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    Autonomia del politico e disgregazione sociale

    (12 Novembre 2006)

    Molti commenti giornalistici si soffermano, oggi, sulle (inaccettabili?) dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio circa” un paese impazzito che non pensa al suo futuro” e alla “ferocia contro i tagli previsti dalla finanziaria”.

    In questi commenti, però, raramente si arriva a sfiorare l'essenza del problema che emerge, non tanto da queste dichiarazioni, quanto dal complesso della situazione politica , economica, sociale, così come questa si presenta nella fase attuale.

    Si passa dalla contestazione feroce e propagandistica dell'impresentabile centrodestra, allo sconcerto di alcuni alleati, alla consueta afasia “da sinistra” i cui esponenti ,davvero,continuano a far mostra di una complessiva incapacità nel comprendere dove ci troviamo.

    La difficoltà vera che il governo di centrosinistra italiano incontra non sta sicuramente nella sua propria incapacità di comunicazione , o nell'eccessiva “vastità” nell'espressione della capacità coalizionale, ma negli elementi costitutivi dei suoi riferimenti politico – economici, nell'indeterminatezza complessiva delle sue scelte, nell'analisi sbagliata circa la possibilità di poter coniugare un quadro integralmente liberista con la prospettiva di una “maggiore socialità” (come scrive, davvero con molta presunzione, Mario Monti sul “Corriera della Sera”).

    L'ipotesi liberal – socialista (come è tornata a definirla Amato, parlando della prospettiva del Partito Democratico) non va bene, non tanto e non solo per motivi “ideologici”, ma proprio perché del tutto inadatta alla contingenza politico – sociale che stiamo attraversando: non regge alla prova dell'analisi.

    Tornando alle parole di Prodi, infatti, non è il “Paese che è impazzito”, ma siamo di fronte al frutto di scelte ben precise , di fondo, che hanno accomunato gli schieramenti principali: la prima è stata quella dell'autonomia del politico, della distruzione della rappresentanza, della fine dei riferimenti sociali da parte della soggettività politica, della concezione della “governabilità” quale fine ultimo dell'agire politico; in conseguenza di ciò le scelte di carattere economico – sociale sono state demandate ad una tecnocrazia cresciuta nell'ambito della scuola monetarista, il cui esempio più evidente è rappresentato dall'elaborazione dei parametri di Maastricht.

    Sarebbero tanti gli esempi da svolgere per illustrare ciò che è stato prodotto da questo stato di cose, che si sta protraendo almeno dagli inizi degli anni' 90 ( quando, cioè, la fine dei sistemi dell'Est europeo fu scambiata come “la fine della storia” ed il “trionfo del mercato”).

    Si è così impresso un andamento socio – economico frutto del connubio “autonomia del politico” e “tecnocrazia” che ha puntato diritto alla distruzione del mondo del lavoro, alla disgregazione sociale, al trionfo dell'individualismo consumistico.

    Adesso siamo seduti sulle macerie di questa azione portata avanti dal grande “establishment” a livello internazionale, in collegamento con l'idea della guerra quale strumento decisivo per l'esportazione della democrazia: una linea, quest'ultima, accettata di fatto dai vari “partiti democratici” o “Grosskoalition” in circolazione.

    Non basta, però, l'opposizione condotta in nome di una rinnovata condizione di classe (che pure emerge, senza dubbio) e da una intransigenza sui grandi temi di principio che sempre hanno distinto la destra dalla sinistra e che, adesso, paiono del tutto dimenticati.

    Serve, prima di tutto, comprendere che il quadro complessivo (mi ripeto, ma credo sia utile) è totalmente liberista e che occorre una proposta alternativa per definirne una uscita, cercando la costruzione di una soggettività politica adeguata che si ponga come “alternativa” e non “complementare” (come mi pare si collochi, invece, la proposta di Sinistra Europea).

    Questa soggettività alternativa deve riprendere in mano alcune bandiere della sinistra “classica” (vale, insomma, il riadattamento dell'antico slogan del “riprendere dal fango, le bandiere fatte cadere della borghesia).

    Proprio ieri, ad esempio, sulle colonne del “Manifesto” due economisti (Bellofiore e Garibaldo) delineavano un quadro possibile, praticabile, concreto, di questa alternativa, elaborando sei punti che qui non riassumo per economia del discorso, ricordando soltanto la”cornice” rappresentata dall'intervento pubblico in economia, svolto in funzione della grande domanda sociale.

    Una politica intesa come rappresentanza della domanda sociale e la proposta di adeguate soluzioni portate avanti, in una visione universalistica del rapporto bisogni/diritti, dall'intervento dello Stato, potrebbe già rappresentare una prima piattaforma sulla quale ragionare nell'immediato futuro: insomma, il guasto più grave che una determinata concezione dell'autonomia del politico ha prodotto è stato quello della disgregazione sociale, cui è possibile contrapporsi, oggi come oggi, soltanto attraverso una adeguata proposta alternativa, concedendo uno spazio adeguato, ma non esaustivo, alla immediatezza dei nuovi movimenti sociali.

    Una annotazione finale, magari non del tutto coerente con l'impianto analitico del ragionamento fin qui portato avanti, e riguardante il ministro dell'economia Padoa – Schioppa, il quale, sempre sui giornali di oggi, paragona sé stesso a Quintino Sella (“economia fino all'osso”) presentandolo come un modello di virtù.

    Vale la pena di ricordare, a tutti e a Padoa -Schioppa in particolare, che “l'economia fino all'osso” ridusse drasticamente le già misere condizioni di vita delle classi subalterne in Italia, nella fase di stentato avvio della rivoluzione industriale, aprendo la strada alle avventure coloniali, all'ingrassamento dei pescecani finanziari (Banca Romana, tanto per intenderci) e alle cannonate di Bava Beccaris.

    Il tutto a futura memoria.

    Savona, li 12 Novembre 2006

    Franco Astengo

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