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Adesso serve un "imperialismo" europeo

da "Il Riformista" del 28 ottobre 2002

(2 Novembre 2002)

Iraq e petrolio. Guerra, sicurezza e politica energetica

di Marco Meini Delegato Fiom della Rsu Nuovo Pignone

Il Nuovo Pignone vive vendendo macchine per estrarre e trasportare petrolio e gas. E' naturale, perciò, che la nostra azienda sia un osservatorio privilegiato del mercato globale conosciuto col nome di Oil&Gas. Si tratta di un mercato che influenza gli eventi politici planetari e condiziona le scelte di chi governa i paesi più potenti della terra. E' importante sapere che, seppure la richiesta di energia nel mondo sia in aumento, oggi la costruzione delle pipelines (gasdotti e oleodotti, per intenderci) è un po' in affanno, mentre stanno andando forte tutti i progetti nei quali gas e petrolio sono estratti direttamente dai pozzi e trasportati via nave, così si evitano investimenti nei gasdotti. Questa tendenza si può spiegare col fatto che molti dei futuri tracciati delle pipelines dovrebbero attraversare territori che attualmente non godono proprio di grande stabilità politica, come il Medio Oriente, alcune delle repubbliche sorte dopo il crollo dell'impero sovietico, il Pakistan, l'Afghanistan e anche alcuni paesi del Sud America, attualmente sconvolti da una crisi economica così profonda da destabilizzare la stessa convivenza civile. Questa situazione è diventata fonte di insicurezza per tutte quelle nazioni che per svilupparsi hanno bisogno di energia a buon prezzo. Insomma, voglio dire che alla fine esiste una grande domanda di stabilità, necessaria per far crescere l'economia. Tutti auspicano un sistema in cui il forte protegge il debole, in cui l'efficiente e ben governato esporta stabilità e libertà, in cui il mondo sia aperto agli investimenti e alla crescita. Dimostrazione di questo fatto è il numero crescente di paesi che aspirano a far parte della Comunità Europea.

In altri tempi esisteva il colonialismo, ma oggi, nel nuovo millennio, tutto ciò non è più possibile. Non è solo questione di risorse: un pugno di uomini bianchi (gli europei saranno appena 600 milioni nel 2050 e gli africani due miliardi) non può più controllare il mondo come un pugno di britannici controllò l'India. E' anche questione di valori. Le stesse ragioni che hanno reso il mondo sviluppato più ricco di quello povero, libertà di scambi e stato di diritto, gli rendono oggi impossibile fare ciò che fece nel passato: colonizzare con l'uso della forza.

Adesso, nell'Oil&Gas, si dibatte sul problema Iraq. In merito all'intervento militare esiste solo un'intesa di ferro, quella tra Usa e Gran Bretagna, mentre durissime sono state le prese di posizione del mondo arabo e dell'Unione europea. La nostra azienda ha molti lavoratori sparsi in quasi tutti i paesi del Medio Oriente. Alcuni di loro vivono là da anni, altri invece vi risiedono per brevi periodi, ma tutti concordano nell'affermare che gran parte dei paesi arabi sarebbe ben lieta dell'eliminazione di Saddam. Giordania, Turchia ed Emirati Arabi sono sì in disaccordo con l'intervento militare, ma hanno sul loro territorio truppe statunitensi e britanniche. E anche gli stati arabi moderati, intimoriti dall'esplodere di una eventuale guerra santa, stanno valutando i possibili benefici del sostegno offerto agli Usa. L'Europa sembra non capire che la posta in gioco è molto alta e non riesce ad esprimere un'alternativa politica o militare credibile. Ma di quale posta in gioco stiamo parlando?

La caduta di Saddam fa parte di un complesso obiettivo strategico che Washington ha in testa: assumere il controllo di ampie aree petrolifere per indebolire il ruolo dell'Arabia Saudita. E' ovvio che l'intesa russo-americana è frutto della sensazione, se non della certezza, che Ryadh sia coinvolta con Al Qaeda e con la guerriglia islamica in Cecenia: l'accordo che porterà nelle raffinerie statunitensi il petrolio russo mira proprio a indebolire finanziariamente i sauditi e a indurre i paesi arabi a distanziarsene. Impossibile, almeno per quanti hanno familiarità con l'universo dell'Oil&Gas, non capire che l'interessamento del governo turco sui giacimenti petroliferi iracheni (quelli di Kirkuk e Mosul) non anticipa uno smembramento dell'Iraq post-Saddam ma semmai la possibilità che il greggio iracheno non abbia più il suo sbocco naturale sullo Shatt-el-Arab (o nei porti siriani), ma confluisca nella grande rete di pipelines progettate e previste per convogliare anche il petrolio e il gas del Caucaso e dell'Asia ex-sovietica nell'affidabile e alleata Turchia. Il vero obiettivo è togliere peso strategico all'area del Golfo normalizzando l'Iraq per isolare l'Arabia Saudita (e anche l'Iran) e avere così a disposizione energia a basso costo per almeno altri vent'anni!

Quello che l'Europa dovrebbe chiedersi prima di assumere posizione circa il conflitto è se questo obiettivo rientri nei nostri interessi strategici. Certo per fare questa analisi sarebbe necessario avere una strategia politica, energetica e di sicurezza (sì, sto parlando proprio di un esercito e di un servizio di intelligence adeguati al nostro ruolo). Parliamoci chiaro. Dopo l'11 settembre molti paesi europei, insieme a Russia, Cina e India, stanno con i piedi in due staffe: da un lato cooperano con gli Usa contro il terrorismo islamico, che costituisce davvero una grave minaccia, dall'altro, dopo la fine dell'Urss e della guerra fredda, cercano di impedire il consolidarsi del dominio globale statunitense, del resto sempre più insofferente a riconoscere nell'Onu la sede legale per ratificare le decisioni di politica internazionale. La partita in corso si gioca su una scacchiera globale, nella quale l'Iraq è la prima mossa. Per questo sarebbe auspicabile che il dibattito politico, in Europa e anche in Italia, si sviluppasse intorno alla precisa valutazione di quali siano i nostri veri interessi, invece che sul penoso confronto tra i filo-americani che vedono ancora negli Usa l'unico baluardo della democrazia e coloro che, al contrario, considerano Washington responsabile di tutte le disuguaglianze sociali del mondo. L'Europa deve avere il coraggio di dare il via ad un "nuovo imperialismo", già ben avviato dal processo di integrazione dei paesi appena decolonizzati dell'est e del sud del nostro continente. Ma la cosa straordinaria è che mentre l'antica Roma dovette esportare le sue leggi e la sua moneta con la forza degli eserciti, oggi sono gli stessi paesi confinanti con la Ue che lavorano duramente per adattare le proprie leggi e le proprie economie in modo da essere accettati nel nuovo Impero Cooperativo.

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