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L'Italia torna tra i grandi

(27 Agosto 2006)

“l'Italia torna tra i grandi”: il titolo di apertura della prima pagina odierna di “Repubblica” non si riferisce al calcio, o a qualche altra specialità sportiva.

Si tratta, invece, di una frase di Romano Prodi a commento del ruolo che il nostro Paese sta assumendo rispetto alla spedizione militare in Libano: la cosiddetta “forza di interposizione di pace”, a favore della quale una parte del movimento pacifista ha manifestato ieri, ad Assisi, all'insegna dello slogan “Forza Onu”.

Ecco: senza aver paura di parlar male di Garibaldi è proprio quell' “L'Italia torna tra i grandi” che ci da, pienamente e molto semplicemente, la ragione di fondo per la quale deve essere aperta, nella sinistra italiana, una nuova dimensione di dialettica politica.

Francamente a noi non interessa sostenere un governo il cui scopo è quello di far ritornare “l'Italia tra i grandi”, investendo nelle missioni militari, preparando liberalizzazioni, impostando una finanziaria da 35 miliardi che conterrà tagli alle pensioni, alla sanità, al welfare.

A quale prezzo l'”Italia torna tra i grandi”? E, poi, “quali grandi”? Allineata verso quale meccanismo di dominio internazionale? Davvero, alla prova dei fatti, si ravvedono i termini di una diversa politica internazionale e, poi, cosa significa multilateralismo in una situazione come questa, dominata dalla superpotenza e dalla sua “guerra preventiva” finalizzata all'esportazione di civiltà?

Non si tratta di domande retoriche: davvero vorremmo che, a sinistra, fra chi appoggia questo governo con un atteggiamento “senza se e senza ma”, ed anzi, con lo zelo classico dei neofiti, corre a tappare i buchi delle smagliature prodotte da rigurgiti di incultura o da accenni pallidamente critici, si aprisse una riflessione.

Una riflessione prima di tutto volta ad analizzare tutti i guasti che l'assunzione del modello proposto da una destra populista, razzista, presidenzialista, ha prodotto nel corso di questi anni: un modello che si è introiettato, insinuato, fino a condizionare fortemente tutta la realtà politica e sociale; un modello, al riguardo del quale come fu già nel corso della precedente esperienza di centrosinistra culminata nella partecipazione alla guerra in Kosovo, non si è stati in grado di proporre nulla di alternativo.

Non ci interessa, sul serio, che l'”Italia torni tra i grandi”: ci interessano le condizioni materiali di vita della gente che suda il proprio lavoro oppure ne cerca in forme non umilianti e di completa soggezione alla volontà del padrone; ci interessa una economia vincolata al servizio dell'interesse generale; ci interessa uno stato sociale che davvero risolva i problemi quotidiani della sanità, della scuola, dei servizi pubblici e sia uno stato sociale universalistico, capace di offrire a tutti una piattaforma di vita; ci interessa una politica non limitata alla ricerca della governabilità e confinata nella logica degli schieramenti pre-costituiti, ma consenta di rappresentare tutta la complessità sociale, fornendo ai ceti più deboli progetto, speranza, voce perché si riesca a farsi ascoltare.

Comprendo benissimo che ci si può accusare, sostenendo queste tesi, di faciloneria, di rifiuto della responsabilità di governo, fino all'accusa più dura: quella di irriducibile massimalismo.

Proprio questo è il punto: si tratta di massimalismo schierarsi da un certa parte, che rifiuta i meccanismi di inglobamento nel sistema, pensa ad una prospettiva di profonda trasformazione della società nel senso dell'eguaglianza e della solidarietà e pretende di esportare questo processo di trasformazione verso tutti i popoli e chiede di risolvere le grandi questioni internazionali, a partire da quella palestinese (tanto per fare un solo esempio, che però ci brucia sulla punta della lingua) attraverso i popoli e non attraverso le logiche dei governi e dei loro scambi di potere.

A questo modo non ci si pone, a mio avviso, ai margini della società e della politica, come qualcuno ha tentato di dire nei mesi scorsi: si sta fuori, questo sì, dalla “logica dei grandi”, ma ci si colloca per intero nel grande contesto storico della liberazione degli oppressi che ha caratterizzato oltre un secolo di grandi battaglie per il riscatto sociale, la pace, l'anticolonialismo.

Vogliamo riprendere un lessico antico, che pure ci è abituale, vogliamo pensare davvero ad una prospettiva che non può e non deve essere chiamata diversamente dall'usato appellativo di socialismo.

Qualcuno non può limitarsi a fare il “guardiano del faro” dell'aggressività capitalistica pensando, in via minimale e con il beneficio del dubbio dell'onestà intellettuale, di “temperare” i danni del neo-darwinismo sociale imposto dalle logiche neoliberiste che, fin dagli anni'80, hanno esasperato il percorso di quella che è stata chiamata globalizzazione.

Non servono movimenti fiancheggiatori di “governi amici”: serve una dialettica politica vera, un confronto a sinistra basato sulle grandi coordinate che – come ho cercato di descrivere prima – si misuri con le luci e le ombre della nostra Storia.

Questo significa raccogliere una sinistra coerente con le proprie idee, schierata a fianco dei popoli e non dei governi, una sinistra che intende percorrere il lungo cammino della trasformazione della società: sapendo che la palingenesi non arriverà all'improvviso, non ci sarà la spallata finale, ma consapevole anche che, nel difficile itinerario che ci separa dalla riapertura di un processo di transizione non possono essere possibili scarti dalla nostra esperienza, dai nostri saperi, dalla nostra storia.

In Italia, paese crocevia davvero strategico in questo momento, manca un soggetto di questo tipo: il centrosinistra militarista oggi al governo è intriso di antipolitica, di negativa ideologia della crisi. Antipolitica e ideologia della crisi, questa è la sostanza della realtà odierna che si verifica analizzando con attenzione anche ciò che scrivono i principali ideologi della realtà del centrosinistra italiano e la prospettiva stessa della costruzione del Partito Democratico.

Serve costruire, subito e senza indugio, badando alle nostre differenze ma anche ricercando livelli superiori di sintesi, qualcosa di profondamente diverso.

Si tratta, insomma, di costruire (ri-costruire) un soggetto provvisto di memoria, identità, futuro collegato alla realtà storica di una sinistra che non intende abbandonare la sua vocazione al radicale mutamento nello stato delle cose presenti.

Savona, li 27 Agosto 2006

Franco Astengo

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