentalmente come base per ritagliarsi spazi propri, cercando di restringerli agli altri, usandone il concetto in funzione di una assoluta “autonomia della politica”.

    L'esposizione del concetto di “Non Violenza” diventa, in queste condizioni, l'occasione per coprire con una sorta di metafora uno spostamento d'asse: dall'obiettivo della trasformazione radicale della società, ad una scelta, adottata ormai in chiave tutta politicista, di esaurire la propria funzione nella ricerca di una rappresentanza delle insorgenze sociali, riducendola alla conservazione della governabilità.

    Sulla base di questi presupposti è in corso un dibattito che, paradossalmente, fondandosi sul superamento della coppia “amico/nemico”, non ha aperto una riflessione sulle possibili pratiche del conflitto, limitandosi ad esaurire il conflitto stesso nel rapporto movimento/istituzioni.

    Ci troviamo di fronte ad uso metaforico della Non Violenza come limitazione dello scontro sociale, escludendone sbocchi di tipo progettuale; senza disegnarne gli esiti in quadro di prospettiva, in una linea di orizzonte. Appare qui fin troppo evidente la contraddizione con il richiamato modello gandhiano.

    Ha scritto bene il direttore del “Manifesto”: se così non fosse si presterebbe, almeno, pari attenzione alla politica estera che si sta preparando a portare avanti il futuro governo di centrosinistra e a ciò che si urla in un corteo romano.

    Il “Non Violenza debatte”, così come appare fin qui impostato all'interno della vicenda italiana, appare nascondere un vuoto che si è creato attorno a due punti fondamentali:

    1) La necessaria definizione di una gerarchia nell'intreccio delle contraddizioni irriducibili che attraversano la nostra società. Siamo in una fase in cui le maggiori forze politiche appaiono incapaci di ridefinire la propria identità attorno alla materialità delle questioni che toccano la vita delle persone e proporre ,su questa base ,un itinerario di trasformazione (una ricerca, cioè, rivolta a quella che un tempo avremmo definito “fase di transizione”).

    L'accantonamento del conflitto di classe ha portato non ad una accettazione nella complessità delle contraddizioni, ma ad uno smarrimento dell'idea stessa di contraddizione sociale: uno smarrimento ben emblematizzato proprio dal dibattito di cui ci stiamo occupando oggi.

    Tutto appare, alla fine, risolto e compreso in una scelta politicista, che appare ormai esaustiva dell'agire politico, determinando, sotto la metafora della scelta non violenta, l'esaustiva istituzionalizzazione della lotta sociale.

    La lotta sociale può e deve, invece, essere esemplarmente non violenta soltanto se si prefigge di trasformare gli equilibri, ben oltre il meccanismo gerarchico dato da questa società;

    2) Il ruolo dei partiti politici. Torno qui al concetto di “abdicazione del conflitto” e alla funzione istituzionale. I partiti appaiono ormai intendere la loro funzione come destinata alla proiezione interna al meccanismo di governo, non tanto della società, quanto dei meccanismi di supporto delle condizioni offerte dai settori dominanti, sul piano economico, sociale, culturale.

    Non mi soffermo più di tanto su ciò che questo fatto ha significato nella concezione e nell'esercizio del rapporto tra politica e società: ad essere benevoli si può ben dire che,almeno nel corso degli ultimi vent'anni, abbiamo assistito, in questo senso, ad un processo di drastica “riduzione”.

    I partiti rappresentano, ancora, soggetti insostituibili dell'agire politico organizzato.

    Su questo punto non possono esservi dubbi.

    Allora perché, a sinistra, contrapponendo falsamente il concetto di non violenza a quello di trasformazione, si rinuncia (si sta rinunciando, si è già rinunciato) alla funzione di “integrazione di massa”, al compito di favorire il radicamento sociale, l'acculturazione, la capacità di promozione del senso del collettivo; perché si accetta la centralità dell'individualismo; perché le istituzioni appaiono intese sempre più come “fine” e non come “mezzo”?

    Allora perché a sinistra , attraverso lo stravolgimento del concetto di “Non Violenza” si tenta di omogeneizzare , sterilizzare, appiattire le lotte sociali, rinunciando ad un progetto politico generale, o meglio trasformando la presenza nel “governo” il progetto politico generale?

    Ecco:la strumentalità evidente del dibattito sulla “Non violenza” così come questo è stato impostato in questi giorni, suscita, almeno per conto mio, questi inquietanti interrogativi, sui quali varrebbe la pena riflettere con attenzione.

    Savona, li 25 Febbraio 2006

    Franco Astengo

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