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(11 Dicembre 2006)
Lo scorso 3 dicembre, il leader venezuelano Hugo Chavez è stato rieletto per la terza volta alla presidenza del suo Paese con una quantità di voti enorme, una vittoria da ‘landslide’, come si usa dire nelle nazioni anglosassoni: 61% contro 38% del candidato dell’opposizione Manuel Rosales. Grazie a tale affermazione potrà restare alla guida del Venezuela altri sei anni, fino al 2012. Secondo i rappresentanti dell’Unione Europea, del Mercosur e del Carter Center, le consultazioni si sono svolte in maniera del tutto regolare, dando una dimostrazione di reale maturità democratica. Chavez, non appena venuto a conoscenza dei risultati elettorali, si è affacciato al balcone di Palazzo Miraflores (la sede del governo) e ha rivolto un discorso lungo quasi un’ora ai suoi sostenitori.
Tenendo a mente l’ottimo risultato personale ottenuto alle urne, l’ex colonnello dei parà ha voluto interpretarlo come un chiaro mandato popolare a continuare sulla strada intrapresa finora. Ha quindi sostenuto che nei prossimi sei anni di governo farà di tutto per approfondire la sua rivoluzione bolivariana tesa a trasformare la società venezuelana, vista come una vera e propria via autoctona al socialismo. A suo giudizio, uno degli strumenti più adatti a favorire l’approfondimento della rivoluzione e lo sviluppo del Venezuela dovrebbe essere individuato nel trasferimento della proprietà di fabbriche e imprese a cooperative di lavoratori.
Parole che fanno tornare alla mente epoche passate, ma che incontrano il pieno sostegno della popolazione più povera che grazie alle politiche chaviste è passata da una situazione di totale esclusione a un inizio di reale inclusione socio-economica. Non a caso, in base ad alcuni sondaggi riportati dal Washington Post, il sostegno popolare verso l’amministrazione Chavez ha raggiunto punte del 66 per cento.
Tuttavia, malgrado i progressi compiuti, una grave piaga del precedente sistema politico venezuelano sembra essere tornata in auge: la corruzione. Secondo quanto riportato da Newsweek in un articolo del luglio scorso, nel 2005, il giudice Luis Velasquez Alvaray, uno dei maggiori collaboratori giuridici del movimento chavista per la quinta repubblica, venne accusato dal ministero dell’Interno di avere intascato quattro milioni di dollari in tangenti per la costruzione di alcuni nuovi tribunali. Questi aveva tentato di negare ogni addebito, ma il dubbio è rimasto e secondo molti osservatori, l’affare Velasquez sarebbe solo la punta dell’iceberg di una vasta diffusione della corruzione a tutti i livelli di amministrazione, in grado di mettere in pericolo l’intero impianto della rivoluzione bolivariana.
Secondo un rapporto del National Contracting System (un organismo finanziato dal governo di Caracas), il 95 per cento dei contratti pubblici stipulati nel corso del 2004 sarebbe stato affidato senza alcun riguardo per il rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza. In un altro rapporto pubblicato dal gruppo berlinese Transparency International, il Venezuela si troverebbe al 130° posto su 159 per il grado di diffusione della corruzione in ambito sociale e politico. Consapevole che la crescita di un simile fenomeno potrebbe costituire un grave handicap per un governo affermatosi anche come risposta di onestà ed efficienza ad un livello di corruzione e malgoverno divenuti endemici, Chavez, nel suo primo discorso post-voto, ha voluto prendere un impegno chiaro contro tale piaga.
Se tale presa di posizione rappresenta un dato certamente positivo, subito dopo il presidente ha ribadito la sua intenzione di modificare la costituzione per trasformare a vita il suo mandato. La necessità di tale scelta evidenzia una situazione di debolezza, poiché Chavez è ben consapevole che nel suo entourage nessuno appare in grado di prendere il suo posto e continuare sulla strada del sogno bolivariano, ma i tal modo rischia di togliere legittimità a una vittoria chiara e ben definita. Lo spettro di un governo a vita tendenzialmente dittatoriale non può che indebolire la prospettiva della rivoluzione bolivariana, poiché nessuno potrebbe continuare a dare fiducia a un leader senza più un collegamento diretto con la volontà popolare, soprattutto in considerazione dei segnali di una possibile apertura nei suoi confronti da parte degli Stati Uniti.
Il giorno prima del voto, Thomas Shannon, sottosegretario di Stato per l’emisfero occidentale, in una intervista al quotidiano spagnolo El Pais, si era spinto a riconoscere il carattere democratico del contesto politico venezuelano, fornendone una definizione che fino ad allora nessun esponente dell’amministrazione Bush si era arrischiato a dare. Anche l’ambasciatore William Brownfield, si era congratulato con il governo di Caracas per l’esito pacifico della consultazione e aveva espresso l’intenzione del suo paese di intrattenere relazioni più cordiali con il Venezuela.
Il possibile nuovo corso di Washington potrebbe essere interpretato come una svolta realista. Dopo aver tentato di contrastare la rielezione di Chavez in molti modi - dal vasto finanziamento alla campagna elettorale di Manuel Rosales ai tentativi, secondo alcuni osservatori, di una ucrainizzazione della contesa presidenziale venezuelana - la Casa Bianca, di fronte a una affermazione popolare così netta, ha deciso di fare buon viso a cattivo gioco.
I vertici della diplomazia statunitense hanno preso atto che dovranno fare i conti con l’ex parà per almeno altri sei anni e quindi potrebbero aver concluso che è necessario tentare di instaurare qualche forma di modus vivendi. La necessità di un dialogo Usa-Venezuela sembra oggi ancora più urgente in considerazione che l’affermazione di Chavez non è isolata poiché, unita alle ultime vittorie di Daniel Ortega in Nicaragua, Rafael Correa in Ecuador e Lula da Silva in Brasile, rappresenta un ulteriore rafforzamento del graduale spostamento a sinistra di gran parte della regione latino-americana, lontano dalla tradizionale egemonia di Washington sul subcontinente.
Pier Francesco Galgani
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