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(30 Gennaio 2012) Enzo Apicella

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(No basi, no guerre)

Baghdad, Kabul, Teheran… Dal Molin: Vicenza in guerra?

Promemoria, per chi vuol sentire (per gli altri ha ragione il proverbio: non c’è peggior sordo…)

(1 Luglio 2006)

La “nuova strategia”

Cominciamo dall’Iraq. Si parla di piani di rientro. C’è stato il cambio e la riduzione del contingente: la brigata Garibaldi al posto della Sassari, 1.600 uomini al posto di un numero circa doppio, che staranno sul posto “presumibilmente fino alla conclusione della missione, fissata entro l’autunno”, si legge in un riquadro de La Repubblica del 29 giugno. La missione citata è quella chiamata “Antica Babilonia”, iniziata nel giugno 2003, tre mesi dopo che la 173.esima Brigata aviotrasportata USA, di stanza alla caserma Ederle di Vicenza, aveva “aperto la strada” nel Kurdistan iracheno. “Il dimezzamento del contingente entro giugno era stato calendarizzato dal precedente governo” conclude il trafiletto “e mantenuto dall’attuale esecutivo”. Ma non è ancora chiaro quali siano i piani di ritiro di tutto il contingente, cioè quando finirà la nostra partecipazione a quella guerra sempre più sbagliata e tragica.

Ricordiamo che meno di un mese fa, commentando l’ultima (finora) morte di un militare italiano a Nassiriya, il Presidente Romano Prodi ha ribadito nelle aule parlamentari che “i terroristi non detteranno l’agenda del rientro”. Di quali “terroristi” stava parlando? Chi attacca un convoglio militare di un esercito di occupazione, secondo le norme di diritto internazionale, deve essere definito un “resistente” che agisce legittimamente per liberare la propria terra dagli aggressori, non un “terrorista”.

Saranno invece i terroristi istituzionali, coloro che bombardano e devastano intere regioni con armi che provocano, oltre ai morti immediati, effetti letali nel lungo periodo sulla vita e l’ambiente (uranio impoverito, fosforo bianco ecc.), coloro che imprigionano e rapiscono e torturano in nome della “democrazia e della libertà” (Abu Ghraib, Guantanamo ecc.), coloro che davanti ai consessi internazionali hanno mentito e spudoratamente ancora mentono, che detteranno l’agenda del rientro italiano?! Queste non sono invenzioni dei “soliti arrabbiati e sospettosi”. Basta leggere il titolo di un articolo de Il Giornale del 22 giugno: “Washington striglia il governo Prodi: il ritiro dall’Irak è tutto da discutere”. “Gli Stati Uniti” si legge nel testo “ hanno inviato a Roma Barbara Stephenson, deputy senior advisor del Dipartimento di Stato, esperto di pianificazione e ricostruzione, per guidare un gruppo di lavoro che dovrà incontrare gli esponenti del governo italiano. La dichiarazione della Stephenson arriva dall’ambasciata americana a Roma e non lascia dubbi, parla di una “presenza italiana in Irak” che “è stata e continua ad essere importante per il successo del processo di stabilizzazione e ricostruzione”, loda “gli esperti italiani che hanno contribuito all’avanzamento della democrazia e della libertà in Irak”, annuncia che guiderà “un gruppo misto che si incontrerà con esponenti del governo italiano per discutere queste questioni” e infine “continueremo la discussione su come meglio venire incontro ai bisogni dell’Irak”.

Nello stesso articolo si accenna anche a “l’allargamento della base Usa in quel di Vicenza. Rutelli ha spiegato” assicura ai suoi lettori Il Giornale “che la nuova base nell’aeroporto Dal Molin serve “alla rimodulazione della 173ª Airborne Brigade”, cioè, oltre al trasferimento a Vicenza anche del contingente attualmente in Germania (per arrivare a un totale di oltre 4.000 effettivi), alla sua trasformazione in Unità d’Azione, i cui uomini cioè devono essere pronti in poche ore a trasferirsi nei teatri di guerra.

Sarà bene ricordare inoltre che anche Bush e Blair desiderano convincere i loro elettori che ormai la guerra in Iraq è “quasi” vinta ed ora bisogna pensare a un’occupazione (pardon: missione) “pacifica” in quel Paese, per concentrare gli attacchi altrove. La notizia, così ben orchestrata, dell’uccisione di Al Zarkawi (l’immagine locale del “terrorismo internazionale”) è un chiaro segnale di “svolta” in questo senso. E’ altrettanto chiaro però che “l’esportazione della democrazia in Iraq” è un falso obiettivo, come già i precedenti, clamorosamente proclamati e falliti: le armi di distruzione di massa mai trovate, i presunti legami fra Saddam Hussein e Osama Bin Laden assolutamente inesistenti. I risultati reali finora raggiunti sono la frammentazione del territorio iracheno, la morte di quasi 40.000 civili vittime della guerra, conflitti interni sempre più laceranti, un crescendo di attacchi della resistenza, di massacri per rappresaglia e di azioni terroristiche degli squadroni della morte. Il fantasma nero della guerra civile fra sunniti, sciiti, curdi, aleggia ed incombe su tutto l’Iraq, manovrato dall’esperto “proconsole” John Negroponte (l’ambasciatore USA ben noto per i suoi precedenti in Honduras dove organizzava e addestrava i “contras” del Nicaragua) e dai suoi specialisti della cosiddetta “guerra a bassa intensità”.

Quanto al “disimpegno” italiano, il mese scorso il ministro degli esteri Massimo D’Alema è volato a Baghdad per prendere contatti e accordi con il governo iracheno “garantito” dalle potenze occupanti e sottoposto alla loro “tutela” - basti dire che a tutt’oggi il governo di “unità nazionale” di Al Maliki rimane privo dei fondamentali ministri degli interni, della difesa e della sicurezza nazionale -.

Dalle frammentarie notizie diffuse allora, sembrava trasparire che il “piano di ritiro” fosse in sostanziale sintonia con quanto già proposto dal governo Berlusconi e ben espresso da Antonio Martino, che nella sua ultima dichiarazione da ministro della Difesa a Nassiriya, il 17 maggio 2006 “ha ribadito il progetto destinato a ‘coprire’ con la nostra bandiera il protettorato USA sulla Mesopotamia: riduzione da 2.600 a 1.600 uomini entro giugno e a fine anno il passaggio da “Antica Babilonia” a “Nuova Babilonia” lasciando a Nassiriya circa 600 uomini” (Stefano Chiarini sul Manifesto). L’ex ministro Martino era stato molto chiaro: ““Intendo ancora una volta rassicurare le autorità irachene: noi non ce ne andiamo, non scappiamo, non ci ritiriamo. Cambia solo la natura della missione: finora è stata prevalentemente militare, dall’inizio dell’anno prossimo sarà prevalentemente civile”. In altri termini, “un semplice cambiamento di pelle””, commentava Chiarini. “La nuova missione italiana ruoterà attorno ad una micidiale miscela di “civile e militare” facente capo al Team di Ricostruzione Provinciale (PRT) di Nassiriya, costruito sul modello degli analoghi organismi messi in piedi in Afghanistan dalla NATO”.

A fine giugno, invece, sembra che questo progetto sia stato definitivamente abbandonato, ma sarà bene fare attenzione ai prossimi sviluppi, anche in relazione al polverone sollevato con la questione del rifinanziamento della missione in Afghanistan (appunto).

Scrive a questo proposito Nino Sergi, Segretario Generale di INTERSOS, in una nota indirizzata ai ministri degli Esteri e della Difesa, D'Alema e Parisi, e alla vice ministra per la Cooperazione, Sentinelli: “Abbiamo accolto con soddisfazione la decisione del Governo italiano di rinunciare alla formazione di un PRT a Nassiriya in Iraq. Non si sarebbe trattato, come è stato detto, di una missione di civili tutelata da militari, ma di una vera e propria componente della missione militare internazionale. Si sarebbe trattato inoltre di un inganno, data la decisione di uscire militarmente dall'Iraq sancita anche dal voto popolare”. I PRT, infatti, sono parte integrante della struttura militare e operano sotto il suo comando, come dimostrato dall'esperienza in Afghanistan nell'ambito dell'Operazione Enduring Freedom (OEF) per combattere il terrorismo e dell'International Security Assistence Force (ISAF) per garantire la sicurezza, alle quali il nostro Paese partecipa. Non si tratta in realtà di squadre miste di civili e militari ma di militari che svolgono, in modo strumentale e finalizzato ad obiettivi militari, compiti che dovrebbero essere svolti da civili. “Si tratta dello sviluppo di una nuova strategia dovuta al cambiamento dei teatri operativi della NATO nei nuovi contesti internazionali di crisi. Strategia che viene attuata tramite e con il supporto di una nuova struttura di comando, che va sotto il nome di CIMIC, cooperazione civile - militare”.

Dopo aver evidenziato, nel rapporto fra i due tipi di “missione” (OEF e ISAF), “la priorità data al mantenimento dell'opzione unilaterale dell'Amministrazione americana e alle “mani libere” nella guerra al terrorismo”, la nota precisa che lo scopo dei PRT “è quello di estendere l'influenza della NATO nella propria area, usando strumentalmente e subordinatamente le “attività umanitarie”(…) Capita perfino che in alcune aree dell'Afghanistan i militari si presentino alle popolazioni in abiti civili e su automezzi non identificabili come militari. Si presentano cioè come operatori umanitari, falsando così e inquinando la sfera dell'azione e dei principi umanitari.” “Da qui nasce l'ambiguità e la confusione che le ONG umanitarie hanno denunciato e continuano a denunciare, fino ad esprimere gesti estremi come decidere di rinunciare a svolgere attività nei paesi o nelle aree in cui operano i PRT.” Sergi fa appello al senso di responsabilità del governo: “Procedere solo per dovere di alleanza, in una probabile escalation militare “di contrattacco e di difesa” che potrebbe non avere limiti prevedibili, (…) potrebbe portare ad una dolorosa e catastrofica fine. A pagarne le conseguenze sarebbe, ancora una volta e prima di tutti, la popolazione afgana.”.

(da www.vita.it articolo Afghanistan: civile funzionale al militare? - si veda anche www.osservatorioiraq.it).

In buona sostanza, in ambito NATO si sta mettendo a punto una nuova polizia internazionale, col compito di proseguire il “lavoro” svolto dalle truppe d’occupazione, a difesa del dominio strategico e della rapina economica mondiale da parte delle potenze alleate USA ed (in subordine) europee, ma presentandola come agenzia di “peace keeping” e di “cooperazione allo sviluppo”- col doppio vantaggio (se il trucco riesce) di tranquillizzare le false coscienze pacifiste, smorzando le mobilitazioni di sostegno alla resistenza, nonché di scaricare sui “ribelli” locali tutte le responsabilità della violenza “terroristica” e consolidare il potere dei capi “amici”. Ma perché il piano riesca bisogna usare personale specializzato (operatori e spie), “incapsulare” nella struttura militare (mascherata da civile) le ONG disponibili e sbarazzarsi di quelle troppo “indipendenti”. I “banchi di prova” sono, per ora, l’Afghanistan e l’Iraq. In Europa l’addestramento a questi nuovi compiti internazionali di “controllo e collaborazione” (in realtà di “intelligence” e “sicurezza”) a quanto pare è affidato alle strutture della “Gendarmeria europea”, il cui comando è stato posto a Vicenza.

“Non scappiamo”, ha detto l’ex ministro della Difesa Martino. Così si è espresso il 6 giugno 2006 anche il neo segretario del Partito della Rifondazione Comunista, Franco Giordano: “Non si vuole abbandonare l’Iraq, ma oggi vanno pensati interventi civili concertati con tutta la comunità internazionale”. Una convergenza per nulla rassicurante! Questi sono anche i progetti di politica estera espressi dall’attuale ministro D’Alema, in sintonia col programma elettorale dell’Unione. Il “cambiamento di strategia” politica e militare dell’Italia nello scacchiere asiatico (sempre più instabile) sembra dunque tutto qui: camuffare da “missioni di pace” (meglio di quanto si sia fatto finora) i contingenti di sostegno alle occupazioni, a guardia delle risorse e delle vie di collegamento strategiche, sotto l’indiscussa egemonia USA (anche se con maggiori legami coi partner dell’area Euro). Se per ora ciò è difficile in Iraq (per mancanza di copertura diretta ONU – NATO) è invece obbligatorio in Afghanistan. Le truppe italiane, senza nemmeno più quelli che gli esperti militari chiamano “requisiti minimi di sicurezza” (sostituiti da addestramenti “in stile Negroponte”) saranno sempre più coinvolte in conflitti “fuori controllo”, oltre che del tutto fuori dalla nostra Costituzione!
Al rifinanziamento della “missione” militare in Afghanistan hanno annunciato il loro voto favorevole tutti i gruppi parlamentari del centrosinistra, compresi Verdi, PDCI e PRC – al di là delle “sceneggiate” che in questi giorni continuano ad animare le pagine dei giornali e i TG in cerca di “scoop” parlamentari. Ci ha pensato il neo presidente della Camera Bertinotti a rassicurare i camalli di Genova e tutti i “compagni col mal di pancia”, con una frase tanto sibillina nella forma quanto univoca nel contenuto: “I militari svolgono una funzione che la Costituzione prevede sia di pace” lasciando “le scelte sulle missioni ai partiti e alla maggioranza”. Una elegante ma falsa deduzione - la maggioranza parlamentare è costituzionale, la Costituzione non prevede la guerra, “dunque” le missioni militari decise in Parlamento non sono di guerra!! - con la quale da un lato egli aggira lo stesso articolo 11 della Costituzione, mentre dall’altro dichiara l’inutilità del movimento contro la guerra, che è stato uno dei suoi “trampolini di lancio”. Povero Fausto! Il “realismo politico” continua a mietere vittime illustri fra gli ex comunisti.

Quanto alla prossima prevedibile “missione NATO per la sicurezza internazionale” a cui l’Italia sarà chiamata a partecipare con gli alleati europei, al seguito degli interessi imperiali degli Stati Uniti (non certo disposti a rinunciare alla loro leadership assoluta), ci affidiamo a un “guru” italiano della geopolitica: Lucio Caracciolo. Su La Repubblica del 29 giugno egli afferma senza mezzi termini che “ora tocca all’Iran”, dove l’Italia ha molti più interessi diretti che in Afghanistan (è il primo importatore e il secondo esportatore europeo) e dove è possibile tentare (secondo il nostro stratega) di svolgere un ruolo più “autonomo” accanto alla Germania. Caracciolo consiglia caldamente (al governo Prodi) un intervento “attivo e intelligente” delle “forze di pace” italiane in quel Paese, facendo esplicito riferimento (guarda caso) ai PRT, ma lasciando nel vago le motivazioni che renderebbero così importante tale intervento. Non sarà perché il regime di Ahmadinejad è nel mirino di Bush, più che per i progetti nucleari e per le affermazioni più o meno bellicose nei confronti di Israele, per l’annunciata apertura al pagamento in Euro del mercato petrolifero persiano?…

Comunque, per venire a noi, è chiaro che il ruolo attuale della NATO in Europa (come nel resto del mondo) è di garantire la stabilità nell’alleanza per il dominio globale fra l’UE e gli USA, con l’egemonia di questi ultimi. In questo senso vanno intese le affermazioni della Casa Bianca: “la Nato, come garante della sicurezza europea, deve svolgere un ruolo dirigente nel promuovere una Europa più integrata e sicura”. Le forze armate dei Paesi europei partecipano attivamente alla costituzione dei suoi reparti stanziali e dei contingenti nelle “missioni” congiunte (l’Italia è al secondo posto). Ma al governo degli Stati Uniti d’America tutto ciò non basta. Infatti, per contribuire alla stabilità Europea, per sostenere i vitali legami transatlantici, e per conservare il loro predominio, gli Stati Uniti devono mantenere direttamente in Europa quasi 100.000 militari in basi opportunamente dislocate, collegate fra loro da “corridoi” che consentano spostamenti ad “Alta Velocità”.

Le forze armate statunitensi sono in una fase di ridislocazione dall’Europa settentrionale e centrale a quella orientale e meridionale, e quindi le basi USA e Nato in Italia sono in uno stadio di ristrutturazione e potenziamento della loro funzione di trampolino per la “proiezione di potenza” dell’impero americano verso gli Stati dell’Africa e dell’Asia da cui proverrebbe (secondo la propaganda e il quadro delle provocazioni) il fantomatico “nemico globale” (il cosiddetto “terrorismo internazionale”).

Il rapporto ufficiale del Pentagono “Base Structure Report “ del 2003 descrive nei dettagli le dimensioni della presenza militare statunitense nel nostro Paese: l’esercito USA possiede in Italia oltre 2.000 edifici su una superficie di più di un milione di metri quadrati e ha in affitto circa 1.100 edifici, con una superficie di 780 mila metri quadrati. Il personale si aggira sulle 20.000 unità, fra 16.000 militari e 4.000 civili.

L’Aeronautica USA ha base soprattutto ad Aviano (Pordenone, Friuli-Venezia Giulia). In questa base sono depositati ordigni nucleari di tipo convenzionale, e il nostro governo dovrebbe imporre il loro smantellamento, ma non lo fa e non ci sono positive prospettive a riguardo, e vi sono schierate la 31.esima Fighter Wing e la 16.esima Air Force, con in dotazione i caccia F-16 e F-15. Da Aviano vengono pianificate e condotte operazioni di combattimento aereo anche in Medio Oriente.

La Marina USA ha trasferito il suo quartier generale in Europa da Londra a Napoli, con area di responsabilità che comprende i tre continenti Europa, Asia ed Africa, il Mar Nero e il Mar d’Azov, su cui si affaccia la Russia. La Marina statunitense ha una base aeronavale a Sigonella e una alla Maddalena, base di appoggio per i sottomarini di attacco nucleare (oggi ufficialmente in via di smantellamento).

A Taranto esiste il quartier generale della High Readiness Force Maritime, una forza marittima di rapido spiegamento inserita nella catena di comando del Pentagono. Sempre a Taranto è presente un centro di comando e di intelligence del Pentagono, un centro della marina USA per la “inter-operabilità dei sistemi tattici”, nodo dei sistemi di comando, controllo, comunicazioni, e spionaggio. Sembra previsto un ulteriore potenziamento della base di Taranto.

L’Esercito USA ha proprie basi in Toscana e in Veneto. A Camp Darby, presso Livorno, vi è la base logistica di rifornimenti per le forze terrestri e aeree impegnate nelle zone del Mediterraneo e del Medio Oriente. A Vicenza, alla Caserma Ederle è stanziata la 173.esima Brigata aviotrasportata. Tutte queste forze e basi statunitensi, pur essendo in territorio italiano, sono inserite nella catena di comando del Pentagono e quindi sottratte a qualsiasi meccanismo decisionale italiano. Da mezzo secolo siamo un Paese a sovranità limitata!

Che succede a Vicenza?

Come abbiamo visto, Vicenza è al centro dei progetti di ristrutturazione delle forze USA e NATO in Europa. In particolare, il settore civile dell’aeroporto “Dal Molin” è in procinto di passare sotto il controllo delle forze armate statunitensi, che hanno già pronto il progetto di costruzione di abitazioni, uffici e magazzini per trasferirvi le attività di circa 2000 miltari che si aggiungeranno a quelli già di stanza alla caserma Ederle (con rispettive famiglie), in una città di 100.000 abitanti già con gravi problemi di “assedio” da parte dei comuni del circondario e di inquinamento da traffico.

Una enorme colata di cemento, che coprirebbe anche l’attuale campo di rugby, su una superficie di quasi mezzo milione di metri quadri e una cubatura calcolata di circa 600.000 metri cubi, sfondando tutti i parametri previsti dall’attuale regolamento urbanistico cittadino.

Una stima approssimativa, di fonte Setaf, degli stanziamenti necessari a costruire il nuovo complesso militare e le strutture complementari (abitazioni e uffici) è pari a circa 800 milioni di dollari.

Questo progetto, che l’amministrazione locale ha tenuto riservato per quasi due anni (alla cittadinanza sono giunte solo indiscrezioni sulla stampa, e le risposte a interrogazioni sia locali che nazionali erano reticenti, fino a quando le stesse autorità americane hanno dato notizie più dettagliate) avrebbe un impatto devastante in termini sociali, ambientali e di sicurezza, in un territorio che vede già una consistente presenza di presidi militari.

Inoltre il governo Usa corrisponderebbe una cifra di circa 40 milioni di euro al Comune di Vicenza, che dovrebbe essere utilizzata per opere di viabilità, in particolare per il prolungamento di via Moro, in modo da collegare funzionalmente il “Dal Molin” alla caserma Ederle. Una manna per il sindaco Hüllweck (forzitaliota, grande amico di Berlusconi) e per l’assessore alla viabilità Cicero (AN), ma non per i cittadini di Vicenza, che se il progetto andrà in porto si vedranno circondati da una cintura di traffico militare che da est (Ederle), passando a nord (Dal Molin) andrebbe a ovest (scalo ferroviario) per chiudersi a sud con le già esistenti ferrovia e autostrada, per non parlare della prevista galleria di venti chilometri sotto i colli Berici per l’Alta Velocità - il famoso “corridoio 5”, anch’esso forse più d’interesse militare che commerciale, oltre che di enorme impatto ambientale a spese dei contribuenti (ma a vantaggio degli speculatori sulle “grandi opere”).

Ma perché proprio Vicenza?
“Vicenza is the right place”. Vicenza è il posto giusto, dicono gli americani, per sviluppare le loro infrastrutture militari. Così la pensa Jason Kamiya, generale a due stelle, che ha fatto visita al sindaco Enrico Hüllweck il 30 maggio 2006, preoccupato delle polemiche politiche seguite alla fuga di notizie [sic!] dei giorni precedenti.

Evidentemente il contesto di Vicenza, un contesto dove “il dollaro” è sempre stato apprezzato dalla piccola borghesia artigiana, commerciale e dei servizi che prevale in città, con orientamento tradizionalmente moderato e ‘centrista’, deve far sentire gli statunitensi assai sicuri, come a casa loro, per concentrare in quest’area tante loro attività e tanta logistica. Così, in un clima di sostanziale indifferenza (a volte di simpatia, magari motivata da piccoli interessi di bottega), capita che gli Americani non solo restano, anzi raddoppiano la loro presenza, provocando bensì le sacrosante proteste dei cittadini dei quartieri limitrofi, riuniti in comitati che hanno raccolto oltre un migliaio di firme. Ma fa fatica a generalizzarsi quella indignazione che altrove sarebbe più probabilmente sorta e scoppiata al motto “not in my name”. In certi ambienti vicentini sembra ancora prevalere una logica del tipo “non nel mio giardino”: non vogliamo nuove caserme sotto casa al posto del campo di rugby, ma per il resto potete andare tranquilli a fare i vostri massacri nel grande Medio Oriente.

Tanto a noi che ci frega: abbiamo lo spritz!
Non si tratta insomma solo di evitare un enorme impatto ambientale imposto da accordi fra autorità militari e governi più o meno “amici”, che passano arrogantemente sopra la testa (e sulla pelle) dei cittadini), ma di cominciare anche ad invertire il percorso che “per qualche dollaro in più” (sporco e maledetto) sta portando Vicenza a vendersi completamente alle logiche della guerra globale.

Ora la formalizzazione dell’accordo spetta al governo Prodi, che incontrerà la autorità militari americane il 5 e 6 luglio. L’Osservatorio contro le servitù militari di Vicenza da mesi sta lavorando per proporre questi temi in modo organico e approfondito sia a livello locale che nazionale: ha sollecitato l’interrogazione del senatore Bulgarelli (Verdi), ha mandato una petizione al Presidente del Consiglio Prodi, ha organizzato la presenza critica al Consiglio comunale che si è svolto sul tema, ed ha seguito con interesse le iniziative dei comitati, invitando tutti (nell’assemblea del 25 giugno a Festambiente) a partecipare al sit-in di mercoledì 5, alle ore 18.30, davanti all’ingresso dell’aeroporto Dal Molin in via S. Antonino. Ciò non appare in alternativa, ma a sostegno delle altre iniziative dei comitati, ai quali l’Osservatorio propone solo di allargare e approfondire questa tematica fondamentale per tutti.

Questo documento è stato scritto autonomamente da Paolo Consolaro, che intende con esso dare un contributo personale al tema e alla mobilitazione (sulla base di materiali forniti da Curzio Bettio, dall’Osservatorio contro le servitù militari e dai comitati contro la militarizzazione USA del “Dal Molin).

Vicenza, 1 luglio 2006.

Paolo Consolaro

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