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Lidia Menapace tenta di spiegare perche' ha votato per il rifinanziamento

Ovvero quando "la politica di pace" consisterebbe nel votare a favore della guerra

(4 Agosto 2006)

Ho votato sì al rifinanziamento della missione afgana. Non intendo difendermi né scusarmi, ho deciso in piena libertà, né avrei potuto farlo in altra forma. Non giudico chi ha deciso in altro modo o con altra procedura, mi limito a riscrivere quello che ho detto nella mia dichiarazione di voto al Senato qualche giorno fa. Credo che valga anche per quanto di atroce sta accadendo in Medio Oriente.

Premetto che a me era già capitato di trovarmi in grande dissenso con ciò che era stato proposto dal governo per l’appunto sulle dichiarazioni iniziali, quelle sulle quali la fiducia è d’obbligo: la proposta di Prodi e poi la formazione invece del governo con poche donne e quasi tutte senza portafoglio. Abbiamo fatto subito assemblee a Milano, Roma e Napoli: a Roma ero presente e avevo dichiarato che avendo chiesto di poter intervenire nel dibattito generale avrei «parlato contro, ma votato a favore». Perché nell’accettare la candidatura mi ero impegnata a cacciare Berlusconi e a impedirne il ritorno e ciò si faceva con una coalizione composita nella quale la sinistra era ed è minoranza. Ho chiesto a compagni che stanno nelle varie commissioni di presentare in seguito proteste-proposte sul tema della rappresentanza delle donne: non so se l’abbiano mai fatto, su questi argomenti il silenzio è generale dato che il patriarcato è anche e solidamente a sinistra.

Ero e sono convinta che nell’epoca della complessità e col sistema maggioritario la coalizione è una forma quasi obbligata, sicché per me l’altro vincolo è di mantenere, sostenere e rendere abituale il metodo del consenso per affrontare i vari problemi. Un vincolo quasi “a prescindere”, poiché altrimenti la sinistra viene subito messa in minoranza e lasciata ai margini e il governo si ritrova con un’altra maggioranza più a destra.
Nel dissenso bisogna discutere tenacemente e premere di continuo, se è possibile non dividendosi tra chi è più “qualcosa” di altri, a partire da decisioni che indichino un qualche mutamento di indirizzo. Una cosa defatigante, ma a mio parere obbligata, come fa il ministro Ferrero. Inoltre delle varie forme per costruire la volontà politica il metodo del consenso è certo il più democratico, libero e liberante. Bisogna addestrarsi ad usarlo. Personalmente non amo chi chiede la fiducia per acconciarsi a votare qualcosa che non condivide nel profondo ma non giudico chi ha scelto questa modalità, che tuttavia non può essere invocata troppo di frequente senza avere un sapore un po’ ricattatorio e l’effetto di indebolire il governo.

Per quanto mi riguarda il mio voto l’ho dato con piena coscienza, responsabilità e libertà. Certamente non con gioia poiché la materia è grave ed è molto inquietante. Una significativa novità nella politica della Difesa e di conseguenza nella politica estera sono state le dichiarazioni del ministro Parisi alla Commissione Difesa, che con un’ampia esposizione ha disegnato un concetto di difesa molto politico e non esclusivamente militare e questo, come è stato rilevato già da altri senatori del nostro gruppo, è un mutamento significativo: preferisco usare il termine “mutamento”, che discontinuità, come già ha fatto un paio di giorni fa il ministro Visco, a proposito del decreto Bersani. Sul mutamento introdotto dal ministro in carica si può e si deve lavorare per rientrare da una politica estera e della difesa di timbro militarista e del tutto subalterna al governo Usa, come pure introdurre il soggetto Europa: il contrario di ciò che ha perseguito per cinque anni il governo Berlusconi.

Non sono certo necessari sondaggi per sapere che i popoli non amano la guerra; è una vicenda secolare di rifiuto, a partire dall’antichità e sintetizzata nella giaculatoria cristiana: «A peste fame et bello libera nos, Domine»; e l’autolesionismo per sottrarsi alla leva in tempo di guerra è stato praticato nella prima e nella seconda guerra mondiale, pur di non andarci. La questione non è dunque quanti dicano di volere la fine della spedizione in Afghanistan e altrove: la questione è capire come si può rendere efficace tale desiderio, quando non ci sono numeri sufficienti ed esistono vincoli internazionali che ostacolano tale decisione: come si fa dunque a rendere efficace questa propensione dei popoli, che poi le guerre le fanno sempre?

Qui soccorre la differenza tra “pace” e “politica di pace”. Pace non è né pacifismo, né irenismo, né un nobile ideale, né un anelito dell’anima. E’ anche tutte queste cose, ma quando diventa “politica di pace”, deve prima di tutto essere una politica, cioè una azione pratica, inserirsi nei contesti, coinvolgersi criticamente con le possibilità date, costruirne di nuove, e così formare una cultura politica, una nuova cultura politica: se si pensa che di pace non esiste nemmeno nel diritto internazionale una definizione giuridica e che si chiama pace l’interruzione o la sospensione dei conflitti armati, quasi ancora, come in Roma antica la chiusura o apertura del tempio di Giano, si converrà che il lavoro da fare è molto. Concreto, preciso, non vago ed emotivo.

Resta sennò sempre senza risposta l’anelito dei popoli alla pace, resta senza risposta la domanda di Cindy Sheenan a Bush: «Per quale nobile causa ha dovuto morire mio figlio?». Se non sapremo rispondere a questa domanda, non serviranno le nostre gridate dichiarazioni, decisioni, testimonianze. Nel movimento per la pace si chiama “politica di pace” quella che è capace di gestire e governare i conflitti attraverso il metodo dell’azione non violenta. “Azione” nonviolenta, dico e non nonviolenza, opzione filosofica con carattere di assolutezza e spesso non agibile.

Una politica di pace è una positiva azione per bloccare, far recedere, fermare, sottrarre “ragioni” ai conflitti armati, per trasformarli in conflitti politici, diplomatici, culturali, economici, appunto con il metodo paziente tenace sperimentale dell’azione nonviolenta. L’azione nonviolenta chiede formazione, metodi addestramento: si tratta di una vera politica.

Ma il fatto più impegnativo che è necessario affrontare è come gestire una mastodontica residualità, quella della guerra, uno strumento orribile e inefficace, che non risolve anzi aggrava qualsiasi questione affronti, essendo come ben dice una costituzione del Vaticano iI “alienum a ratione”: si converrà che definire “extrema ratio” una cosa che si è appena definita “fuori di testa” è una bella e irrisolvibile aporia.

Si rifletta sul fatto che dopo la seconda guerra mondiale nessun esercito regolare ha mai più vinto una guerra, francesi e Usa hanno perso in Vietnam, la Francia poi in Algeria, l’Urss in Afghanistan, il padre Bush nella prima guerra del Golfo, il figlio benché abbia unilateralmente dichiarato di aver vinto in Iraq e in Afghanistan non è ancora riuscito a cavarne i piedi vittorioso; e Israele, dotato di uno dei più potenti, addestrati e motivati eserciti del mondo, non può venire a capo dei popoli che lo circondano e non può con tutta evidenza affidare la sua sopravvivenza alle armi, ma solo alla difficile, graduale, tenace politica di pace tra due stati e due popoli.

Dopo l’atomica che rende impossibile qualsiasi “risarcimento”, che il diritto internazionale chiede per definire una guerra “giusta” in tutto, non solo nelle sue eventuali motivazioni (resistenza a una occupazione, invasione ecc.), la guerra non può più avere alcuna legittimità. Affrontare quest’ordine di problemi riempie la politica estera e della difesa di contenuti che ci sovrastano a uno a uno e tutti insieme. Non si può perdere nemmeno un minuto in vicende personalistiche, affermazioni di sé, proclamazione di nobili principi che non sono accompagnati da nessuna procedura di esecuzione: bisogna darsi da fare per tentativi ed errori.

articolo pubblicato su Liberazione del 2 agosto

Lidia Menapace

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