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Vecchio colonialismo e nuovo sottosviluppo

Intervento al Convegno di Torino sul Colonialismo Italiano "Italiani brava gente"

(15 Novembre 2006)

Intervento di Silvio Serino (collettivo RED LINK) svolto al Convegno di Torino (10, 11 e 12 novembre) “Italiani brava gente”

LA CENTRALITA’ DEL PROBLEMA.

Il tema del colonialismo è importante almeno per due motivi. Il primo riguarda il passato e serve a dimostrare che l’eurocentrismo, in tutte le sue metamorfosi, oltre che essere una manifestazione di razzismo, è anche assolutamente infondato. Un’analisi accurata del tempo storico, in cui venne ad emergere la supremazia dell’Europa occidentale, dimostra ampiamente che l’origine di tale supremazia non precedeva, ma aveva inizio proprio con conquista dell’America. Per di più, tale conquista non solo si pone con la sua imprevedibilità e casualità in un rapporto di netta discontinuità anche con gli avanzamenti dell’Umanesimo (per lo più di tipo artistico e culturale, secondo Eugenio Garin), ma è il risultato di un vero e proprio inedito storico: l’esposizione, senza limiti, di una popolazione alle malattie europee, che uno storico ha definito i veri battaglioni della morte.

Il secondo motivo riguarda il presente. Lo riguarda perché la convinzione, a volte anche inconscia, che l’attuale supremazia sia dovuta a meriti endogeni dell’Europa (e ora dell’Occidente) e che le popolazioni delle cosiddette periferie si ribellino alle “nostre” aggressioni per motivi reazionari, rallenta la mobilitazione di massa contro tali aggressioni. In alcuni casi, anche nella sinistra più antagonista induce posizioni indifferentiste, suffragate in prima battuta dalla presenza dei vari dittatori o di fanatismo religioso all’interno delle resistenze, ma in buona sostanza alimentate da un’analisi di classe sprezzante proprio verso soggetti sociali non del tutti simili a quel famoso operaio tedesco, sindacalizzato, istruito, disciplinato e….preparato a pagare regolarmente il biglietto del tram per recarsi sul luogo della rivoluzione.

L’ulteriore importanza del tema in riferimento al presente la possiamo ricavare riflettendo sulla Cina. E’ evidente che la Cina non è una colonia e non lo è stata neppure all’epoca dei porti franchi a seguito delle guerre per l’oppio. Tuttavia, finita ai margini nel corso del 1800, verso la fine degli anni Settanta del XX crede di poter realizzare il catching up con l’Occidente privatizzando e aprendosi agli investitori internazionali; ma, dopo circa 30 anni di capitalismo liberista, il suo reddito medio è di 1040 dollari l’anno, circa 87 mensili. Analizzando questi dati, che pongono al Cina al 104° posto nella graduatoria del benessere mondiale, ci rendiamo conto che il capitalismo della costa -che si avvicinerebbe agli standard occidentali (nel senso che incominciano a intravedere quelli della Grecia)- si è sviluppato grazie agli investimenti internazionali che hanno richiesto il più basso costo possibile della forza lavoro e provocato pesanti inquinamenti e catastrofi ambientali. Un’operazione del genere però ha richiesto, in modo del tutto funzionale, un vero e proprio sottosviluppo interno caratterizzato da una sovrappopolazione rurale di circa 800 milioni di persone: un sottosviluppo come vero e proprio hub dello sviluppo della Cina blu e della tenuta del mercato mondiale. Nella regione del Gansu il reddito medio mensile è di 48 dollari, tanto per dare un’idea che meglio chiarisce le rutilanti e imponenti statistiche quantitative.

Naturalmente, la Cina con la potenza del numero può risalire la china e sta cercando di farlo. In tale direzione si sta discutendo vivacemente. C’è chi prospetta il superamento del sottosviluppo allargando il mercato interno e aumentando perfino i salari, anche per evitare il pericolo di quelle imponenti insorgenze sociali di cui la Cina è stata spessissimo teatro. E c’è chi propone, anche dopo tanto liberismo negli ultimi 30 anni, soluzioni ancora più liberiste, efficientiste e tali da adeguare le istituzioni al modello occidentale.

Un intellettuale cinese di cosiddetta nuova sinistra, Huang Ping, in un saggio del 2003, approcciando tutti i tentativi di imitare lo stesso sviluppo occidentale con una critica interna, ha messo in evidenza il vero limite che li accomuna tutti: quello di non voler capire in che modo l’Occidente ha raggiunto i suoi livelli di benessere. “Questi progetti non hanno tenuto conto del contesto storico della Cina. Mai abbiamo prestato attenzione al fatto che lo sviluppo dei primi paesi industrializzati –Europa e Stati Uniti in particolare- non era stato oggetto di una ‘scelta razionale’. Se oggi questi paesi si presentano come strenui difensori di un ideale di società e/o governo ridotto alla più semplice espressione, essi sono anche gli Stati-nazione e le unioni di Stati-nazione più avanzati, e dispongono delle forze armate più poderose del mondo. L’Europa e gli Stati Uniti non avrebbero mai conosciuto un tale livello di benessere sociale, di sicurezza, di sistema giuridico e di regime fiscale se la loro storia non fosse fatta di colonizzazione, di sfruttamento e di migrazioni verso altre contrade; se il coloni americani non avessero decimato la popolazione amerindia, se non avessero importato gli schiavi africani e se gli Stati Uniti non avessero tratto succosi profitti da due guerre mondiali..”

Da quanto afferma Huang Ping possono derivare diverse scelte politiche, compresa quella di mettere in conto lo scontro militare per una nuova egemonia. In ogni caso, di fronte al nodo inaggirabile del sottosviluppo nel sistema capitalistico mondiale, diventano implausibili tutte le aspettative riformistiche da parte delle classi sfruttate. Il capitalismo non può essere migliorato neppure in termini meramente quantitativi, vale a dire non può essere spalmato in tutto il mondo con le stesse dosi delle aree dominanti. Non mi sfugge che di tanto in tanto qualche area assurge a livelli di vita comparabile a quelli occidentali. Si tratta però di piccole aree (la più grande è stata la Corea del Sud) che hanno usufruito di circostanze politiche del tutto eccezionali. Nella fase attuale invece ci occupa la Cina con un miliardo e mezzo di persone (con a seguire l’India). Il giorno in cui un’area come la Cina dovesse diventare capitalista come una Germania o un’Italia (i famosi late comers) non avremmo un allargamento del club o un cambio di egemonia. Paradossalmente, la Cina pienamente capitalista, con la sua eccedente quantità, sarebbe la fine del capitalismo stesso. Già il suo tentativo di andare in questa direzione sta provocando allarmanti reazioni.

Di quanto dovremo fare noi non starò qui a discutere, perché suppongo di non essere stato invitato a farlo in questa sede. E’ certo però che una predisposizione al minimo sforzo sarebbe del tutto fuori luogo.

COLONIALISMO COME ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

Quanto vado cercando di ripetere non è nuovo. Riprendo in effetti la vecchia tesi sull’importanza del colonialismo già esposta da Eric Williams. Potrei dire che qualcosa di simile viene detto anche da Marx nel famoso capitolo XXIV del Capitale, ma è più onesto ammettere che questo brano ha più un carattere storico/descrittivo che teorico, soprattutto se si considerano altri scritti sulla genesi del capitale alquanto contraddittori. E’ quindi più corretto attribuire a Williams la tesi che il colonialismo è il fattore fondativo dell’accumulazione originaria prima e del capitalismo industriale poi. Colonialismo come causa non causata. E’ stato poi Blaut che ha rafforzato questa tesi, dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio che il colonialismo non fu il risultato di una precedente superiorità o supremazia europea né di lunga data (a partire dalla mitizzata culla greca) né acquisita nel primo Rinascimento umanistico. James Blaut, avvalendosi delle più recenti e imponenti ricerche, ha messo brillantemente in evidenza che l’Europa precolombiana era in realtà la periferia dell’Eurasia in rapporto al centro del mondo che si trovava in Cina e all’impero Ottomano che, al di là della enfatizzata sconfitta di Lepanto nel 1570, continuò a salire verso l’Europa minacciando perfino Vienna nella metà del Seicento.

Naturalmente, devo anche dire di essere debitore verso i teorici della dependencia e del sistema mondo (senza per questo aderire alle loro scelte politiche) per quanto riguarda alcuni pezzi della teoria dello sviluppo del sottosviluppo, che dimostra la necessità imprescindibile per il capitalismo del sottosviluppo di estese periferie e quindi l’impossibilità di avere un capitalismo più equilibrato. Dal che deriva anche che l’attenzione dei rivoluzionari deve appuntarsi, in polemica con il razzismo che sottende il progressismo operaista, sul protagonismo di soggetti sociali, quali contadini poveri, precari, sottoccupati, disoccupati, lavoratori coatti, a nero. Questi soggetti sono marginali rispetto alla opulenza, ma sono essenziali ai fini dell’accumulazione capitalistica e comunque alla formazione di quella divisione del mercato del lavoro funzionale al contenimento dei salari. Sono peraltro pur sempre la stragrande maggioranza dell’umanità. Ma deriva soprattutto l’infondatezza di ogni aspettativa di voler rendere questo sistema più equo e più equilibrato, facendo affidamento su tentativi di “contaminare” dal basso le sue espressioni politiche e istituzionali.

Dunque, se volete avere un’idea più chiara e precisa di quanto ho sopra riassunto, fareste bene a non ascoltare me, ma a leggervi direttamente la letteratura cui faccio riferimento.

Il mio piccolo contributo riguarda il sostegno alle tesi predette a confronto con gli attacchi che esse hanno recentemente subito.

Non potendosi più questionare sulla superiorità della Cina, addirittura fino al 1700 e non solo fino all’epoca precolombiana, gli attacchi si sono concentrati contro l’importanza del colonialismo che ha preceduto la Rivoluzione Industriale. Per cui, se una volta il colonialismo era l’espressione di una precedente superiorità europea, da qualche anno a questa parte si tenta di relegarlo come nota a piè di pagina. E, fatto abbastanza curioso, essi hanno assunto una serie di analisi empiriche che precedentemente erano state utilizzate proprio dalla letteratura anticoloniale e critica della pretesa superiorità europea. Il ragionamento è all’incirca il seguente.

Alcune aree più avanzate dell’Eurasia erano grosso modo allo stesso livello fino all’inizio del Settecento. Forse la Cina era anche un po’ più avanti di tutte le altre. Già questo però proverebbe che il contributo coloniale non è stato così rilevante come si pretende. D’altra parte se la Cina, un po’ più avanti dell’Europa occidentale (con la sua valle dell’Yangtze più avanti dell’Inghilterra) non opera la svolta alla Rivoluzione Industriale e l’Inghilterra sì, vuol dire che, ceteris paribus, il fattore della Rivoluzione Industriale sarebbe stato endogeno all’Inghilterra. A prova assorbente di questa controtesi, si portano due circostanze:

1) - l’apporto quantitativo delle colonie americane sarebbe stato effettivamente modesto, tant’è che perfino agli inizi della Rivoluzione Industriale (seconda metà del Settecento) Patrick O’Brien ha potuto calcolare che i profitti derivanti da attività coloniali non erano responsabili di oltre il 7% degli investimenti lordi compiuti in Gran Bretagna.

2) - La penisola iberica, pur essendo stata la maggiore beneficiaria della manna coloniale fino al 1600, è rimasta poi largamente attardata.

Nel replicare, è opportuno una breve precisazione. Neanche io credo che il colonialismo sia stato di per sé sufficiente ad innescare il capitalismo industriale o, il che è lo stesso, che il capitalismo industriale sia stato la naturale e inevitabile prosecuzione del colonialismo. Senza il colonialismo, però, non sarebbe stata possibile la Rivoluzione Industriale e, ancor più, non sarebbe stato possibile che questa dispiegasse gli effetti dispiegati dalla fine del Settecento in poi. Al riguardo, sono d’accordo con Kenneth Pomeranz, sebbene io attribuisca un maggior rilievo al primo colonialismo.

Non posso qui spiegare ampiamente questo assunto, ma spero che alcuni esempi possano rendere l’idea.

Il primo colonialismo –si obietta- non sfruttò le terre fertili ed estesissime del Mid-West del Nord America e intorno al Rio de la Plata e si limitò a fornire alcune piante e tuberi (mais, patate) che furono subito messi a coltura anche in Asia senza perciò dare agli europei alcun vantaggio.

E’ vero. Ma saccheggiò l’argento (e l’oro) situato nel centro America e in alcune zone delle Ande. Vediamo quanto fu importante l’argento americano, che alcuni si ostinano a mettere sullo stesso piano di una carta moneta, che non produce ricchezza.

L’ARGENTO.

Innanzitutto, esso doveva essere estratto dalle miniere con un durissimo lavoro. All’uopo (non al durissimo lavoro!) provvidero imprenditori privati con l’aiuto della soldataglia spagnola e portoghese, che imponeva, con il terrore, ai nativi di prestare l’opera di scavo, di selezione e di trasporto del prezioso metallo. Una di queste miniere si trovava a circa 4.000 metri di altezza sulle Ande in una località denominata Potosì che divenne alla fine del 1500 una città di oltre 120.000 abitanti, quando le più importanti città dell’Europa ancora non si avvicinavano neppure ai 100.000 abitanti. Infatti, in pochi anni furono ammassati a Potosì circa 40.000 minatori nativi che, suddivisi in turni, lavoravano giorno e notte.

Alcuni studiosi, ritenendo questi lavoratori comunque coatti e, confrontandoli evidentemente con gli operai della Ford del XX secolo, pur di dimostrare che intanto in Europa si accumulavano maggiormente i fattori endogeni del capitalismo e che quindi che non siamo debitori verso nessuno, hanno cercato di svalutarli come figure di un modo di produzione antico (finalizzato alla sussistenza e al mercato locale). E’ facilmente constatabile invece che i mitayos di Potosì (e di tante altre miniere americane) erano i lavoratori perfetti, i più avanzati dell’epoca peraltro, per avviare il capitalismo (con la produzione di scala), se si tengono conto delle seguenti circostanze:

a) - all’epoca in Europa perfino quelli che erano stati privati della terra con le prime e sporadiche enclosures non si prestavano volentieri a diventare “mercenari” del lavoro. Nella maggior parte dei casi il lavoro salariato veniva prestato saltuariamente da semiproletari o semiproprietari, per cui qualsiasi impresa non poteva contare su un flusso costante di produzione. Figuriamoci poi un imprenditore che pretendeva di sfruttare al massimo una miniera richiedendo prestazioni giorno e notte. In un contesto del genere, anche le regioni più avanzate dell’Europa hanno conosciuto prime modeste manifatture e il lavoro a domicilio. Perfino nel primo Settecento, l’Inghilterra –la più avanzata di tutte- poteva contare su una quarantina di manifatture ciascuna con circa 400 dipendenti.

b) - anche quando arrivavano in America i lavoratori europei, dopo un periodo di servizio coatto, tendevano a sottrarsi al lavoro salariato, trovando più attraente appropriarsi di un sia pur piccolo lotto di terra.

c) - i primi schiavi africani costavano di più, primo perché dovevano essere acquistati e poi perché dovevano essere mantenuti a vita e perfino sepolti a spese del proprietario.

I mitayos delle miniere d’argento presentavano invece un doppio vantaggio: quello di essere forzati al lavoro, quando il lavoro sotto padrone non piaceva a nessuno, e quello di essere salariati, dispensando così l’imprenditore da qualsiasi altra spesa e preoccupazione.

Sia quello che sia, proviamo ora a valutare più precisamente l’importanza dell’argento sul mercato, che in quel periodo divenne davvero mondiale. Gli studiosi hanno calcolato che in un secolo (dalla metà del sec. XVI alla metà del sec. XVII) sono state trasportate, tramite il traffico legale, in Europa 17.000 tonnellate d’argento, che hanno triplicato lo stock mondiale del prezioso metallo (Hamilton, Chanau, Cross). E poiché il traffico legale era sottoposto a tassazione (del quinto imperiale), si sviluppò un notevole contrabbando che –secondo stime ben documentate- trasportò una quantità d’argento pari a quella legale.

Gli studiosi eurocentrici si sono subito affrettati a dire che questa enorme quantità di argento (e di oro che aumentò il proprio stock mondiale del 20%) fu più un danno che un vantaggio per l’Europa perché, dopo un primo smaltimento per pagare i fornitori dell’Est europeo e del Baltico, per acquistare legname e cereali, finì per provocare una rovinosa inflazione. Dimenticando però di aggiungere che l’argento in Europa fluidificò il mercato, sovvenzionò il warfare tramite la fiscalità delle nuove monarchie assolute, e soprattutto rafforzò la posizione dei fittavoli riducendo notevolmente –appunto con la svalutazione- i fitti pattuiti in quota fissa per periodi di 99 anni. I fittavoli saranno una delle figure chiave della rivoluzione capitalista agraria.

Gli studiosi eurocentrici si sono poi trovati di fronte ad un’altra circostanza per loro imbarazzante, al punto che essi spesso evitano di farne pure menzione: la maggior parte dell’argento si riversò in Asia, verso l’India e soprattutto verso la Cina. Le rare risposte che qualcuno talvolta ha dato sono quasi patetiche: essendo l’economia asiatica stagnante e dominata dal lusso dei satrapi, l’argento servì alla tesaurizzazione e all’ostentazione. Già questo non spiega minimamente però cosa ebbero gli europei in cambio dell’argento. Quindi, proviamo a rimettere ordine anche a questo riguardo.

Come è ormai pacificamente accettato da tutta la cosiddetta comunità scientifica, l’Europa fino al Cinquecento era una periferia con un’agricoltura pochissimo fiorente e con manufatti quasi per niente competitivi con quelli asiatici e islamici (ceramiche, sete, cotonate). Era dunque largamente importatrice, con una bilancia commerciale fortemente in passivo, e per di più doveva pagare i forti dazi dell’intermediazione ottomana, dopo il crollo dell’impero mongolo e della chiusura della via della seta. Provò ad aggirare l’intermediazione ottomana circumnavigando l’Africa, ma restava il problema –come fece notare il sovrano di Calicut a Vasco da Gama- che aveva poco o niente di offrire. A questo punto venne a soccorrere l’argento, di cui avevano bisogno non i ceti parassitari e sfarzosi del misterioso oriente, ma le economie indiane e cinesi. Soprattutto quella cinese, ampiamente mercantilizzata dalla dinastia Ming, a diffusa proprietà privata della terra e quindi monetizzata anche ai fini della riscossione delle imposte. A metà Quattrocento la dinastia Ming aveva deciso di usare le monete d’argento, in sostituzione della moneta di carta e di rame, per cui il metallo prezioso in Cina divenne di uso quotidiano e comune. E avendo i cinesi poco argento, con una popolazione che già si aggirava sui 100 milioni di abitanti ne ebbe ad esercitare (insieme all’India) una forte domanda, che comportò anche la protezione da parte loro dei pur infidi europei.

Parafrasando Gunder Frank, gli europei riuscirono finalmente con l’argento americano ad acquistare il biglietto di viaggio per raggiungere il centro del mondo in Asia.

Ciò comportò che in Europa, l’argento arrivatovi dall’America innescò la lavorazione per il conio, trasformando di nuovo, dopo l’estrazione, il prezioso metallo in una merce che venne scambiata finalmente con i manufatti asiatici altrimenti in larga misura irraggiungibili e, per quel tanto che potevano essere acquistati, provocavano una forte passività nella bilancia commerciale.

Non è però completo il quadro, se non aggiungiamo che una parte dell’argento serviva a comprare l’oro cinese (di prezzo più basso rispetto a quello europeo, come già rilevava Adam Smith: il rapporto oro/argento in Europa era 1 a 14 poi sceso a 1 a 11, mentre in Cina era 1 a 4 poi salito a 1 a 6), che veniva rivenduto in Europa per riacquistare una maggiore quantità di argento, formando un circuito ininterrotto che durò per un centinaio di anni (fino al 1640 all’incirca) e cioè fino a che il prezzo dell’oro non raggiunse un certo equilibrio con quello dell’argento. Flynn e Giraldez così scrivono al riguardo: “il divergente rapporto tra i due metalli preziosi comportava che uno poteva usare un’oncia d’oro per comprare 11 once di argento ad Amsterdam, trasportare l’argento in Cina e scambiare là 11 once d’argento con circa due once d’oro. Le due once d’oro potevano essere portate in Europa e scambiate con 22 once d’argento, che potevano essere trasportate in Cina dove il loro valore raddoppiava di nuovo.” Non c’è bisogno di aggiungere quanti effetti commerciali produsse questo sistema di arbitraggio globale, è però il caso di sottolineare che tramite l’argento si rafforzarono notevolmente le posizioni del capitalismo commerciale europeo all’interno a confronto con le monarchie e all’esterno sul mercato mondiale: sicuramente ad un livello di gran lunga superiore a quello raggiunto dai mercanti sulla lunga distanza dei tempi di Marco Polo. E l’aggettivo europeo non è in questo caso pleonastico, perché l’argento americano –nelle quantità sopra riferite- cadde solo nelle mani degli europei.

LE PIANTAGIONI.

L’altro esempio è quello delle piantagioni. Un marxista come Robert Brenner, per sminuire il ruolo delle colonie e per inferire che fu la lotta di classe il fattore rivoluzionario della trasformazione europea, ha cercato di sbeffeggiare quelli che egli ritiene in blocco terzomondisti come neo-smithiani. In altri termini, poiché il colonialismo consisterebbe sostanzialmente in una forma di commercio (scambio ineguale), i “terzomondisti” avrebbero teorizzato –come Smith- che il commercio crea o aumenta la ricchezza.

Ora, a parte che non si capisce per qual motivo la lotta di classe sarebbe rivoluzionaria in Europa (anzi, in Inghilterra) e sarebbe invece ininfluente, se non reazionaria, in tutto il resto del mondo, vediamo cosa significa una piantagione dopo che abbiamo considerato il ruolo dell’argento.

Essa serve a coltivare canna da zucchero (ma anche tabacco, indaco, tè e poi cotone). Il primo dato che sorprende lo storico è che essa non è originaria dell’America, ma è un prodotto sociale imposto con la forza e a discapito di altre coltivazioni o produzioni che servivano alla sussistenza dei nativi. Nella stessa potevano essere adibiti i nativi, ma vuoi perché questi furono sterminati dalle malattie europee vuoi perché avevano il vezzo di scappare per raggiungere con relativa facilità le comunità libere, i proprietari delle piantagioni avevano la possibilità di ricorrere a lavoratori europei o alla tratta degli schiavi africani. Con i lavoratori europei ebbero scarsi risultati per via della loro indisponibilità al duro lavoro in queste nuove aziende, che era molto più duro di quello del servo della gleba, e per il costo del viaggio che non potevano pagarsi. Con alcuni di loro ricorsero all’offerta della traversata gratuita in cambio di una servitù a tempo. Ma anche in tal caso si verificarono fughe premature, e in ogni caso alla fine della servitù i lavoratori europei accedendo al lotto di terra diventavano, con la loro autosufficienza, di scarso interesse se non di fastidio per le esigenze esportatrici della madrepatria. Si optò quindi per la schiavitù degli africani per due ragioni: la prima consisteva nel fatto che almeno all’inizio i neri avevano difficoltà a scappare e quindi assicurava una prestazione incessante; la seconda faceva capo alle esigenze fiscali delle corone che venivano soddisfatte sulla tratta.

Quando ci si rese conto che gli schiavi delle piantagioni provenienti dall’Africa, non producendo per la sussistenza, imponevano anche il bisogno di acquistare dalle madrepatrie, nella logica mercantilista dell’epoca essi furono imposti come unica soluzione ai proprietari delle piantagioni. Le colonie insomma dovevano produrre solo per l’esportazione di alcune monoculture e quasi niente per l’esigenze interne, per cui dovevano acquistare i manufatti dalla madrepatria.

Si insiste nel sostenere che però l’apporto di questa prima fase coloniale fu scarso, anche perché il numero degli abitanti in America era notevolmente ridotto (dopo lo sterminio provocato dalle malattie). Per dare qualche cifra, 3 milioni di abitanti in Messico, 6 milioni nell’ex impero inca, forse altri 4 o 5 milioni sparsi qua e là. Ma, a parte che si dimentica di dire che nello stesso periodo il Portogallo contava 3 milioni di abitanti, la Spagna 6 milioni e l’Inghilterra 2 milioni, nel solo anno 1600 il Brasile (cioè portoghesi e olandesi) esportarono una quantità di zucchero da canna equivalente a 2 milioni di sterline, cioè pari al doppio di tutte le esportazioni inglesi.

Ciò precisato e anche volendo assumere come punto di riferimento l’Inghilterra della seconda metà del Settecento (epoca in cui il volume produttivo inglese era notevolmente aumentato), sul quel 7% valutato da O’Brien facciamo alcune rapide considerazioni. La prima la deriviamo da Pomeranz, che fa notare la sua importanza in un’economia ancora tutto sommato protoindustriale. Egli assumendo alcuni studi di Simon Kuznets ritiene che in un’economia del genere il 7% è una percentuale decisiva, senza la quale si finisce addirittura in una spirale involutiva. E ciò senza valutare che lo stesso O’ Brien porta successivamente quel 7% al 20%.

Ha maggior rilievo però il fatto che lo scambio triangolare nell’Atlantico (imbarco di manufatti nei porti come Liverpool e Bristol, acquisto di schiavi in Africa con tali manufatti, acquisto dello zucchero in America con gli schiavi) mette in moto una serie di attività produttive che O’Brien non calcola certamente come attività coercitiva. La cantieristica, il miglioramento dei trasporti, la produzione di alcuni manufatti hanno un’enorme incidenza per lo sviluppo di alcune aree europee. Liverpool e Bristol non esistevano e diventarono tra le città più prospere e più importanti dell’Europa e, guarda caso, erano coinvolte fino all’ultimo barbiere nell’attività atlantica. Mentre l’Italia che presentava, prima della conquista coloniale, i maggiori coefficienti per la performance che poi vide protagonista l’Inghilterra scivolò agli ultimi posti. Colpa del cattolicesimo? Non continuiamo a ripetere questa sciocchezza. Anche l’Inghilterra era cattolica prima di conquistare l’America e nella sua “gloriosa rivoluzione” borghese molti protestanti si trovarono dalla parte dell’Assolutismo. O merito della rivoluzione agraria del Quattrocento in Inghilterra con l’emergenza dei proprietari e dei fittavoli capitalisti? Basta dare uno sguardo più attento alla stessa narrazione marxiana che, per quanto si sforzi di individuare nell’ultimo terzo del Quattrocento inglese la genesi del capitalismo, finisce per precisare che i fittavoli erano allora ben misera cosa e che perfino all’inizio del Cinquecento i proprietari dei primi greggi non potevano possedere più di 2.000 capi. Per contro nel giro di pochi anni avremo nel Centro America allevatori con 80.000 capi di bestiame e un’azienda come quella di Cortès con 40.000 pèones.

MA PERCHE’ L’INGHILTERRA E NON LA SPAGNA?

In genere quando si obietta che la penisola iberica, mancando di innescare la Rivoluzione Industriale, sarebbe la dimostrazione inconfutabile dell’irrilevanza del colonialismo ai fini del capitalismo, si sorvola con disinvoltura su una serie di fatti.

Prima di indicarli, è di nuovo opportuno precisare che la tesi che sto sostenendo non è: il colonialismo basta e avanza per dar luogo al capitalismo, ma il colonialismo è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, al predetto esito.

Ciò precisato, va ricordato che anche le prime traversate atlantiche videro coinvolti molti interessi europei, che non facevano solo capo ai reali della penisola iberica. Per tutti, valga l’esempio dei genovesi e degli olandesi.

V’è poi da aggiungere che nel 1519, proprio mentre iniziava la conquista dell’impero azteco, la Spagna divenne parte di un impero che copriva gran parte dell’Europa con a capo Carlo V (che non era propriamente uno spagnolo e i cui interessi si intrecciavano piuttosto nelle Fiandre, in Germania ed Austria).

Tenendo conto di ciò, il sostenere che la penisola iberica fu la prima e l’unica beneficiaria del colonialismo è quanto meno parziale e fuorviante. A beneficiare del colonialismo fu certamente anche la penisola iberica, ma soprattutto una buona parte dell’Europa ed in particolare le Fiandre, che poi, utilizzando questo trampolino di lancio, saranno protagoniste di una prima rivoluzione protocapitalista. In tale direzione usufruirono di due vantaggi che la Spagna non aveva: le Fiandre insieme con l’Italia settentrionale avevano già avviato processi di rinnovamento nel tardo medio evo in campo commerciale, bancario e produttivo; avevano la possibilità di importare, a costi bassi, la lana dalla dirimpettaia Inghilterra, che –anche in ragione della sua scarsissima popolazione- si poteva permettere il maggior numero di animali da pascolo.

Le classi dominanti nella penisola iberica, peraltro, commisero all’epoca della Reconquista l’errore di perseguitare e scacciare gli ebrei e gli arabi, che erano la spina dorsale del commercio, delle arti, delle scienze e dei mestieri. Si stima che tra progrom ed emigrazioni la perdita abbia superato il 10% della popolazione. L’olandese Spinoza era discendente di una famiglia ebrea scappata da Lisbona.

Ma perché proprio l’Inghilterra e non l’Olanda? Intanto, va detto che l’Olanda, anche se perse la sua supremazia nel Settecento, fu un paese che comunque conobbe una precoce moderna industrializzazione. Questo è bene rammentarlo, perché per l’esigenza di meglio concettualizzare la drammaticità della rivoluzione industriale, ci si sofferma troppo sull’Inghilterra, dove il fenomeno conobbe una maggiore accelerazione proprio a partire dalla seconda metà del Settecento. In Olanda il passaggio fu meno drammatico anche perché questo paese si era trovato più avanti nel Seicento, ma da qui a dire che l’Olanda, pur colonialista, non conobbe la Rivoluzione Industriale nel Sette/Ottocento ce ne corre.

E PERCHE’ NON L’ITALIA?

Secondo me, per meglio chiarire perché l’Inghilterra e non l’Olanda, il confronto va fatto con le Repubbliche marinare. Si può congetturare quanto si vuole, alla Weber, sul cattolicesimo come ostacolo maggiore allo sviluppo di una mentalità volta al profitto, ma fu proprio in Italia, con la presenza del Vaticano, che fiorirono precocemente (per quanto riguarda l’Europa) i primi germogli del capitalismo con istituzioni politiche e finanziarie volte a favorirne la crescita. Ma le repubbliche marinare si trovarono troppo lontane dall’Atlantico e con coefficienti territoriali inadeguati per dar luogo alla formazione di uno Stato nazionale con quella taglia media necessaria, secondo Hobsbawn, ad affrontare il nuovo agone. Forse non ci riuscì per la presenza del Vaticano. Ma è difficile concordare del tutto su questa tesi, se si pensa che neppure la Germania ci riuscì e l’Olanda ci riuscì in misura inadeguata. Ci riuscì l’Inghilterra nel modo migliore, ma non certo perché ivi la lotta di classe era più lotta di classe che altrove. L’Inghilterra era un’isola abbastanza grande, con il vantaggio di essere a)-ben difendibile, b)-di essere comunque vicina al continente europeo, c)-di trovarsi nella posizione migliore per sfruttare il nuovo traffico triangolare nell’Atlantico.

Dopodiché è plausibile che la Rivoluzione Industriale non si spiega senza la precedente rivoluzione agricola, gli avanzamenti tecnologici e la Rivoluzione della seconda metà del Seicento che portò al potere la borghesia (circostanza questa che non si verificò in Cina). Ma tutto ciò avviene nel contesto di un mercato atlantico in cui l’Inghilterra aveva assunto posizioni di punta.

A tal riguardo, va anche rimarcato che, in virtù della sua posizione insulare proiettata nel Nord dell’Atlantico, l’Inghilterra fin dall’inizio del 1600 riuscì ad occupare il Nord America, le Barbados e subito quella parte dei Caraibi, che risultarono le aree più vantaggiose per il traffico triangolare di cui si è sopra parlato. E fu proprio l’Inghilterra che via via trasse il massimo profitto dalla tratta degli schiavi, finendone per essere anche la maggiore sostenitrice. Come si può ricavare dalla tabella di Philip Curtin –il più accreditato studioso della tratta- il maggior numero di schiavi non fu trasportato dai “feudali” portoghesi e spagnoli, ma proprio dall’Inghilterra borghese/progressista e via via che prendeva quota la sua rivoluzione industriale. La relazione tra gli schiavi che lavoravano il cotone nelle piantagioni e le industrie tessili del Lancashire è a prova di bomba.

Silvio Serino

PS – Ma allora non è la lotta di classe il fattore decisivo della vicenda umana e quindi delle varie trasformazioni sociali, economiche e istituzionali, ivi compresa quella che produsse il capitalismo? Non ho alcun dubbio sulla decisiva importanza della lotta di classe. Ma tale prime mobile è comune a tutte le popolazioni del globo. L’insistenza invece sulla maggiore vivacità dei contadini (servi della gleba) europei occidentali rispetto a quelli cinesi è scopertamente eurocentrica, oltre che essere del tutto infondata e apologetica verso il capitalismo. E non riesco ad attribuire altro senso a quanto ha sostenuto una studiosa come la Collotti-Pischel che pure si dichiarava critica dell’eurocentrismo: a suo dire infatti le frequenti e imponenti rivolte cinesi (più frequenti e più imponenti che in Europa) sarebbero state sempre incapaci di ottenere risultati significativi, essendo stato l’impero una costante fino al 1911. Se è vero che i contadini europei sono arrivati a liberarsi della servitù della gleba, davvero non si capisce in che cosa consisterebbe il passo in più in Europa, visto che i contadini cinesi di tale servitù si sono liberati anche loro e con largo anticipo.

Se dunque la lotta di classe ha caratterizzato tutte le aree –e nel periodo Ming è stata particolarmente virulenta in Cina-, è gioco forza ricercare un quid pluris che ha consentito all’Europa occidentale di deviare verso il capitalismo industriale.

Silvio Serino

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